NC-40
10.12.2020
Raw, titolo internazionale dell’opera prima della giovanissima regista francese Julia Ducournau (che si sostituisce all’originale francese Grave), non potrebbe essere più azzeccato nel cogliere l’essenza dell’intero film. Adolescenza e orrore, un film cannibalesco e crudo appunto.
Justine ha sedici anni, proviene da una famiglia di vegetariani di quelli molto strict. Inizia il suo percorso universitario nella facoltà di veterinaria per seguire le orme della sorella maggiore, Alexia. Sottostando alle feroci dinamiche di nonnismo della scuola, viene obbligata a ingoiare carne cruda di coniglio. Non è solo la sua mente a rigettarla, ma anche il suo corpo. Justine ha infatti una violenta reazione cutanea. Ma si sa, chi assaggia ritorna, almeno così recita il detto. E Justine, suo malgrado, è sempre più attratta dalla carne. Razionalmente la respinge, ma il suo corpo la desidera, sempre più intensamente.
Un altro interessantissimo esordio sul tema dell’adolescenza, è Blue my Mind, della regista svizzera Lisa Bruhlmann, che si muove tra dramma e fantasy. Violenza, incertezza, senso di inadeguatezza, rigetto della propria immagine e ricerca costante dell’approvazione esterna. Mia, appena quindicenne, incarna tutto questo. Trasferitasi da poco a Zurigo con entrambi i genitori, fatica ad adattarsi alla nuova realtà che la circonda. Tra tentativi di evasione e la permanente ricerca della trasgressione come via per sfuggire alla quotidianità, Mia cresce. Il suo corpo sta cambiando e lei questo cambiamento lo percepisce a livello epidermico, giorno dopo giorno. Determinata, oppone resistenza, ma la trasformazione è inarrestabile ed estrema.
Girl, esordio del giovane regista belga Lukas Dhont, Caméra D’Or al festival di Cannes ed in concorso all’Oscar nella categoria di miglior film straniero, affronta senza sconti cosa significa abitare il corpo di un altro. Lara ha passato da poco i quindici anni. Odia il corpo che abita perché non lo sente suo. Una donna intrappolata nel corpo di un uomo. Non tollera la vista della sua immagine riflessa nello specchio, sfugge allo sguardo indiscreto dei suoi coetanei. Usa il nastro adesivo per nascondere il suo sesso. Sta seguendo una terapia ormonale, ma vorrebbe bruciare i tempi. Ha un sogno, quello di diventare una ballerina. Nella danza sfoga la sua frustrazione, ricerca la perfezione e soprattutto è libera di essere quello che è. Quando balla sente di aver trovato il suo posto.
Giovani corpi di donne in fieri, sottoposti a una via crucis incessante, totalizzante ed inarrestabile. Tre opere prime folgoranti di giovanissimi registi di diversa nazionalità. L’adolescenza è al centro della riflessione di tutti e tre i film, visceralmente riletta attraverso potenti metafore corporee, crude.
Raw, crudo. Così una volta venivano definiti nel lessico borghese i film che potremmo definire disturbanti. Raw, della giovane regista belga Julia Ducournau, è esattamente questo. Presentato nella sezione Settimana della critica al Festival di Cannes nel 2016, è un interessante e straniante coming of age. Il solo titolo rimanda all’idea di carne cruda, all’odore e al sapore del sangue. Nessun elegante carpaccio al limone, ma tranci crudi, corpi senza vita. Raw è un film sul cannibalismo, sul piacere di mangiare un altro essere umano. Questo è quello che la protagonista, la giovane e gracile Justine, scopre come pulsione incoercibile.
Sintesi fin troppo banale, perché c’è molto di più. Julia Ducournau mette in piedi una narrazione senza sconti sul periodo dell’adolescenza. Lo fa incarnando in una metafora il disagio fisico e percepibile di una giovane donna che cerca di trovare la sua identità ed il suo posto nel mondo, barcamenandosi tra compromessi sociali e istintualità incontenibile. Justine ha fame, ha scoperto il sapore della carne cruda e non può farne a meno. Alla scoperta del piacere del sangue si accompagna un’incontenibile fame sessuale che si trasforma e si potenzia fino a diventare cannibalismo. Justine prende a morsi, letteralmente, il sistema di valori che le è stato inculcato. Lo rigetta trasformandosi in un mostro. Si odia, ma non può farne a meno. Raw è un body horror lucido e feroce, che con una regia elegantissima estremizza l’estetica del genere portandolo al punto più alto delle sue potenzialità.
