di Piero Di Bucchianico
NC-104
06.04.2022
Di fronte al programma del CPH:DOX è difficile non cedere alla tentazione di usare la metafora del fiume in piena: giunto alla sua 19a edizione, il festival del cinema documentaristico di Copenaghen ha travolto la nutrita schiera di critici e spettatori appassionati con la sua offerta monstre composta da oltre 150 film e articolata nelle più svariate tendenze e direzioni.
Andata in scena in presenza dal 23 marzo al 3 aprile, questa rassegna sembra prefiggersi l’obiettivo di scalare le gerarchie delle manifestazioni attinenti la settima arte, mettendo in mostra un’identità che ha tante sfaccettature quante quelle del reale di fronte al quale pone la sua lente di ingrandimento. Non passa inosservata la decisione di creare diverse tranches temporali di fruizione per un pubblico sempre più stratificato: l’ibridazione di tempi e di luoghi – fra dilatazioni di un programma che si estende per settimane, critici che coprono l’evento anche a distanza e piattaforme online che ospitano una sorta di dopofestival dopo gli eventi dal vivo – segna la consapevolezza della migrazione prima di tutto concettuale che gli eventi culturali stanno compiendo ormai da qualche tempo.
Ma quali sono, dunque, le diverse anime che costellano questo festival? Già a una prima occhiata, ciò che colpisce è la scrupolosità con cui il CPH:DOX fornisce delle traiettorie ben identificabili nel pur vastissimo programma: è il singolo spettatore, a seconda delle inclinazioni e delle esigenze, ad avere la libertà di seguire queste linee guida o al contrario crearne di proprie, più casuali e personalizzate. Dunque non solo il CPH:DOX è scandito nelle più comuni sezioni festivaliere che prevedono competizioni a premi (DOX Award, Nordic DOX, New Vision), ma si compone anche di sguardi sul presente che quest’anno hanno osservato specifici ambiti di interesse: scienza e ambiente, arte (con un intero focus sulla musica), società (molteplici i temi in questa categoria, ma a spiccare in questo momento è chiaramente la sezione rivolta all’invasione russa in Ucraina).
Pregevole e differenziato il contenuto ma non a discapito della forma e dei formati, vista la rappresentanza all’interno del programma di cortometraggi, installazioni e opere ibride; grande l’attenzione verso le opere prime, senza dimenticare quei titoli che già hanno fatto parlare di sé nei circuiti festivalieri nei mesi scorsi (Il buco di Michelangelo Frammartino, il nuovo film di Andrew Dominik su Nick Cave, Atlantide di Yuri Ancarani, solo per citarne alcuni). Cercando di restituire una piccolissima parte di questa proposta così variegata, vi offriamo un paio di indicazioni derivanti dalla competizione DOX Award. Due perle scovate con fiuto e fortuna tra le tante opere visionate, film che mettono in scena due differenti sguardi sulla fase adolescenziale vissuta in contesti e modalità molto distanti: Girl Gang e Nascondino. Nessuno di questi due film è riuscito a spuntarla per il premio di miglior documentario del CPH:DOX (andato a The Eclipse di Nataša Urban), eppure i loro racconti sulla duplice natura di un’età vissuta nel primo caso su un palcoscenico tanto luccicante quanto effimero e nel secondo in giro per le strade di quartieri poveri di cui si sono conoscono tutti i cunicoli ma non se ne possiede mai davvero la mappa esistenziale, ci sembrano poter ottenere quantomeno la nostra menzione speciale.
Girl Gang è il nuovo film di Susanne Regina Meures, nome non del tutto sconosciuto ai frequentatori di festival internazionali (il suo Saudi Runaway era nella sezione Panorama della Berlinale edizione 2020). In questa occasione la regista tedesca scruta da vicino la vita di un’adolescente influencer berlinese, osservandone gli accadimenti dalla giusta distanza e per un tempo sufficiente a far sì che l’annullamento (ovviamente irraggiungibile di per sé) della macchina da presa possa lasciar spazio il più possibile alla naturalezza del quotidiano nel suo avvenire senza filtri. Come apprendiamo, tuttavia, tale intento crea un paradosso proprio perché quello stesso fare quotidiano è scandito e prestabilito nei minimi dettagli per far sì che possa essere guardato, preso a modello e imitato da schiere di fedeli seguaci.
La posa osservativa del documentario crea in questo modo un interessante contrasto con la ricerca dell’immagine iper-costruita e pluri-ritoccata che la protagonista insegue. Ne emerge un ritratto che in diversi frangenti raggela, mostrando un sistema di auto-imposizioni rigido e maniacale operato dalla protagonista su sé stessa. Il protocollo asfissiante di un’esistenza vissuta con caparbietà in funzione dell’occhio ubiquo e sempre sveglio dei social stride totalmente con l’ideale di prossimità e autenticità che in teoria dovrebbe legare il divo influencer al suo pubblico di followers. La compartecipazione dei genitori nella creazione di questo regime di virtualità vorrebbe guidare i passi della giovane all’interno della dispersiva costellazione internettiana, ma laddove l’autorità genitoriale si fonde con quella manageriale, l’alimentazione della costante messa in scena di sé stessi non può che portare la ragazza a perdere qualsiasi traccia della sua umanità e spensieratezza adolescenziale, finendo per non esistere al di fuori del personaggio.
