NC-76
26.11.2021
La sensazione da cui partire è che questo 2021 cinematografico stia rappresentando quel tramonto del maschile - e più precisamente del paterno inteso come legge severa, netta, sorda - di cui la società si è già accorta da tempo. L’iper-centralità maschile delle narrazioni classiche e di gran parte del cinema dell’altro ieri non è estinta, ma piuttosto diluita, ibridata da un’accettazione del femminile e conseguentemente del materno. Di pari passo, si è evidenziato un progressivo imperare della figura femminile in ogni campo della narrazione: un’istanza narrante imprescindibile, un attante necessario al progredire della storia, un corpo narrativo simbolico per una riflessione sulla società e dunque un’occasione di decostruzione dei cliché sulla femminilità più stereotipata. Tale tendenza è stata segnalata in modo emblematico anche da un’abitudine narrativa apparsa come fisiologica, naturale e in un certo senso necessaria in alcuni fra i film più importanti dell’anno: la presenza dominante di protagoniste forti e risolute al confronto con la maternità, o piuttosto, con l’idea di essere madri.
Quello che ad esempio colpisce de L’Evenement di Audrey Diwan, Leone D’oro per il miglior film all’ultimo festival di Venezia, è il totale rifiuto verso qualsiasi forma di assoluzione, comodità o protezione per lo spettatore. Il film non nasconde nulla, neanche l’atroce veduta di un aborto, e tacciare questa scelta di sensazionalismo o pornografia del dolore sarebbe superficiale. In fondo, questo adattamento de L’evento di Annie Ernaux riprende la stessa crudezza del testo di origine, la medesima freddezza con cui l’acclamata autrice francese descrive gli eventi tragici che l’hanno coinvolta come fossero qualcosa di distante o esterno, veduto da una dimensione oggettiva e asettica e quindi ancora più nitida e dilaniante nel suo dato emotivo. L’oggetto del desiderio di Anne è granitico, sempre lo stesso, quasi sacro nel suo escludere qualsiasi sottolinea narrativa. Anne vuole abortire, sottrarre alla vita ciò che ha mutato la condizione inaugurale del racconto, quella che la vedeva come promettente studentessa di lettere all’università. Non ci sarà spazio per un singolo dubbio, come l’approccio drammatico moderno vorrebbe. È in questo senso che Anne è una protagonista forte, quasi da Hollywood classica nel suo non dubitare, nel suo coincidere pienamente col suo desiderio.
Proprio per questi motivi, quell’oggetto del desiderio agognato per tutta la durata dell’opera non può essere relegato al fuoricampo. Vedendo l’aborto, più vero del vero, sulla scena, lo spettatore non sta guardando un trofeo, ma piuttosto attestando una separazione corporea e insieme un’unione ombelicale, la stessa che fa di Anne l’unica deputata ad una scelta. Mostrare l’aborto, così come gli sforzi ripetuti e laceranti, le molteplici torture auto-inflittesi per raggiungerlo, non è che un atto di fiducia e amore verso il racconto cinematografico inteso come veicolo capace di uno sguardo politico sul mondo. Ed è per lo stesso motivo che, osservando il susseguirsi delle scene, possiamo notare come la regia rigorosa e fluida di Audrey Diwan isoli la sua protagonista dal contesto, deputando lei solamente alla messa a fuoco. L’istanza narrante, sempre prossima alla sua eroina, usa il suo corpo come quinta, filtro inevitabile tra noi e il mondo che la circonda, meritevole della nitidezza solo se è Anne ad addentrarvisi. In quanto unica detentrice del potere decisionale sul suo corpo, Anne è quindi imprescindibile sia discorsivamente che visivamente.