Se in Raw il desiderio sessuale trasforma la giovane Justine in una predatrice seriale contro ogni schema e costrizione sociale, diversa è la riflessione portata avanti da Lisa Brühlman, giovane regista di origini svizzere, nel suo primo lungometraggio, Blue My Mind. Alla base una metafora di fortissimo impatto che distrugge qualsiasi legame con gli abusati iter cinematografici dei film-romanzo di formazione. La sofferenza della giovanissima Mia è tutta interiore. Il suo senso di profondo disagio, frustrazione ed inadeguatezza permea il tessuto del film. Il sesso, sentito a quell’età come metro di valutazione per la propria crescita, rito di passaggio irrinunciabile per l’universo femminile, come testimonianza del sentirsi belle e desiderate dai ragazzi, è qui descritto con tremenda efficacia. Mia è la personificazione di un universo femminile che da adolescente si prepara a trasformarsi in donna. Il suo corpo sta cambiando repentinamente, sotto il suo sguardo rigido.
La regista scava a fondo in quel turbinio di emozioni e sensazioni contrastanti, a cui dà forma senza sconti. Mia è vittima inconsapevole di una trasformazione talmente viva da essere epidermica. Il problema è che nessuno l’ha mai informata, non capisce cosa stia succedendo, rigetta questo processo che la coinvolge. Si sente brutta, mostruosa, diversa. La sua stessa pelle sta cambiando, è violacea, si squama. Mia la odia, vorrebbe strapparla via da sé. Allora eccola impugnare un coltello da cucina e provare a tagliarla via. Il sangue scorre via a fiotti. Ma la vista della carne viva è quasi un sollievo per Mia. La sua pelle però è pronta a rimarginarsi, ancora viola e squamata. La disperazione mista a furia cieca di Mia è tale da farla impazzire. Sola in casa, è scossa da violenti scatti d’ira. Scappa alla ricerca ossessiva del conforto nella controparte maschile. Ha bisogno che qualcuno la desideri, la trovi attraente. Disposta a coprirsi, a rinnegare sé stessa purchè questo avvenga. Qui il culmine della crisi, tutto si spezza, ma questo momento funge da catarsi. Mia è pronta a prendere coscienza della nuova sé stessa così da poter rinascere, in vesti totalmente inaspettate.
Corpi in cambiamento, corpi martoriati da una spinta interiore dettata da un disagio profondo e radicato. Questa è anche la tematica al centro della riflessione del delicato quanto estremo Girl del regista belga Lukas Dhont, in selezione per l’Oscar al miglior film straniero del 2018.
Lara è in una fase di transizione. Il suo corpo di uomo sta per trasformarsi in quello di una donna. Si sta sottoponendo ad una cura ormonale in attesa dell’operazione. La mdp è fissa su di lei, è il suo sguardo, ma anche la sua mente. Esprime il desiderio, il disagio, la sofferenza. Puntuale e precisa nel chiarire il fulcro del film. Il corpo, la fisicità. Lara è ossessionata dalla perfezione, sfoga nella danza la sua voglia di essere come non si sente. I piedi le sanguinano ma non le importa, la voglia di essere libera è più forte, e la danza rappresenta per lei questa condizione, in attesa di un’operazione che vede sempre più lontana. Combatte contro l’ostacolo di una fisicità mascolina che non le permette la leggiadria di una farfalla. Lara non è sola, ha una famiglia che la supporta e la ama, un padre affettuoso e comprensivo. Ma non è sufficiente. La sua anima è in gabbia, e nonostante le pene a cui sottopone il suo giovane ed esile corpo si rende conto che la forza di volontà non basta. Lara porta su di sé il peso degli sguardi delle sue compagne. Vorrebbe essere come loro. Sa di esserlo se non fosse per l’involucro esterno, per il suo sesso che la sottopone a battute superficiali, che però la feriscono nel vivo come coltelli affilati. Arriva a coprirlo con lo scotch per renderlo invisibile sotto un bikini femminile. Quella raccontata dal giovanissimo Dhont è una storia di opprimente disperazione. Il regista non ha paura di spingersi oltre, ritraendo Lara in momenti di profonda depressione che la spingono ad atti di violento autolesionismo. Completamente girato in interni, l’oppressione della protagonista si riflette nel senso di soffocamento che questo le provoca.
Tre esordi diversi ma tutti estremamente interessanti, soprattutto per la spiccata capacità di esplorare in modo innovativo un tema come quello dell’adolescenza. Niente drammi d’amore e luci soffuse, nessuna risata o dolcezza. Tre film carnali ma densi di una forte carica epifanica, che riesce a penetrare tra tempo e spazio, per offrire allo spettatore una realtà adolescenziale spesso nascosta o sovrapposta al quotidiano.
