Riscoprendo un regista dimenticato
attraverso gli incipit dei suoi film,
di Luigi Muneratto
TR-08
04.07.2020
L’incipit di un film segna il primo incontro tra l’opera e lo spettatore. È questo un concetto che si può applicare a tutte le arti che prevedono uno svolgimento nel tempo, dalla poesia alla musica, ma parlarne in termini così ampi sarebbe un’operazione troppo ambiziosa. Se invece ci si limita all’ambito narrativo, emergono subito le similitudini tra l’incipit di un romanzo e quello di un film. In entrambi i casi l’opera racconterà una storia, e le prime frasi di un romanzo, come le prime immagini di un film, introducono il fruitore nella finzione narrativa e stabiliscono il tono, l’atmosfera e le coordinate del racconto. In altre parole, l’incipit è il momento in cui tu, lettore o spettatore, capisci cos’hai davanti: un mondo più o meno reale, una trama avvincente o una riflessione filosofica, un’indagine profonda della psicologia dei personaggi o la fredda rappresentazione delle loro azioni.
È interessante anche riflettere sui limiti di questo concetto. Qual è l’estensione di un incipit? Corrisponde, ad esempio, al primo paragrafo di un romanzo o solo alla prima frase? E in un film è costituito dalla prima inquadratura o piuttosto dall’intera prima sequenza? Qual è la sua funzione nell’economia dell’opera?
Non può esserci una risposta univoca a queste domande, poiché molto dipende dal genere, dallo stile e dal contesto. Un esempio molto attuale ci è dato dal fenomeno delle serie TV che, non diversamente da molti romanzi ottocenteschi pubblicati periodicamente su riviste, hanno una struttura a episodi. In questo formato, che segue spesso logiche strettamente commerciali, è facile identificare l’incipit con il primo episodio della serie, il cosiddetto episodio pilota. Nella maggior parte dei casi sono vere e proprie dichiarazioni d’intenti per l’intera serie, in cui da un lato vengono racchiusi i tratti fondamentali dell’opera, dall’altro si punta al sensazionale, all’inatteso, per catturare subito l’attenzione degli spettatori e spingerli a proseguire la visione: non è raro, quindi, che una serie concentri i quesiti e gli eventi più significativi nel primo episodio per poi assumere un ritmo narrativo più lento nel corso dei successivi.
Tutto ciò accade molto meno nei testi letterari e nel cinema, specialmente nei contesti più autoriali, in cui il racconto non deve necessariamente stimolare fin da subito l’attenzione e la curiosità di chi legge: un romanzo come Uomini e topi (1937) di Steinbeck può cominciare con due pagine di descrizione del paesaggio in cui si ambienterà la vicenda; un film come Il lungo addio (1973) di Altman può permettersi una prima sequenza di tre minuti in cui il protagonista dà da mangiare al suo gatto.
Anche in quest’ambito, però, non mancano gli incipit folgoranti, a cui basta una frase o un’inquadratura per immergere lettori e spettatori nell’universo narrativo. Come esempio letterario, l’inizio di La lotteria a Babiloniadi Borges, tratto dalla raccolta di racconti Finzioni (1944):
Come tutti gli uomini di Babilonia sono stato proconsole; come tutti, schiavo; ho conosciuto anche l’onnipotenza, l’obbrobrio, le prigioni.
Un incipit che racchiude non solo il fulcro del racconto, espresso in toni enigmatici, ma anche tutta la poetica dell’autore e i suoi temi prediletti: l’infinito, la ripetizione, il caso, il paradosso.
Un esempio anche dal cinema: la prima inquadratura di Arancia Meccanica (1971) di Kubrick, che non ha bisogno di presentazioni:
Anche senza sapere nulla di Kubrick prima della visione del film, basta un’inquadratura per entrare nell’universo estetico di questo regista. Un’unica lunga carrellata indietro, partendo dal volto truccato di Malcom McDowell che sembra scrutare lo spettatore, fino ad inquadrare gli altri drughi nei loro costumi, i tavoli a forma di manichini di donne nude, le luci innaturali; e poi ancora l’immobilità dei personaggi, l’ossessione per la simmetria, l’uso straniante della musica classica (in questo caso una marcia funebre di Purcell), tutti tratti che segnano l’intera opera di Kubrick.