È inevitabile, a questo proposito, citare l’altro grande premio di questa stagione, la discussa Palma D’Oro a Titane. A livello estetico, l’opera della promettente Julia Ducournau, in bilico tra visualità cyberpunk e un gotico che ammicca alla distopia, non ha niente da spartire con l’immediatezza stilistica de L’Evenement, trasparente nel suo sguardo sul mondo. A troneggiare sulla narrazione è però sempre una madre “imprevista”, la quale in questo caso, a differenza di Anne, desidera avere il figlio che porta in grembo nonostante i risvolti fisici sul suo corpo siano devastanti. Quel figlio terribile e amato è frutto di un rapporto tra il femminile e un corpo inorganico, meccanico, da cui si deduce un superamento della necessità del gamete maschile per riprodursi.
Non è infatti un caso se la protagonista di Titane, a costo di dare alla luce il feto, arriverà a negarsi nella sua riconoscibilità, ad appropriarsi delle evidenze di entrambi i generi e insieme a rivelare sempre di più la sua natura robotica, ibrida tra il dato biologico e quello metallico, fino all’esito sacralmente tragico, in cui la figura paterna avrà una nuova occasione di valenza, ma comunque indotta, casuale, accessoria. Di fatto, queste due opere sono opposte per ambientazione, genere, immaginario e approccio, ma narrano entrambe di donne desiderose o repulsive nei confronti della maternità, le quali si fanno vettori di una narrazione che parte dal loro corpo per attingere alla collettività tutta.
Questa linea di congiungimento tra corpo materno, femminile e collettività è anche una peculiarità di Madri Parallele. L’ultima opera di Almodovar è da considerarsi una svolta epocale per la sua filmografia, proprio per il suo accantonare il melò in favore di una resa storico-politica della vicenda narrata. La maternità, ancora una volta è assoluta - tanto da essere doppia - ed esclude dal mondo narrativo qualsiasi tipo di importanza o decisionalità della figura maschile. Il dato più importante però è che la maternità, in Madri Parallele, è l’occasione per mettere in discussione l’irreversibilità del tempo, per cui la riesumazione di un militante anti-franchista diventa uno slancio verso il futuro, mentre la maternità sottratta alla protagonista un gancio per scavare nel passato.
Meno eclatante è sicuramente l’approccio narrativo usato dall’esordiente Maggie Gyllenhaal nel suo The Lost Daughter, adattamento di Elena Ferrante e vincitore della migliore sceneggiatura a Venezia 78. Anche Dakota Johnson e una superlativa Olivia Colman sono due madri parallele, unite dalla stessa insofferenza verso la prole, sincere nel loro ammettere la non totalità del sentimento d’affetto verso il figlio. Non si parla di baby blues o archetipiche madri esaurite, ma piuttosto di un momento in cui diventa necessario prediligere le proprie aspirazioni ed interiorità rispetto a ciò che si è generato. Va detto come il personaggio di Olivia Colman sia, a differenza di Anne, piena di rimorsi e sensi di colpa, ma l’importante è che sia lei - in questo caso tramite un andamento riflessivo più che d’azione - a possedere la narrazione. Le figure maschili, come negli esempi precedenti, sono subalterne, a volte inette, in ogni caso, a bordo scena. A questo proposito, non è certo un caso se nel roboante e sontuoso Annette di Leos Carax, miglior regia al festival di Cannes 2021, il trionfo della paternità su un materno eternamente perituro è in realtà un buco nell’acqua, attestazione di una performance e quindi di una finzione.
La maternità nel cinema del 2021 si è dimostrato dunque un luogo affollato, spesso politico, etico e portatore di significati conflittuali. Ciò che è importante sottolineare è come appaia con sempre maggiore forza una tematica cardine per sviluppare la dialettica tra cinema e istanze sociali. Il suo compimento non è dato per scontato, perché il tema della maternità è spesso un espediente per guardare al femminile in modo non edulcorato, stereotipato, dato a priori. A questo proposito, il tenero ed esile Petit Maman di Céline Sciamma mette in scena un rapporto, tra sogno e ricordo, tra una madre e una figlia che si relazionano da coetanee. Di nuovo due (non ancora) donne al confronto, un gap temporale, un’inversione cronologica, ma soprattutto un rapporto diretto, un dialogo sincero e immediato tra madre e figlia, tra l’oggi e la potenzialità del domani.