NC-40
10.12.2020
Raw, titolo internazionale dell’opera prima della giovanissima regista francese Julia Ducournau (che si sostituisce all’originale francese Grave), non potrebbe essere più azzeccato nel cogliere l’essenza dell’intero film. Adolescenza e orrore, un film cannibalesco e crudo appunto.
Justine ha sedici anni, proviene da una famiglia di vegetariani di quelli molto strict. Inizia il suo percorso universitario nella facoltà di veterinaria per seguire le orme della sorella maggiore, Alexia. Sottostando alle feroci dinamiche di nonnismo della scuola, viene obbligata a ingoiare carne cruda di coniglio. Non è solo la sua mente a rigettarla, ma anche il suo corpo. Justine ha infatti una violenta reazione cutanea. Ma si sa, chi assaggia ritorna, almeno così recita il detto. E Justine, suo malgrado, è sempre più attratta dalla carne. Razionalmente la respinge, ma il suo corpo la desidera, sempre più intensamente.
Un altro interessantissimo esordio sul tema dell’adolescenza, è Blue my Mind, della regista svizzera Lisa Bruhlmann, che si muove tra dramma e fantasy. Violenza, incertezza, senso di inadeguatezza, rigetto della propria immagine e ricerca costante dell’approvazione esterna. Mia, appena quindicenne, incarna tutto questo. Trasferitasi da poco a Zurigo con entrambi i genitori, fatica ad adattarsi alla nuova realtà che la circonda. Tra tentativi di evasione e la permanente ricerca della trasgressione come via per sfuggire alla quotidianità, Mia cresce. Il suo corpo sta cambiando e lei questo cambiamento lo percepisce a livello epidermico, giorno dopo giorno. Determinata, oppone resistenza, ma la trasformazione è inarrestabile ed estrema.
Girl, esordio del giovane regista belga Lukas Dhont, Caméra D’Or al festival di Cannes ed in concorso all’Oscar nella categoria di miglior film straniero, affronta senza sconti cosa significa abitare il corpo di un altro. Lara ha passato da poco i quindici anni. Odia il corpo che abita perché non lo sente suo. Una donna intrappolata nel corpo di un uomo. Non tollera la vista della sua immagine riflessa nello specchio, sfugge allo sguardo indiscreto dei suoi coetanei. Usa il nastro adesivo per nascondere il suo sesso. Sta seguendo una terapia ormonale, ma vorrebbe bruciare i tempi. Ha un sogno, quello di diventare una ballerina. Nella danza sfoga la sua frustrazione, ricerca la perfezione e soprattutto è libera di essere quello che è. Quando balla sente di aver trovato il suo posto.
Giovani corpi di donne in fieri, sottoposti a una via crucis incessante, totalizzante ed inarrestabile. Tre opere prime folgoranti di giovanissimi registi di diversa nazionalità. L’adolescenza è al centro della riflessione di tutti e tre i film, visceralmente riletta attraverso potenti metafore corporee, crude.
Raw, crudo. Così una volta venivano definiti nel lessico borghese i film che potremmo definire disturbanti. Raw, della giovane regista belga Julia Ducournau, è esattamente questo. Presentato nella sezione Settimana della critica al Festival di Cannes nel 2016, è un interessante e straniante coming of age. Il solo titolo rimanda all’idea di carne cruda, all’odore e al sapore del sangue. Nessun elegante carpaccio al limone, ma tranci crudi, corpi senza vita. Raw è un film sul cannibalismo, sul piacere di mangiare un altro essere umano. Questo è quello che la protagonista, la giovane e gracile Justine, scopre come pulsione incoercibile.
Sintesi fin troppo banale, perché c’è molto di più. Julia Ducournau mette in piedi una narrazione senza sconti sul periodo dell’adolescenza. Lo fa incarnando in una metafora il disagio fisico e percepibile di una giovane donna che cerca di trovare la sua identità ed il suo posto nel mondo, barcamenandosi tra compromessi sociali e istintualità incontenibile. Justine ha fame, ha scoperto il sapore della carne cruda e non può farne a meno. Alla scoperta del piacere del sangue si accompagna un’incontenibile fame sessuale che si trasforma e si potenzia fino a diventare cannibalismo. Justine prende a morsi, letteralmente, il sistema di valori che le è stato inculcato. Lo rigetta trasformandosi in un mostro. Si odia, ma non può farne a meno. Raw è un body horror lucido e feroce, che con una regia elegantissima estremizza l’estetica del genere portandolo al punto più alto delle sue potenzialità.