Gli esempi citati finora sono tutti tratti da film e libri celebri, opera di autori dal valore universalmente riconosciuto. C’è però un regista di cui si sente parlare poco, il britannico Alan Parker, che ha sempre curato con particolare attenzione gli incipit dei propri film, trovando una formula efficace e adattandola di volta in volta in funzione della storia da raccontare. Pur avendo diretto, dalla fine degli anni ’70 in avanti, numerosi film di discreta fama, il suo nome non figura mai tra i grandi del cinema di quel periodo. Ciò è dovuto, probabilmente, al suo basso profilo, all’assenza di titoli di culto nella sua filmografia, e in generale a uno stile di regia piano e poco appariscente.
Alan Parker è in realtà un regista poliedrico, che ha spaziato dal musical (Saranno Famosi, Pink Floyd The Wall) al film carcerario (Fuga di mezzanotte, The Life Of David Gale), passando per il thriller (Angel Heart) e il film biografico (Evita). Difficilmente lo si può quindi inserire in un filone definito, ma ci sono comunque alcuni elementi che ricorrono in tutti i suoi film e ne fissano i temi e lo stile: la sua cultura musicale, che lo porta a girare diversi film incentrati sulla musica e a curare molto le colonne sonore; la denuncia sociale, espressa nei film sulle carceri o in quelli contro guerra e razzismo; la cura formale per le inquadrature, apparentemente semplici ma spesso caricate di significati simbolici.
A un’analisi più approfondita del suo cinema, ci si accorge della grande intelligenza con cui costruisce i propri film, che trova la sua massima espressione proprio nelle prime sequenze di diverse sue opere.
È molto facile, nel suo caso, individuare l’estensione degli incipit. La sequenza di apertura non rappresenta mai l’inizio della storia: è piuttosto un momento autoconclusivo, separato dall’intreccio o estrapolato da un momento successivo, che ha dichiaratamente la funzione di presentare l’atmosfera e il nucleo del film allo spettatore. In nessuno di essi, poi, il regista si affida al dialogo, preferendo sempre presentare poche immagini significative.
Fuga di mezzanotte (1978) è il film che porta Alan Parker al successo. La trama è molto semplice: uno studente americano viene arrestato in Turchia mentre cerca di esportare dell’hashish, e viene rinchiuso in un carcere da cui cercherà in tutti i modi di fuggire dopo aver subito violenze di ogni sorta. Il film si apre con poche inquadrature-cartolina molto suggestive, che ritraggono Istanbul al tramonto, teatro della vicenda.
La fuga di mezzanotte | 1978
La prima vera sequenza narrativa è però la seguente, che ci mostra il dettaglio di due mani intente a ritagliare, piegare e confezionare con cura dell’hashish. Solo l’ultima inquadratura rivela l’immagine nel suo insieme, quella di un ragazzo che si appresta a partire dopo essersi attrezzato in modo molto discutibile per esportare della merce illegale.
Fuga di mezzanotte | 1978
L’elemento davvero interessante di questo inizio è il fatto che, in un’ipotetica suddivisione del film tra un delitto e un castigo, il “delitto” del protagonista si esaurisca nella sequenza che apre il film, lasciando poi spazio alla disumana serie di castighi che il personaggio subirà nel carcere turco. In altre parole, Alan Parker sceglie di aprire il racconto con la causa dell’arresto, ritraendo il personaggio in tutta la sua ingenuità, per poi mostrare lungo tutto il film la sproporzione di questo fatto rispetto al vero crimine, le violenze inflitte ai carcerati dai secondini e dai loro superiori.
Birdy – Le ali della libertà (1984) racconta la storia di due amici d’infanzia, Al (Nicolas Cage) e Birdy (Matthew Modine), chiamato così per la sua passione per i volatili e il suo desiderio di imitarli nel volo. Il film alterna scene del loro passato a scene del presente, in cui i due sono reduci dal Vietnam: dopo la guerra, Birdy non parla più ed è ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove Al va a trovarlo con il viso ustionato e coperto di bende.
