Come il cinema degli ultimi anni ha raccontato
la relazione tra donne e maternità,
di Davide Merola
TR-71
27.11.2022
Quello che di norma è riconosciuto come grande cinema, o cinema d’autore, nel corso del tempo ha fatto scuola con l’archetipo della donna mossa esclusivamente dal trauma, dove questo trauma era intrecciato alla maternità.
Essere madre è la radice del conflitto: pensate a Psycho e a Norman Bates. L’archetipo ha funzionato molto bene nel cinema del passato (soprattutto nel genere dell'horror e del thriller) e anche se ci ha insegnato qualcosa non si era mai prefissato il compito di essere una rappresentazione fedele della donna madre e del concetto di maternità. Il cinema è poi stato sempre uno strumento molto potente capace di cambiare o influenzare il pensiero comune, addirittura di più in alcune epoche che in altre: in quanto tale il cinema è uno strumento politico, e anche per questo nel presente post-Harvey Weinstein e nell’era del Me Too si è spinto parecchio per una diversità maggiore sullo schermo e per più registe donne.
Essere accurati nella rappresentazione è una chiave di volta per accedere al grande pubblico che viene a contatto con queste storie. È importante, in questo senso, il significato che il cinema dà alle figure materne e alla maternità.
Netflix, che da sempre si pone come araldo nei confronti di queste tematiche e si mostra attento ai problemi contemporanei, negli ultimi anni ha prodotto due film che, per quanto diversi tra di loro, si concentrano su figure femminili che hanno a che fare con la maternità. In queste storie, la casualità devia il loro percorso materno e ciò le rende vulnerabili: la loro vita sarà vissuta in funzione di quel trauma fino a quando non si giungerà a una risoluzione.
In Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, il personaggio di Vanessa Kirby perde sua figlia dopo delle complicazioni dovute al parto in casa. La tragedia innesca tensione nel rapporto col marito (Shia LaBeouf) e depressione nella coppia. Il trauma, di riflesso, crea un conflitto tra la protagonista e sua madre: la maternità “fallita” contro quella “compiuta”. L’unica soluzione sembrerebbe riporsi nella celebrazione del funerale della neonata. D’altro canto, il marito della protagonista trova la risoluzione del trauma, o almeno un allontanamento, nell’abuso di sostanze stupefacenti dopo un periodo di sobrietà e nell’atto del tradimento (la donna sembra sempre troppo debole in queste storie per concedersi tali fughe). Il concetto di maternità espresso dal film è mosso esclusivamente dal trauma della perdita della neonata, e la sua agognata risoluzione sembra girare in tondo per tutta la storia. Non c’è un reale sviluppo, ma solo un “punto” momentaneo raggiunto quando la protagonista non riconosce colpevole l’ostetrica che l’aveva aiutata nel parto in casa. Il finale? Qualche anno dopo il personaggio di Vanessa Kirby è diventato finalmente madre.
Si crea un loop nel melodramma: la soluzione sta nell’accettazione del trauma, ma non può esserci trauma senza la stessa soluzione. Il concepimento, riuscito o meno, sembra essere l’unica cosa che manda avanti queste – che si profetizzano “grandi” – figure femminili del cinema. Ma non c’è personalità oltre questo tema, solo una scrittura stanca e sfiancante.
Eppure negli anni abbiamo visto altre figure femminili portare avanti la propria storia e sviluppare una personalità confinata nei novanta a passa minuti del film anche senza concentrarsi sulla questione della maternità: il personaggio di Greta Gerwig in Frances Ha muove un racconto generazionale che non ha tempo di preoccuparsi anche del trauma dell’essere madre; Joachim Trier in La persona peggiore del mondo si concentra sullo stesso racconto affrontando anche brevemente il tema della maternità (parlando anche di aborto), ma ponendo la risoluzione del trauma non solo in un grande personaggio femminile, ma anche nel tema dell’accettazione della propria persona e di quello che ci circonda.
L’altro film di Netflix in esame è il recente Blonde di Andrew Dominik, un biopic che sceglie deliberatamente di non esserlo snaturando la reale storia di Norma Jeane/Marilyn Monroe, rimarcando l’ipersessualizzazione dell’attrice e soffermandosi sull’ennesimo trauma materno che qui sembra esistere solo nella grottesca funzione dell’aborto (come se fosse una propaganda pro-life): nel film questo ha origine sin dalla sua giovane età.