NC-76
26.11.2021
La sensazione da cui partire è che questo 2021 cinematografico stia rappresentando quel tramonto del maschile - e più precisamente del paterno inteso come legge severa, netta, sorda - di cui la società si è già accorta da tempo. L’iper-centralità maschile delle narrazioni classiche e di gran parte del cinema dell’altro ieri non è estinta, ma piuttosto diluita, ibridata da un’accettazione del femminile e conseguentemente del materno. Di pari passo, si è evidenziato un progressivo imperare della figura femminile in ogni campo della narrazione: un’istanza narrante imprescindibile, un attante necessario al progredire della storia, un corpo narrativo simbolico per una riflessione sulla società e dunque un’occasione di decostruzione dei cliché sulla femminilità più stereotipata. Tale tendenza è stata segnalata in modo emblematico anche da un’abitudine narrativa apparsa come fisiologica, naturale e in un certo senso necessaria in alcuni fra i film più importanti dell’anno: la presenza dominante di protagoniste forti e risolute al confronto con la maternità, o piuttosto, con l’idea di essere madri.
Quello che ad esempio colpisce de L’Evenement di Audrey Diwan, Leone D’oro per il miglior film all’ultimo festival di Venezia, è il totale rifiuto verso qualsiasi forma di assoluzione, comodità o protezione per lo spettatore. Il film non nasconde nulla, neanche l’atroce veduta di un aborto, e tacciare questa scelta di sensazionalismo o pornografia del dolore sarebbe superficiale. In fondo, questo adattamento de L’evento di Annie Ernaux riprende la stessa crudezza del testo di origine, la medesima freddezza con cui l’acclamata autrice francese descrive gli eventi tragici che l’hanno coinvolta come fossero qualcosa di distante o esterno, veduto da una dimensione oggettiva e asettica e quindi ancora più nitida e dilaniante nel suo dato emotivo. L’oggetto del desiderio di Anne è granitico, sempre lo stesso, quasi sacro nel suo escludere qualsiasi sottolinea narrativa. Anne vuole abortire, sottrarre alla vita ciò che ha mutato la condizione inaugurale del racconto, quella che la vedeva come promettente studentessa di lettere all’università. Non ci sarà spazio per un singolo dubbio, come l’approccio drammatico moderno vorrebbe. È in questo senso che Anne è una protagonista forte, quasi da Hollywood classica nel suo non dubitare, nel suo coincidere pienamente col suo desiderio.
Proprio per questi motivi, quell’oggetto del desiderio agognato per tutta la durata dell’opera non può essere relegato al fuoricampo. Vedendo l’aborto, più vero del vero, sulla scena, lo spettatore non sta guardando un trofeo, ma piuttosto attestando una separazione corporea e insieme un’unione ombelicale, la stessa che fa di Anne l’unica deputata ad una scelta. Mostrare l’aborto, così come gli sforzi ripetuti e laceranti, le molteplici torture auto-inflittesi per raggiungerlo, non è che un atto di fiducia e amore verso il racconto cinematografico inteso come veicolo capace di uno sguardo politico sul mondo. Ed è per lo stesso motivo che, osservando il susseguirsi delle scene, possiamo notare come la regia rigorosa e fluida di Audrey Diwan isoli la sua protagonista dal contesto, deputando lei solamente alla messa a fuoco. L’istanza narrante, sempre prossima alla sua eroina, usa il suo corpo come quinta, filtro inevitabile tra noi e il mondo che la circonda, meritevole della nitidezza solo se è Anne ad addentrarvisi. In quanto unica detentrice del potere decisionale sul suo corpo, Anne è quindi imprescindibile sia discorsivamente che visivamente.