La sequenza con cui si apre il film introduce il protagonista e il tema centrale della storia in sole quattro inquadrature. Uno zoom indietro su un cielo nuvoloso dietro cui si intravede la luce del sole; un secondo zoom che da una grata arriva a inquadrare la porzione di cielo racchiusa in una finestra; una panoramica che sale dai piedi nudi del personaggio accovacciato fino al suo volto orientato verso la luce; il totale della stanza, che ci mostra Birdy seduto in un angolo della sua camera in un manicomio, lo sguardo rivolto al cielo.
Birdy – Le ali della libertà | 1984
In questo breve incipit c’è tutto. L’immagine del cielo, ostacolato da nuvole e sbarre, incarna il desiderio irrisolto di Birdy, il suo folle amore per il volo stroncato dalla realtà e dagli orrori della guerra; nei piedi ritorti, nella postura e nel suo sguardo si colgono subito il suo malessere e il suo dolore; il totale della scena, infine, pone le basi per la metafora che attraverserà tutto il film: Birdy è un uccello in gabbia a cui hanno tarpato le ali.
L’incipit di Mississippi Burning – Le radici dell’odio (1988), un film sul razzismo verso gli afroamericani nel sud degli Stati Uniti,è ancora più iconico. La prima immagine, quasi una fotografia, potrebbe riassumerne l’essenza senza bisogno di aggiungere altro.
Mississippi Burning – Le radici dell’odio | (1988)
Un bagno pubblico con due lavandini, da usare in base al colore della pelle, come indicano i cartelli. Un uomo bianco si avvicina e usa il lavandino di sinistra; subito dopo, un bambino afroamericano va a bere all’altro lavandino, poi esce di campo. L’incipit del film potrebbe già concludersi qui, e avrebbe già descritto con semplicità l’ambientazione e il tema attorno a cui ruoterà la storia. I titoli di testa però non sono ancora finiti, e il regista chiude la sua introduzione con un’altra immagine emblematica, anch’essa racchiusa in poche inquadrature.
Alcune croci cristiane piantate nel terreno e una casa in fiamme sullo sfondo. Anche qui il regista sceglie di offrire al pubblico una fotografia simbolica della storia che verrà raccontata, un’altra manifestazione di razzismo e violenza dopo quella che ha aperto il film. L’immagine fornisce subito una spiegazione al titolo del film, e nell’unire i simboli cristiani con la casa in fiamme richiama alla mente dello spettatore l’immaginario del Ku Klux Klan, che sarà infatti centrale nel corso della narrazione.
Queste due sequenze, inoltre, sfilano sulle note di Take My Hand, Precious Lord, celebre brano gospel interpretato dalla voce commovente di Mahalia Jackson, lo stesso brano che intonò nel 1968 per il funerale di Martin Luther King. Immagini di violenza e segregazione razziale in nome di un dio, lo stesso dio a cui si rivolge la cantante afroamericana accompagnando queste immagini con la propria voce: i primi due minuti di film, tanto basta ad Alan Parker per far cogliere allo spettatore tutte le contraddizioni e l’assurdità dell’odio razziale.
Molto diverso dai precedenti l’incipit di The Life of David Gale(2003), ultima opera del regista britannico. Il film è un thriller a sfondo giudiziario che racconta la storia di un attivista contro la pena di morte accusato di omicidio (Kevin Spacey), e di una giornalista (Kate Winslet) che prende a cuore il suo caso nella speranza di salvarlo prima dell’esecuzione.
In linea con il genere in cui si iscrive il film, Alan Parker opta per un classico incipit in medias res, anticipando una scena cruciale che lo spettatore per il momento non può capire, ma che serve ad accrescere fin da subito la suspense e la dinamicità del racconto.
La prima inquadratura è statica. Un campo lunghissimo su una strada di campagna; una macchina in lontananza si arresta in mezzo alla strada; una donna scende imprecando e comincia a correre.