Nascondino è invece un film diretto dalla giovane regista Victoria Fiore, precedentemente presentato anche al London Film Festival. Il lungometraggio ci conduce nei Quartieri Spagnoli di Napoli mostrandoci con immersione e naturalezza i riti e i costumi di un contesto materialmente povero ma ricco di un’aura che affonda le proprie radici nel mito e nel folklore. Durante il film assistiamo alla crescita e alle vicissitudini di Entoni, ragazzino del quartiere che la regista ha ripreso per cinque anni, tempo necessario alla gestazione di un lavoro che, come spesso accade nel documentario, si apre alle evenienze del reale con tutto l’imponderabile che ne consegue.
La conquista della fiducia dei soggetti interessati, la prassi preparatoria e il contatto istituito con l’ambiente, permettono a Fiore di filmare uno spicchio di realtà sovente restia a lasciarsi catturare, troppo spesso vittima di pregiudizi e semplificazioni, per poi rimetterla in scena attraverso metodologie di racconto a tratti poetiche e introspettive, capaci di rievocare sogni ma anche di dare voce a presentimenti e paure. Le grandi narrazioni, quelle che si ereditano come patrimonio ma anche come fardello di un destino manifesto, sembrano essere per Entoni fonte di richiamo verso un sentiero già tracciato, come se dal vortice della spirale della criminalità non ci fosse un’effettiva via di fuga. La regia sofisticata, gli artifici e gli stilemi della fiction si prestano a un racconto che procede sicuro, pur fra stop e ripartenze; ogni volta che ellissi e conseguenti didascalie annunciano l’incedere di una nuova fase della vicenda, in Entoni scorgiamo infatti a posteriori il cambiamento interiore e apprendiamo delle conseguenze che le sue azioni hanno provocato. L’approvazione della legge che consente allo Stato di prelevare forzosamente i figli di affiliati alla criminalità organizzata dalle loro famiglie, più che offrire un’efficace alternativa, sembra in questo contesto configurarsi come un’ulteriore espressione di coercizione nei confronti di un bambino che appare poter fuggire da tutto meno che dalle oppressioni degli adulti.
di Piero Di Bucchianico
NC-104
06.04.2022
Di fronte al programma del CPH:DOX è difficile non cedere alla tentazione di usare la metafora del fiume in piena: giunto alla sua 19a edizione, il festival del cinema documentaristico di Copenaghen ha travolto la nutrita schiera di critici e spettatori appassionati con la sua offerta monstre composta da oltre 150 film e articolata nelle più svariate tendenze e direzioni.
Andata in scena in presenza dal 23 marzo al 3 aprile, questa rassegna sembra prefiggersi l’obiettivo di scalare le gerarchie delle manifestazioni attinenti la settima arte, mettendo in mostra un’identità che ha tante sfaccettature quante quelle del reale di fronte al quale pone la sua lente di ingrandimento. Non passa inosservata la decisione di creare diverse tranches temporali di fruizione per un pubblico sempre più stratificato: l’ibridazione di tempi e di luoghi – fra dilatazioni di un programma che si estende per settimane, critici che coprono l’evento anche a distanza e piattaforme online che ospitano una sorta di dopofestival dopo gli eventi dal vivo – segna la consapevolezza della migrazione prima di tutto concettuale che gli eventi culturali stanno compiendo ormai da qualche tempo.
Ma quali sono, dunque, le diverse anime che costellano questo festival? Già a una prima occhiata, ciò che colpisce è la scrupolosità con cui il CPH:DOX fornisce delle traiettorie ben identificabili nel pur vastissimo programma: è il singolo spettatore, a seconda delle inclinazioni e delle esigenze, ad avere la libertà di seguire queste linee guida o al contrario crearne di proprie, più casuali e personalizzate. Dunque non solo il CPH:DOX è scandito nelle più comuni sezioni festivaliere che prevedono competizioni a premi (DOX Award, Nordic DOX, New Vision), ma si compone anche di sguardi sul presente che quest’anno hanno osservato specifici ambiti di interesse: scienza e ambiente, arte (con un intero focus sulla musica), società (molteplici i temi in questa categoria, ma a spiccare in questo momento è chiaramente la sezione rivolta all’invasione russa in Ucraina).