Norma Jeane non ha mai conosciuto suo padre, mentre sua madre Gladys – al di là dei suoi problemi mentali – non riesce a sopportare di vivere la maternità senza l’aiuto dell’uomo: tenta di affogarla nella vasca da bagno per poi lasciarla andare, quasi un aborto metaforico arrivato troppo tardi. Poi negli anni ’40, nel suo periodo da pin-up, Marilyn Monroe rimane incinta mentre intraprende una relazione poliamorosa: la paura che il neonato finisca per avere gli stessi problemi della madre è tanta da spingerla ad abortire; anche se ci ripensa, la pratica all’epoca era illegale e troppo complicata, e ormai è troppo tardi. Quando negli anni ’50 conosce Arthur Miller e i due si sposano, lei rimane nuovamente incinta: immagina che il suo nuovo nascituro le parli e la preghi di non abortire. Marilyn ha un incidente, inciampa e abortisce involontariamente a causa della caduta. Negli anni ’60, quando si ipotizza che fosse l’amante di Kennedy, durante una giornata in cui l’attrice gli fa visita il Presidente abusa sessualmente di lei: in seguito, stordita e drogata, immagina di avere l’ennesimo aborto. Questi e gli altri eventi narrati nel film la porteranno al suicidio.
Stavolta parliamo di una figura femminile realmente esistita: qui il trauma materno (eternamente irrisolto, dove anche la questione dell’aborto entra nel loop) si aggiunge a quello dell’assenza del padre, in un macabro gioco fatto tra l’altro sulla pelle di una figura che non c’è più. La risoluzione sta addirittura nel suicidio, “punto” finale su una vita scritta e narrata come se non potesse andare oltre l’atto del concepimento, l’amore tossico e il supporto maschile. Morte come ultima soluzione anche per sfuggire a eventuali e ipotetiche diagnosi di disturbi mentali.
In Blonde il passo, quindi, è decisamente più lungo della gamba.
Per fortuna c’è chi in questo appiattimento di scrittura femminile si è saputo distinguere.
Dopo aver già citato due grandi titoli, ce ne sono altri due che dovrebbero destare la nostra attenzione per quanto riguarda la decostruzione dell’archetipo femminile, e hanno a che fare entrambi con la stessa attrice: Maggie Gyllenhaal. I due film in questione sono usciti nel corso degli ultimi tre-quattro anni, e la vedono rispettivamente nei panni di attrice protagonista – Lontano da qui (The Kindergarten Teacher) – e in quelli di regista e sceneggiatrice – La figlia oscura (The Lost Daughter).
In The Kindergarten Teacher, Maggie Gyllenhaal è una maestra d’asilo amante della poesia che trova la sua ossessione in un alunno che sembra essere un prodigio nel comporre strofe.
Nel film diretto da Sara Colangelo (remake dell'omonimo film israeliano), il trauma materno è incentrato sul fatto che il personaggio di Maggie Gyllenhaal sente di aver fallito nel trasmettere le sue passioni e i suoi valori ai due figli: il maschio, nonostante la buona media a scuola, si vuole arruolare nella marina; la femmina, altrettanto brava, preferisce non concentrarsi soltanto sullo studio ma vuole anche divertirsi e svagarsi. Nel bambino prodigio la maestra vede invece un’occasione di riscatto sia personale, perché le sue stesse poesie non hanno molto successo in un corso che sta seguendo, sia sul lato materno come seconda occasione nell’educare un altro “figlio” che secondo lei non riceve le giuste attenzioni da un padre poco presente e da una tata svampita. Si sente realmente viva: il successo si mischia all’ossessione; tradisce il marito con l’insegnante del corso di poesie solo per la smania di controllo che sta crescendo in lei (finalmente un personaggio femminile che si concede questa “fuga”); arriva praticamente a rapire il bambino solo per fargli produrre quante più poesie possibili.
In questo film avviene una decostruzione: l’archetipo femminile della madre risolve il trauma di un “concepimento fallito” (i suoi figli la deludono) tramite una personale e oscura ricerca di grandezza e successo, sulla strada della quale non risparmia nessuno. E come da manuale il finale del melodramma è tragico per la nostra protagonista, ma la tragicità resta legata alla sua sfera personale e, per una volta, non a quella della maternità.
In The Lost Daughter – forte del romanzo di Elena Ferrante dal quale il film è tratto – Maggie Gyllenhaal dirige e scrive un’altra storia di ossessione, quella che il personaggio di Olivia Colman sviluppa verso Dakota Johnson, giovane madre che le riporta alla mente un passato materno non proprio sereno.