The Life of David Gale | 2003
Poi altre inquadrature, più dinamiche, mostrano la corsa disperata della donna. Qui c’è il primo elemento di interesse, perché queste immagini riprendono quasi alla lettera l’incipit di un altro film, Un bacio e una pistola (o Kiss Me Deadly,1955), bellissimo noir diretto da Robert Aldrich.
Un bacio e una pistola | 1955
Impossibile non pensare che si tratti di una citazione-omaggio. La scena si interrompe bruscamente, e con la sequenza successiva si torna all’inizio della storia, nel momento in cui la donna, che si scopre essere una giornalista d’inchiesta, ottiene l’incarico di indagare sul caso di David Gale, condannato a morte e prossimo all’esecuzione. La carica drammatica della prima scena sarà quindi pienamente compresa dallo spettatore solo quando rivedrà quelle immagini, inserite in un finale adrenalinico e ricco di colpi di scena, in quella che sarà una vera e propria corsa contro il tempo.
Si potrebbero citare altri film in cui Alan Parker ha saputo offrire allo spettatore incipit essenziali e raffinati come quelli appena descritti. Ma gli esempi citati bastano già per farsi un’idea di come questo regista, adattando il proprio stile al genere e all’universo narrativo che vuole costruire, riesca sempre a colpire lo spettatore fin dalle prime immagini. In Fuga di mezzanottel’incipit serve a isolare il primo episodio della storia, apparentemente insignificante, dalle sue spropositate conseguenze. In un film come Birdy, incentrato sulla vita di un ragazzo eccentrico stroncato dalla guerra, Parker sceglie poche immagini fortemente simboliche che ne raccontino il dolore. In Mississippi Burningdi immagine ne basta una, e il senso profondo del film è espresso accostando a questa fotografia un brano carico di significati e rimandi storici. In The Life of David Gale, infine, l’incipit si muove tra la citazione e la creazione della suspense, in un film che fa del ritmo e dei colpi di scena i suoi punti di forza. Forse non virtuoso ma sempre puntuale nelle scelte, Alan Parker merita di essere riscoperto attraverso la visione dei suoi film: basteranno pochi secondi, lo si è detto, per entrare nel suo mondo.
Riscoprendo un regista dimenticato
attraverso gli incipit dei suoi film,
di Luigi Muneratto
TR-08
04.07.2020
L’incipit di un film segna il primo incontro tra l’opera e lo spettatore. È questo un concetto che si può applicare a tutte le arti che prevedono uno svolgimento nel tempo, dalla poesia alla musica, ma parlarne in termini così ampi sarebbe un’operazione troppo ambiziosa. Se invece ci si limita all’ambito narrativo, emergono subito le similitudini tra l’incipit di un romanzo e quello di un film. In entrambi i casi l’opera racconterà una storia, e le prime frasi di un romanzo, come le prime immagini di un film, introducono il fruitore nella finzione narrativa e stabiliscono il tono, l’atmosfera e le coordinate del racconto. In altre parole, l’incipit è il momento in cui tu, lettore o spettatore, capisci cos’hai davanti: un mondo più o meno reale, una trama avvincente o una riflessione filosofica, un’indagine profonda della psicologia dei personaggi o la fredda rappresentazione delle loro azioni.
È interessante anche riflettere sui limiti di questo concetto. Qual è l’estensione di un incipit? Corrisponde, ad esempio, al primo paragrafo di un romanzo o solo alla prima frase? E in un film è costituito dalla prima inquadratura o piuttosto dall’intera prima sequenza? Qual è la sua funzione nell’economia dell’opera?
Non può esserci una risposta univoca a queste domande, poiché molto dipende dal genere, dallo stile e dal contesto. Un esempio molto attuale ci è dato dal fenomeno delle serie TV che, non diversamente da molti romanzi ottocenteschi pubblicati periodicamente su riviste, hanno una struttura a episodi. In questo formato, che segue spesso logiche strettamente commerciali, è facile identificare l’incipit con il primo episodio della serie, il cosiddetto episodio pilota. Nella maggior parte dei casi sono vere e proprie dichiarazioni d’intenti per l’intera serie, in cui da un lato vengono racchiusi i tratti fondamentali dell’opera, dall’altro si punta al sensazionale, all’inatteso, per catturare subito l’attenzione degli spettatori e spingerli a proseguire la visione: non è raro, quindi, che una serie concentri i quesiti e gli eventi più significativi nel primo episodio per poi assumere un ritmo narrativo più lento nel corso dei successivi.