È inevitabile, a questo proposito, citare l’altro grande premio di questa stagione, la discussa Palma D’Oro a Titane. A livello estetico, l’opera della promettente Julia Ducournau, in bilico tra visualità cyberpunk e un gotico che ammicca alla distopia, non ha niente da spartire con l’immediatezza stilistica de L’Evenement, trasparente nel suo sguardo sul mondo. A troneggiare sulla narrazione è però sempre una madre “imprevista”, la quale in questo caso, a differenza di Anne, desidera avere il figlio che porta in grembo nonostante i risvolti fisici sul suo corpo siano devastanti. Quel figlio terribile e amato è frutto di un rapporto tra il femminile e un corpo inorganico, meccanico, da cui si deduce un superamento della necessità del gamete maschile per riprodursi.
Non è infatti un caso se la protagonista di Titane, a costo di dare alla luce il feto, arriverà a negarsi nella sua riconoscibilità, ad appropriarsi delle evidenze di entrambi i generi e insieme a rivelare sempre di più la sua natura robotica, ibrida tra il dato biologico e quello metallico, fino all’esito sacralmente tragico, in cui la figura paterna avrà una nuova occasione di valenza, ma comunque indotta, casuale, accessoria. Di fatto, queste due opere sono opposte per ambientazione, genere, immaginario e approccio, ma narrano entrambe di donne desiderose o repulsive nei confronti della maternità, le quali si fanno vettori di una narrazione che parte dal loro corpo per attingere alla collettività tutta.
Questa linea di congiungimento tra corpo materno, femminile e collettività è anche una peculiarità di Madri Parallele. L’ultima opera di Almodovar è da considerarsi una svolta epocale per la sua filmografia, proprio per il suo accantonare il melò in favore di una resa storico-politica della vicenda narrata. La maternità, ancora una volta è assoluta - tanto da essere doppia - ed esclude dal mondo narrativo qualsiasi tipo di importanza o decisionalità della figura maschile. Il dato più importante però è che la maternità, in Madri Parallele, è l’occasione per mettere in discussione l’irreversibilità del tempo, per cui la riesumazione di un militante anti-franchista diventa uno slancio verso il futuro, mentre la maternità sottratta alla protagonista un gancio per scavare nel passato.
Meno eclatante è sicuramente l’approccio narrativo usato dall’esordiente Maggie Gyllenhaal nel suo The Lost Daughter, adattamento di Elena Ferrante e vincitore della migliore sceneggiatura a Venezia 78. Anche Dakota Johnson e una superlativa Olivia Colman sono due madri parallele, unite dalla stessa insofferenza verso la prole, sincere nel loro ammettere la non totalità del sentimento d’affetto verso il figlio. Non si parla di baby blues o archetipiche madri esaurite, ma piuttosto di un momento in cui diventa necessario prediligere le proprie aspirazioni ed interiorità rispetto a ciò che si è generato. Va detto come il personaggio di Olivia Colman sia, a differenza di Anne, piena di rimorsi e sensi di colpa, ma l’importante è che sia lei - in questo caso tramite un andamento riflessivo più che d’azione - a possedere la narrazione. Le figure maschili, come negli esempi precedenti, sono subalterne, a volte inette, in ogni caso, a bordo scena. A questo proposito, non è certo un caso se nel roboante e sontuoso Annette di Leos Carax, miglior regia al festival di Cannes 2021, il trionfo della paternità su un materno eternamente perituro è in realtà un buco nell’acqua, attestazione di una performance e quindi di una finzione.
La maternità nel cinema del 2021 si è dimostrato dunque un luogo affollato, spesso politico, etico e portatore di significati conflittuali. Ciò che è importante sottolineare è come appaia con sempre maggiore forza una tematica cardine per sviluppare la dialettica tra cinema e istanze sociali. Il suo compimento non è dato per scontato, perché il tema della maternità è spesso un espediente per guardare al femminile in modo non edulcorato, stereotipato, dato a priori. A questo proposito, il tenero ed esile Petit Maman di Céline Sciamma mette in scena un rapporto, tra sogno e ricordo, tra una madre e una figlia che si relazionano da coetanee. Di nuovo due (non ancora) donne al confronto, un gap temporale, un’inversione cronologica, ma soprattutto un rapporto diretto, un dialogo sincero e immediato tra madre e figlia, tra l’oggi e la potenzialità del domani.