Pregevole e differenziato il contenuto ma non a discapito della forma e dei formati, vista la rappresentanza all’interno del programma di cortometraggi, installazioni e opere ibride; grande l’attenzione verso le opere prime, senza dimenticare quei titoli che già hanno fatto parlare di sé nei circuiti festivalieri nei mesi scorsi (Il buco di Michelangelo Frammartino, il nuovo film di Andrew Dominik su Nick Cave, Atlantide di Yuri Ancarani, solo per citarne alcuni). Cercando di restituire una piccolissima parte di questa proposta così variegata, vi offriamo un paio di indicazioni derivanti dalla competizione DOX Award. Due perle scovate con fiuto e fortuna tra le tante opere visionate, film che mettono in scena due differenti sguardi sulla fase adolescenziale vissuta in contesti e modalità molto distanti: Girl Gang e Nascondino. Nessuno di questi due film è riuscito a spuntarla per il premio di miglior documentario del CPH:DOX (andato a The Eclipse di Nataša Urban), eppure i loro racconti sulla duplice natura di un’età vissuta nel primo caso su un palcoscenico tanto luccicante quanto effimero e nel secondo in giro per le strade di quartieri poveri di cui si sono conoscono tutti i cunicoli ma non se ne possiede mai davvero la mappa esistenziale, ci sembrano poter ottenere quantomeno la nostra menzione speciale.
Girl Gang è il nuovo film di Susanne Regina Meures, nome non del tutto sconosciuto ai frequentatori di festival internazionali (il suo Saudi Runaway era nella sezione Panorama della Berlinale edizione 2020). In questa occasione la regista tedesca scruta da vicino la vita di un’adolescente influencer berlinese, osservandone gli accadimenti dalla giusta distanza e per un tempo sufficiente a far sì che l’annullamento (ovviamente irraggiungibile di per sé) della macchina da presa possa lasciar spazio il più possibile alla naturalezza del quotidiano nel suo avvenire senza filtri. Come apprendiamo, tuttavia, tale intento crea un paradosso proprio perché quello stesso fare quotidiano è scandito e prestabilito nei minimi dettagli per far sì che possa essere guardato, preso a modello e imitato da schiere di fedeli seguaci.
La posa osservativa del documentario crea in questo modo un interessante contrasto con la ricerca dell’immagine iper-costruita e pluri-ritoccata che la protagonista insegue. Ne emerge un ritratto che in diversi frangenti raggela, mostrando un sistema di auto-imposizioni rigido e maniacale operato dalla protagonista su sé stessa. Il protocollo asfissiante di un’esistenza vissuta con caparbietà in funzione dell’occhio ubiquo e sempre sveglio dei social stride totalmente con l’ideale di prossimità e autenticità che in teoria dovrebbe legare il divo influencer al suo pubblico di followers. La compartecipazione dei genitori nella creazione di questo regime di virtualità vorrebbe guidare i passi della giovane all’interno della dispersiva costellazione internettiana, ma laddove l’autorità genitoriale si fonde con quella manageriale, l’alimentazione della costante messa in scena di sé stessi non può che portare la ragazza a perdere qualsiasi traccia della sua umanità e spensieratezza adolescenziale, finendo per non esistere al di fuori del personaggio.
Nascondino è invece un film diretto dalla giovane regista Victoria Fiore, precedentemente presentato anche al London Film Festival. Il lungometraggio ci conduce nei Quartieri Spagnoli di Napoli mostrandoci con immersione e naturalezza i riti e i costumi di un contesto materialmente povero ma ricco di un’aura che affonda le proprie radici nel mito e nel folklore. Durante il film assistiamo alla crescita e alle vicissitudini di Entoni, ragazzino del quartiere che la regista ha ripreso per cinque anni, tempo necessario alla gestazione di un lavoro che, come spesso accade nel documentario, si apre alle evenienze del reale con tutto l’imponderabile che ne consegue.
La conquista della fiducia dei soggetti interessati, la prassi preparatoria e il contatto istituito con l’ambiente, permettono a Fiore di filmare uno spicchio di realtà sovente restia a lasciarsi catturare, troppo spesso vittima di pregiudizi e semplificazioni, per poi rimetterla in scena attraverso metodologie di racconto a tratti poetiche e introspettive, capaci di rievocare sogni ma anche di dare voce a presentimenti e paure. Le grandi narrazioni, quelle che si ereditano come patrimonio ma anche come fardello di un destino manifesto, sembrano essere per Entoni fonte di richiamo verso un sentiero già tracciato, come se dal vortice della spirale della criminalità non ci fosse un’effettiva via di fuga. La regia sofisticata, gli artifici e gli stilemi della fiction si prestano a un racconto che procede sicuro, pur fra stop e ripartenze; ogni volta che ellissi e conseguenti didascalie annunciano l’incedere di una nuova fase della vicenda, in Entoni scorgiamo infatti a posteriori il cambiamento interiore e apprendiamo delle conseguenze che le sue azioni hanno provocato. L’approvazione della legge che consente allo Stato di prelevare forzosamente i figli di affiliati alla criminalità organizzata dalle loro famiglie, più che offrire un’efficace alternativa, sembra in questo contesto configurarsi come un’ulteriore espressione di coercizione nei confronti di un bambino che appare poter fuggire da tutto meno che dalle oppressioni degli adulti.