Tutto ciò accade molto meno nei testi letterari e nel cinema, specialmente nei contesti più autoriali, in cui il racconto non deve necessariamente stimolare fin da subito l’attenzione e la curiosità di chi legge: un romanzo come Uomini e topi (1937) di Steinbeck può cominciare con due pagine di descrizione del paesaggio in cui si ambienterà la vicenda; un film come Il lungo addio (1973) di Altman può permettersi una prima sequenza di tre minuti in cui il protagonista dà da mangiare al suo gatto.
Anche in quest’ambito, però, non mancano gli incipit folgoranti, a cui basta una frase o un’inquadratura per immergere lettori e spettatori nell’universo narrativo. Come esempio letterario, l’inizio di La lotteria a Babiloniadi Borges, tratto dalla raccolta di racconti Finzioni (1944):
Come tutti gli uomini di Babilonia sono stato proconsole; come tutti, schiavo; ho conosciuto anche l’onnipotenza, l’obbrobrio, le prigioni.
Un incipit che racchiude non solo il fulcro del racconto, espresso in toni enigmatici, ma anche tutta la poetica dell’autore e i suoi temi prediletti: l’infinito, la ripetizione, il caso, il paradosso.
Un esempio anche dal cinema: la prima inquadratura di Arancia Meccanica (1971) di Kubrick, che non ha bisogno di presentazioni:
Anche senza sapere nulla di Kubrick prima della visione del film, basta un’inquadratura per entrare nell’universo estetico di questo regista. Un’unica lunga carrellata indietro, partendo dal volto truccato di Malcom McDowell che sembra scrutare lo spettatore, fino ad inquadrare gli altri drughi nei loro costumi, i tavoli a forma di manichini di donne nude, le luci innaturali; e poi ancora l’immobilità dei personaggi, l’ossessione per la simmetria, l’uso straniante della musica classica (in questo caso una marcia funebre di Purcell), tutti tratti che segnano l’intera opera di Kubrick.
Gli esempi citati finora sono tutti tratti da film e libri celebri, opera di autori dal valore universalmente riconosciuto. C’è però un regista di cui si sente parlare poco, il britannico Alan Parker, che ha sempre curato con particolare attenzione gli incipit dei propri film, trovando una formula efficace e adattandola di volta in volta in funzione della storia da raccontare. Pur avendo diretto, dalla fine degli anni ’70 in avanti, numerosi film di discreta fama, il suo nome non figura mai tra i grandi del cinema di quel periodo. Ciò è dovuto, probabilmente, al suo basso profilo, all’assenza di titoli di culto nella sua filmografia, e in generale a uno stile di regia piano e poco appariscente.
Alan Parker è in realtà un regista poliedrico, che ha spaziato dal musical (Saranno Famosi, Pink Floyd The Wall) al film carcerario (Fuga di mezzanotte, The Life Of David Gale), passando per il thriller (Angel Heart) e il film biografico (Evita). Difficilmente lo si può quindi inserire in un filone definito, ma ci sono comunque alcuni elementi che ricorrono in tutti i suoi film e ne fissano i temi e lo stile: la sua cultura musicale, che lo porta a girare diversi film incentrati sulla musica e a curare molto le colonne sonore; la denuncia sociale, espressa nei film sulle carceri o in quelli contro guerra e razzismo; la cura formale per le inquadrature, apparentemente semplici ma spesso caricate di significati simbolici.
A un’analisi più approfondita del suo cinema, ci si accorge della grande intelligenza con cui costruisce i propri film, che trova la sua massima espressione proprio nelle prime sequenze di diverse sue opere.
È molto facile, nel suo caso, individuare l’estensione degli incipit. La sequenza di apertura non rappresenta mai l’inizio della storia: è piuttosto un momento autoconclusivo, separato dall’intreccio o estrapolato da un momento successivo, che ha dichiaratamente la funzione di presentare l’atmosfera e il nucleo del film allo spettatore. In nessuno di essi, poi, il regista si affida al dialogo, preferendo sempre presentare poche immagini significative.