Qui la decostruzione avviene nel concetto stesso di maternità: del passato del personaggio di Olivia Colman ci vengono mostrati momenti spesso assenti in questi melodrammi, quali il rimpianto, la stanchezza e un completo distacco dalla propria persona (ne soffriva anche la maestra d’asilo in The Kindergarten Teacher). La maternità è amore sincero, qui diviso tra la famiglia e la sfera più personale e intima.
Scopriamo che il compimento della protagonista sta nell’aver abbandonato, letteralmente, quel valore della famiglia. Alla fine arriverà il momento di venire a patti con le proprie colpe giungendo alla risoluzione del trauma, ma è il diritto a essere egoista che l’ha portata fino a lì. E in quanto libera di esercitare questo diritto, nonostante il suo ruolo di madre, non è mai vittima del rimorso: la sua colpa non si sviluppa in quanto madre, ma in quanto donna alle prese con una visione della società che autoimpone – purtroppo – ancora certi ruoli (quelli che rivede nel personaggio di Dakota Johnson). Solo così possiamo empatizzare con lei, il suo ruolo, il suo trauma.
Esistono storie con protagoniste forti alle prese con la maternità, il fallimento e l’eventuale sua risoluzione. Anche nel cinema c’è la possibilità e soprattutto la capacità di decostruire l’archetipo femminile passando proprio attraverso gli stessi temi che hanno irrobustito i suoi clichés, ma stavolta con una scrittura e un approccio reale che rendano possibile una cosa che non è sempre scontata: l’empatia per i personaggi.
Maggie Gyllenhaal, nelle vesti di attrice, regista e sceneggiatrice, è una figura da tenere d’occhio in questo senso: ha dimostrato di riuscire in questa decostruzione sia davanti che dietro la cinepresa, facendo scuola. E quando si parla di “personaggi femminili forti e complessi” bisognerebbe parlare di questi film e di queste storie (e di altre ancora, si spera) che hanno reso tale per davvero le loro figure femminili, mettendo un punto a quella serie di sceneggiature fiacche e ipercostruite.
Come il cinema degli ultimi anni ha raccontato
la relazione tra donne e maternità,
di Davide Merola
TR-71
27.11.2022
Quello che di norma è riconosciuto come grande cinema, o cinema d’autore, nel corso del tempo ha fatto scuola con l’archetipo della donna mossa esclusivamente dal trauma, dove questo trauma era intrecciato alla maternità.
Essere madre è la radice del conflitto: pensate a Psycho e a Norman Bates. L’archetipo ha funzionato molto bene nel cinema del passato (soprattutto nel genere dell'horror e del thriller) e anche se ci ha insegnato qualcosa non si era mai prefissato il compito di essere una rappresentazione fedele della donna madre e del concetto di maternità. Il cinema è poi stato sempre uno strumento molto potente capace di cambiare o influenzare il pensiero comune, addirittura di più in alcune epoche che in altre: in quanto tale il cinema è uno strumento politico, e anche per questo nel presente post-Harvey Weinstein e nell’era del Me Too si è spinto parecchio per una diversità maggiore sullo schermo e per più registe donne.
Essere accurati nella rappresentazione è una chiave di volta per accedere al grande pubblico che viene a contatto con queste storie. È importante, in questo senso, il significato che il cinema dà alle figure materne e alla maternità.
Netflix, che da sempre si pone come araldo nei confronti di queste tematiche e si mostra attento ai problemi contemporanei, negli ultimi anni ha prodotto due film che, per quanto diversi tra di loro, si concentrano su figure femminili che hanno a che fare con la maternità. In queste storie, la casualità devia il loro percorso materno e ciò le rende vulnerabili: la loro vita sarà vissuta in funzione di quel trauma fino a quando non si giungerà a una risoluzione.
In Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, il personaggio di Vanessa Kirby perde sua figlia dopo delle complicazioni dovute al parto in casa. La tragedia innesca tensione nel rapporto col marito (Shia LaBeouf) e depressione nella coppia. Il trauma, di riflesso, crea un conflitto tra la protagonista e sua madre: la maternità “fallita” contro quella “compiuta”. L’unica soluzione sembrerebbe riporsi nella celebrazione del funerale della neonata. D’altro canto, il marito della protagonista trova la risoluzione del trauma, o almeno un allontanamento, nell’abuso di sostanze stupefacenti dopo un periodo di sobrietà e nell’atto del tradimento (la donna sembra sempre troppo debole in queste storie per concedersi tali fughe). Il concetto di maternità espresso dal film è mosso esclusivamente dal trauma della perdita della neonata, e la sua agognata risoluzione sembra girare in tondo per tutta la storia. Non c’è un reale sviluppo, ma solo un “punto” momentaneo raggiunto quando la protagonista non riconosce colpevole l’ostetrica che l’aveva aiutata nel parto in casa. Il finale? Qualche anno dopo il personaggio di Vanessa Kirby è diventato finalmente madre.
Si crea un loop nel melodramma: la soluzione sta nell’accettazione del trauma, ma non può esserci trauma senza la stessa soluzione. Il concepimento, riuscito o meno, sembra essere l’unica cosa che manda avanti queste – che si profetizzano “grandi” – figure femminili del cinema. Ma non c’è personalità oltre questo tema, solo una scrittura stanca e sfiancante.
Eppure negli anni abbiamo visto altre figure femminili portare avanti la propria storia e sviluppare una personalità confinata nei novanta a passa minuti del film anche senza concentrarsi sulla questione della maternità: il personaggio di Greta Gerwig in Frances Ha muove un racconto generazionale che non ha tempo di preoccuparsi anche del trauma dell’essere madre; Joachim Trier in La persona peggiore del mondo si concentra sullo stesso racconto affrontando anche brevemente il tema della maternità (parlando anche di aborto), ma ponendo la risoluzione del trauma non solo in un grande personaggio femminile, ma anche nel tema dell’accettazione della propria persona e di quello che ci circonda.
L’altro film di Netflix in esame è il recente Blonde di Andrew Dominik, un biopic che sceglie deliberatamente di non esserlo snaturando la reale storia di Norma Jeane/Marilyn Monroe, rimarcando l’ipersessualizzazione dell’attrice e soffermandosi sull’ennesimo trauma materno che qui sembra esistere solo nella grottesca funzione dell’aborto (come se fosse una propaganda pro-life): nel film questo ha origine sin dalla sua giovane età.
Norma Jeane non ha mai conosciuto suo padre, mentre sua madre Gladys – al di là dei suoi problemi mentali – non riesce a sopportare di vivere la maternità senza l’aiuto dell’uomo: tenta di affogarla nella vasca da bagno per poi lasciarla andare, quasi un aborto metaforico arrivato troppo tardi. Poi negli anni ’40, nel suo periodo da pin-up, Marilyn Monroe rimane incinta mentre intraprende una relazione poliamorosa: la paura che il neonato finisca per avere gli stessi problemi della madre è tanta da spingerla ad abortire; anche se ci ripensa, la pratica all’epoca era illegale e troppo complicata, e ormai è troppo tardi. Quando negli anni ’50 conosce Arthur Miller e i due si sposano, lei rimane nuovamente incinta: immagina che il suo nuovo nascituro le parli e la preghi di non abortire. Marilyn ha un incidente, inciampa e abortisce involontariamente a causa della caduta. Negli anni ’60, quando si ipotizza che fosse l’amante di Kennedy, durante una giornata in cui l’attrice gli fa visita il Presidente abusa sessualmente di lei: in seguito, stordita e drogata, immagina di avere l’ennesimo aborto. Questi e gli altri eventi narrati nel film la porteranno al suicidio.
Stavolta parliamo di una figura femminile realmente esistita: qui il trauma materno (eternamente irrisolto, dove anche la questione dell’aborto entra nel loop) si aggiunge a quello dell’assenza del padre, in un macabro gioco fatto tra l’altro sulla pelle di una figura che non c’è più. La risoluzione sta addirittura nel suicidio, “punto” finale su una vita scritta e narrata come se non potesse andare oltre l’atto del concepimento, l’amore tossico e il supporto maschile. Morte come ultima soluzione anche per sfuggire a eventuali e ipotetiche diagnosi di disturbi mentali.
In Blonde il passo, quindi, è decisamente più lungo della gamba.
Per fortuna c’è chi in questo appiattimento di scrittura femminile si è saputo distinguere.