Se in Raw il desiderio sessuale trasforma la giovane Justine in una predatrice seriale contro ogni schema e costrizione sociale, diversa è la riflessione portata avanti da Lisa Brühlman, giovane regista di origini svizzere, nel suo primo lungometraggio, Blue My Mind. Alla base una metafora di fortissimo impatto che distrugge qualsiasi legame con gli abusati iter cinematografici dei film-romanzo di formazione. La sofferenza della giovanissima Mia è tutta interiore. Il suo senso di profondo disagio, frustrazione ed inadeguatezza permea il tessuto del film. Il sesso, sentito a quell’età come metro di valutazione per la propria crescita, rito di passaggio irrinunciabile per l’universo femminile, come testimonianza del sentirsi belle e desiderate dai ragazzi, è qui descritto con tremenda efficacia. Mia è la personificazione di un universo femminile che da adolescente si prepara a trasformarsi in donna. Il suo corpo sta cambiando repentinamente, sotto il suo sguardo rigido.
La regista scava a fondo in quel turbinio di emozioni e sensazioni contrastanti, a cui dà forma senza sconti. Mia è vittima inconsapevole di una trasformazione talmente viva da essere epidermica. Il problema è che nessuno l’ha mai informata, non capisce cosa stia succedendo, rigetta questo processo che la coinvolge. Si sente brutta, mostruosa, diversa. La sua stessa pelle sta cambiando, è violacea, si squama. Mia la odia, vorrebbe strapparla via da sé. Allora eccola impugnare un coltello da cucina e provare a tagliarla via. Il sangue scorre via a fiotti. Ma la vista della carne viva è quasi un sollievo per Mia. La sua pelle però è pronta a rimarginarsi, ancora viola e squamata. La disperazione mista a furia cieca di Mia è tale da farla impazzire. Sola in casa, è scossa da violenti scatti d’ira. Scappa alla ricerca ossessiva del conforto nella controparte maschile. Ha bisogno che qualcuno la desideri, la trovi attraente. Disposta a coprirsi, a rinnegare sé stessa purchè questo avvenga. Qui il culmine della crisi, tutto si spezza, ma questo momento funge da catarsi. Mia è pronta a prendere coscienza della nuova sé stessa così da poter rinascere, in vesti totalmente inaspettate.
Corpi in cambiamento, corpi martoriati da una spinta interiore dettata da un disagio profondo e radicato. Questa è anche la tematica al centro della riflessione del delicato quanto estremo Girl del regista belga Lukas Dhont, in selezione per l’Oscar al miglior film straniero del 2018.
Lara è in una fase di transizione. Il suo corpo di uomo sta per trasformarsi in quello di una donna. Si sta sottoponendo ad una cura ormonale in attesa dell’operazione. La mdp è fissa su di lei, è il suo sguardo, ma anche la sua mente. Esprime il desiderio, il disagio, la sofferenza. Puntuale e precisa nel chiarire il fulcro del film. Il corpo, la fisicità. Lara è ossessionata dalla perfezione, sfoga nella danza la sua voglia di essere come non si sente. I piedi le sanguinano ma non le importa, la voglia di essere libera è più forte, e la danza rappresenta per lei questa condizione, in attesa di un’operazione che vede sempre più lontana. Combatte contro l’ostacolo di una fisicità mascolina che non le permette la leggiadria di una farfalla. Lara non è sola, ha una famiglia che la supporta e la ama, un padre affettuoso e comprensivo. Ma non è sufficiente. La sua anima è in gabbia, e nonostante le pene a cui sottopone il suo giovane ed esile corpo si rende conto che la forza di volontà non basta. Lara porta su di sé il peso degli sguardi delle sue compagne. Vorrebbe essere come loro. Sa di esserlo se non fosse per l’involucro esterno, per il suo sesso che la sottopone a battute superficiali, che però la feriscono nel vivo come coltelli affilati. Arriva a coprirlo con lo scotch per renderlo invisibile sotto un bikini femminile. Quella raccontata dal giovanissimo Dhont è una storia di opprimente disperazione. Il regista non ha paura di spingersi oltre, ritraendo Lara in momenti di profonda depressione che la spingono ad atti di violento autolesionismo. Completamente girato in interni, l’oppressione della protagonista si riflette nel senso di soffocamento che questo le provoca.
Tre esordi diversi ma tutti estremamente interessanti, soprattutto per la spiccata capacità di esplorare in modo innovativo un tema come quello dell’adolescenza. Niente drammi d’amore e luci soffuse, nessuna risata o dolcezza. Tre film carnali ma densi di una forte carica epifanica, che riesce a penetrare tra tempo e spazio, per offrire allo spettatore una realtà adolescenziale spesso nascosta o sovrapposta al quotidiano.