Fuga di mezzanotte (1978) è il film che porta Alan Parker al successo. La trama è molto semplice: uno studente americano viene arrestato in Turchia mentre cerca di esportare dell’hashish, e viene rinchiuso in un carcere da cui cercherà in tutti i modi di fuggire dopo aver subito violenze di ogni sorta. Il film si apre con poche inquadrature-cartolina molto suggestive, che ritraggono Istanbul al tramonto, teatro della vicenda.
La fuga di mezzanotte | 1978
La prima vera sequenza narrativa è però la seguente, che ci mostra il dettaglio di due mani intente a ritagliare, piegare e confezionare con cura dell’hashish. Solo l’ultima inquadratura rivela l’immagine nel suo insieme, quella di un ragazzo che si appresta a partire dopo essersi attrezzato in modo molto discutibile per esportare della merce illegale.
Fuga di mezzanotte | 1978
L’elemento davvero interessante di questo inizio è il fatto che, in un’ipotetica suddivisione del film tra un delitto e un castigo, il “delitto” del protagonista si esaurisca nella sequenza che apre il film, lasciando poi spazio alla disumana serie di castighi che il personaggio subirà nel carcere turco. In altre parole, Alan Parker sceglie di aprire il racconto con la causa dell’arresto, ritraendo il personaggio in tutta la sua ingenuità, per poi mostrare lungo tutto il film la sproporzione di questo fatto rispetto al vero crimine, le violenze inflitte ai carcerati dai secondini e dai loro superiori.
Birdy – Le ali della libertà (1984) racconta la storia di due amici d’infanzia, Al (Nicolas Cage) e Birdy (Matthew Modine), chiamato così per la sua passione per i volatili e il suo desiderio di imitarli nel volo. Il film alterna scene del loro passato a scene del presente, in cui i due sono reduci dal Vietnam: dopo la guerra, Birdy non parla più ed è ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove Al va a trovarlo con il viso ustionato e coperto di bende.
La sequenza con cui si apre il film introduce il protagonista e il tema centrale della storia in sole quattro inquadrature. Uno zoom indietro su un cielo nuvoloso dietro cui si intravede la luce del sole; un secondo zoom che da una grata arriva a inquadrare la porzione di cielo racchiusa in una finestra; una panoramica che sale dai piedi nudi del personaggio accovacciato fino al suo volto orientato verso la luce; il totale della stanza, che ci mostra Birdy seduto in un angolo della sua camera in un manicomio, lo sguardo rivolto al cielo.
Birdy – Le ali della libertà | 1984
In questo breve incipit c’è tutto. L’immagine del cielo, ostacolato da nuvole e sbarre, incarna il desiderio irrisolto di Birdy, il suo folle amore per il volo stroncato dalla realtà e dagli orrori della guerra; nei piedi ritorti, nella postura e nel suo sguardo si colgono subito il suo malessere e il suo dolore; il totale della scena, infine, pone le basi per la metafora che attraverserà tutto il film: Birdy è un uccello in gabbia a cui hanno tarpato le ali.
L’incipit di Mississippi Burning – Le radici dell’odio (1988), un film sul razzismo verso gli afroamericani nel sud degli Stati Uniti,è ancora più iconico. La prima immagine, quasi una fotografia, potrebbe riassumerne l’essenza senza bisogno di aggiungere altro.
Mississippi Burning – Le radici dell’odio | (1988)
Un bagno pubblico con due lavandini, da usare in base al colore della pelle, come indicano i cartelli. Un uomo bianco si avvicina e usa il lavandino di sinistra; subito dopo, un bambino afroamericano va a bere all’altro lavandino, poi esce di campo. L’incipit del film potrebbe già concludersi qui, e avrebbe già descritto con semplicità l’ambientazione e il tema attorno a cui ruoterà la storia. I titoli di testa però non sono ancora finiti, e il regista chiude la sua introduzione con un’altra immagine emblematica, anch’essa racchiusa in poche inquadrature.