Dopo aver già citato due grandi titoli, ce ne sono altri due che dovrebbero destare la nostra attenzione per quanto riguarda la decostruzione dell’archetipo femminile, e hanno a che fare entrambi con la stessa attrice: Maggie Gyllenhaal. I due film in questione sono usciti nel corso degli ultimi tre-quattro anni, e la vedono rispettivamente nei panni di attrice protagonista – Lontano da qui (The Kindergarten Teacher) – e in quelli di regista e sceneggiatrice – La figlia oscura (The Lost Daughter).
In The Kindergarten Teacher, Maggie Gyllenhaal è una maestra d’asilo amante della poesia che trova la sua ossessione in un alunno che sembra essere un prodigio nel comporre strofe.
Nel film diretto da Sara Colangelo (remake dell'omonimo film israeliano), il trauma materno è incentrato sul fatto che il personaggio di Maggie Gyllenhaal sente di aver fallito nel trasmettere le sue passioni e i suoi valori ai due figli: il maschio, nonostante la buona media a scuola, si vuole arruolare nella marina; la femmina, altrettanto brava, preferisce non concentrarsi soltanto sullo studio ma vuole anche divertirsi e svagarsi. Nel bambino prodigio la maestra vede invece un’occasione di riscatto sia personale, perché le sue stesse poesie non hanno molto successo in un corso che sta seguendo, sia sul lato materno come seconda occasione nell’educare un altro “figlio” che secondo lei non riceve le giuste attenzioni da un padre poco presente e da una tata svampita. Si sente realmente viva: il successo si mischia all’ossessione; tradisce il marito con l’insegnante del corso di poesie solo per la smania di controllo che sta crescendo in lei (finalmente un personaggio femminile che si concede questa “fuga”); arriva praticamente a rapire il bambino solo per fargli produrre quante più poesie possibili.
In questo film avviene una decostruzione: l’archetipo femminile della madre risolve il trauma di un “concepimento fallito” (i suoi figli la deludono) tramite una personale e oscura ricerca di grandezza e successo, sulla strada della quale non risparmia nessuno. E come da manuale il finale del melodramma è tragico per la nostra protagonista, ma la tragicità resta legata alla sua sfera personale e, per una volta, non a quella della maternità.
In The Lost Daughter – forte del romanzo di Elena Ferrante dal quale il film è tratto – Maggie Gyllenhaal dirige e scrive un’altra storia di ossessione, quella che il personaggio di Olivia Colman sviluppa verso Dakota Johnson, giovane madre che le riporta alla mente un passato materno non proprio sereno.
Qui la decostruzione avviene nel concetto stesso di maternità: del passato del personaggio di Olivia Colman ci vengono mostrati momenti spesso assenti in questi melodrammi, quali il rimpianto, la stanchezza e un completo distacco dalla propria persona (ne soffriva anche la maestra d’asilo in The Kindergarten Teacher). La maternità è amore sincero, qui diviso tra la famiglia e la sfera più personale e intima.
Scopriamo che il compimento della protagonista sta nell’aver abbandonato, letteralmente, quel valore della famiglia. Alla fine arriverà il momento di venire a patti con le proprie colpe giungendo alla risoluzione del trauma, ma è il diritto a essere egoista che l’ha portata fino a lì. E in quanto libera di esercitare questo diritto, nonostante il suo ruolo di madre, non è mai vittima del rimorso: la sua colpa non si sviluppa in quanto madre, ma in quanto donna alle prese con una visione della società che autoimpone – purtroppo – ancora certi ruoli (quelli che rivede nel personaggio di Dakota Johnson). Solo così possiamo empatizzare con lei, il suo ruolo, il suo trauma.
Esistono storie con protagoniste forti alle prese con la maternità, il fallimento e l’eventuale sua risoluzione. Anche nel cinema c’è la possibilità e soprattutto la capacità di decostruire l’archetipo femminile passando proprio attraverso gli stessi temi che hanno irrobustito i suoi clichés, ma stavolta con una scrittura e un approccio reale che rendano possibile una cosa che non è sempre scontata: l’empatia per i personaggi.
Maggie Gyllenhaal, nelle vesti di attrice, regista e sceneggiatrice, è una figura da tenere d’occhio in questo senso: ha dimostrato di riuscire in questa decostruzione sia davanti che dietro la cinepresa, facendo scuola. E quando si parla di “personaggi femminili forti e complessi” bisognerebbe parlare di questi film e di queste storie (e di altre ancora, si spera) che hanno reso tale per davvero le loro figure femminili, mettendo un punto a quella serie di sceneggiature fiacche e ipercostruite.