Alcune croci cristiane piantate nel terreno e una casa in fiamme sullo sfondo. Anche qui il regista sceglie di offrire al pubblico una fotografia simbolica della storia che verrà raccontata, un’altra manifestazione di razzismo e violenza dopo quella che ha aperto il film. L’immagine fornisce subito una spiegazione al titolo del film, e nell’unire i simboli cristiani con la casa in fiamme richiama alla mente dello spettatore l’immaginario del Ku Klux Klan, che sarà infatti centrale nel corso della narrazione.
Queste due sequenze, inoltre, sfilano sulle note di Take My Hand, Precious Lord, celebre brano gospel interpretato dalla voce commovente di Mahalia Jackson, lo stesso brano che intonò nel 1968 per il funerale di Martin Luther King. Immagini di violenza e segregazione razziale in nome di un dio, lo stesso dio a cui si rivolge la cantante afroamericana accompagnando queste immagini con la propria voce: i primi due minuti di film, tanto basta ad Alan Parker per far cogliere allo spettatore tutte le contraddizioni e l’assurdità dell’odio razziale.
Molto diverso dai precedenti l’incipit di The Life of David Gale(2003), ultima opera del regista britannico. Il film è un thriller a sfondo giudiziario che racconta la storia di un attivista contro la pena di morte accusato di omicidio (Kevin Spacey), e di una giornalista (Kate Winslet) che prende a cuore il suo caso nella speranza di salvarlo prima dell’esecuzione.
In linea con il genere in cui si iscrive il film, Alan Parker opta per un classico incipit in medias res, anticipando una scena cruciale che lo spettatore per il momento non può capire, ma che serve ad accrescere fin da subito la suspense e la dinamicità del racconto.
La prima inquadratura è statica. Un campo lunghissimo su una strada di campagna; una macchina in lontananza si arresta in mezzo alla strada; una donna scende imprecando e comincia a correre.
The Life of David Gale | 2003
Poi altre inquadrature, più dinamiche, mostrano la corsa disperata della donna. Qui c’è il primo elemento di interesse, perché queste immagini riprendono quasi alla lettera l’incipit di un altro film, Un bacio e una pistola (o Kiss Me Deadly,1955), bellissimo noir diretto da Robert Aldrich.
Un bacio e una pistola | 1955
Impossibile non pensare che si tratti di una citazione-omaggio. La scena si interrompe bruscamente, e con la sequenza successiva si torna all’inizio della storia, nel momento in cui la donna, che si scopre essere una giornalista d’inchiesta, ottiene l’incarico di indagare sul caso di David Gale, condannato a morte e prossimo all’esecuzione. La carica drammatica della prima scena sarà quindi pienamente compresa dallo spettatore solo quando rivedrà quelle immagini, inserite in un finale adrenalinico e ricco di colpi di scena, in quella che sarà una vera e propria corsa contro il tempo.
Si potrebbero citare altri film in cui Alan Parker ha saputo offrire allo spettatore incipit essenziali e raffinati come quelli appena descritti. Ma gli esempi citati bastano già per farsi un’idea di come questo regista, adattando il proprio stile al genere e all’universo narrativo che vuole costruire, riesca sempre a colpire lo spettatore fin dalle prime immagini. In Fuga di mezzanottel’incipit serve a isolare il primo episodio della storia, apparentemente insignificante, dalle sue spropositate conseguenze. In un film come Birdy, incentrato sulla vita di un ragazzo eccentrico stroncato dalla guerra, Parker sceglie poche immagini fortemente simboliche che ne raccontino il dolore. In Mississippi Burningdi immagine ne basta una, e il senso profondo del film è espresso accostando a questa fotografia un brano carico di significati e rimandi storici. In The Life of David Gale, infine, l’incipit si muove tra la citazione e la creazione della suspense, in un film che fa del ritmo e dei colpi di scena i suoi punti di forza. Forse non virtuoso ma sempre puntuale nelle scelte, Alan Parker merita di essere riscoperto attraverso la visione dei suoi film: basteranno pochi secondi, lo si è detto, per entrare nel suo mondo.