L'estasi e la caduta
nel cinema di Sean Baker,
di Pavel Belli Micati
TR-111
16.11.2024
Sean Baker ce l’ha fatta. Si è guadagnato un posto nell’Olimpo. Fresca di vittoria della Palma d’Oro a Cannes 2024, la sua ultima opera Anora, da poco presentata alla Festa del Cinema di Roma, sta per concludere il tour mondiale dei festival, mentre in Europa è in corso di distribuzione e l’Italia è uno dei tanti spilli puntati sulla mappa. Il film, che nasce dal desiderio del regista di esplorare la vita di una sex worker nella New York contemporanea, continua a raccogliere ovazioni, plausi e candidature, e si appresta ad affrontare la stagione dei premi: dopo Cannes, sarà la consacrazione con l’Oscar la ciliegina sulla torta? Ci sono delle analogie tra Palma d’Oro e Oscar, le ultime vittorie di The Zone of Interest (La zona d’interesse, 2024), Anatomy of a Fall (Anatomia di una caduta, 2023) e Parasite (2019) sembrano segni premonitori. È anche vero che, nello stesso palmarès, figurano titoli che non hanno riscosso altrettanto successo tra i membri dell’Academy, come Triangle of Sadness (2022) - quell’anno scavalcato dall’epica multiversale Everything Everywhere All At Once - e Titane (2021), scelto per rappresentare la Francia a Los Angeles ma poi escluso dalla cinquina finale.
Anora ha comunque tutte le carte in regola per trionfare: una ragazza e il suo sogno, la scalata sociale, l’estasi e la caduta a picco. Si aggiungono poi la sagacia dei dialoghi, marchio di Baker, la precisione tecnica finalmente conquistata grazie a budget più alti e, ovviamente, la bellezza della resa estetica. È tutto ciò verso cui il regista ha lavorato: il duro lavoro e il divertimento effimero si fondono qui in una spassosa giostra variopinta, un carillon dai ritmi seducenti e i suoni esaltanti, un carosello massimalista dove il regista newyorkese esplora le sue fantasie adolescenziali, prima autorizzate da lunghe notti di divertimento, e poi vagliate alla luce post-sbronza del mattino seguente. Inoltre, manca tutto ciò l’Academy reputa problematico: non ci sono armi, nudi integrali, cannibalismo né si parla di aborto o di assistenza sociosanitaria. Anora è l’asso nella manica di Baker, ha convinto i salotti della cinefilia europea e compiace un pubblico variegato di statunitensi benpensanti. Proprio perché è, al contempo, la sua opera più raffinata e la sua favola meno profonda.
Definiti anti-Cenerentole, i personaggi di Baker ne condividono i sogni di un avvenire migliore, ma al contrario della fortunata principessa, il destino riserva loro brutte e soprattutto inaspettate sorprese. “Pare che pioverà tutto il giorno” dice Young a Ming Ding, il giovane protagonista di Take Out (2004), realizzato in collaborazione con Shih-Ching Tsou - che produrrà anche i successivi lavori di Baker e comparirà anche in qualche ruolo da guest. Ciò che è immondizia per uno, diventa il tesoro di un altro, ed è così che in una giornata di pioggia a New York, i clienti di un take-away di Chinatown ordinano a domicilio e Ming Ding può raccogliere un sacco di mance e saldare i debiti di gioco contratti con Mr. Jiang. “Più pioggia, più consegne!”: ecco l’immigrato illegale che non spiccica una parola d’inglese e si prepara a una corsa contro il tempo in bicicletta per liberarsi degli scagnozzi che gli stanno alle calcagna. Non si capisce mai dov’è che gira la fortuna, nelle avventure di Baker. Di certo, non dalla parte dei suoi protagonisti.
Delle vere e proprie anti-fiabe, nessuna delle storie di Baker si conclude con un lieto fine; eppure, i suoi personaggi sventurati hanno un modo tutto loro di vivere il fallimento e di immaginare il successo che, frammento dopo frammento, silenzio dopo parola, conquista il pubblico. Sono personaggi che vivono ai margini della società, sex-workers o immigrati irregolari che campano di rimedi, alla meglio, con soluzioni via via peggiori. Come Lucky ad esempio, il protagonista di Prince of Broadway (2008). Anche lui clandestino, ma di origini ghanesi: fa l’acchiappino per Levon, il proprietario di un negozio che vende capi d’abbigliamento contraffatti. Si contano i soldi, si litiga con i matti per strada, si prende la metro, o semplicemente si cammina con le proprie gambe: gli antieroi di Baker non guidano, ma pure se avessero la patente, non avrebbero soldi a sufficienza per comprare un’auto, e in America non avere la macchina è come non avere un’identità.
Altra cifra imprescindibile di Baker, sono le diarie dei suoi sventurati scandite dai piccoli gesti: dettagli su azioni ricorsive che da una parte evidenziano la ripetitività del duro lavoro contemporaneo e dall’altra invitano a una maggiore identificazione con il loro quotidiano. Si cammina, si aspetta, si compra roba da poco conto, si truffa e si viene truffati. I soldi vanno contati, gli ordini spediti e i pacchi consegnati. Come un aggiornamento contemporaneo del neorealismo italiano, entriamo in sintonia con i loro corpi, i movimenti registrati dalla camera entrano in focus fino a confondersi con i nostri, anzi diventano nostri. Camminiamo insieme a Cin-Dee, pedaliamo con Ming Ding, compriamo noi il gelato a Moonee e le ciambelle a Mikey. E anche se non siamo clandestini nel nostro paese, anche se non ci prostituiamo per pagare il sordido albergo a ore in cui dormiamo o non spacciamo droga per conto di gente pericolosa, entriamo in contatto con l’esperienza dei personaggi nella loro ricezione empirica.
Altra cifra distintiva di Baker è la freschezza dei dialoghi, la loro aderenza al reale. Non importa quanto assurdo sia lo scenario, le parole che escono dalla bocca dei suoi personaggi sono, oltre che esilaranti, sempre azzeccate. Il lungometraggio d’esordio, Four Letter Words (2000) ne è l’esempio: il racconto della psicologia post-adolescenziale ci porta fuori da New York e dentro le conversazioni di giovani maschi che, in pausa festiva dal college, tornano alla loro realtà suburbana e si riconnettono ad una festa. Si beve, si chiacchiera, non succede nulla di eclatante: ma solo perché i protagonisti sono persone normali, non vanno in giro a cercarsi rogne. Parlano di sesso, porno, come conquistare le ragazze, i corsi da frequentare, le opportunità da cogliere, ma affrontano anche temi esistenziali tipici di quell’età: l’amore vero esiste? I condizionamenti sociali sono reali? Nasciamo in un modo irreversibile o possiamo realmente cambiare? In una spedizione per recuperare dell’erba, Baker mette in bocca a Rich, l’unico ebreo alla festa, il sunto della sua poetica: “È tipo come quando cresci i figli con qualcosa, quando diventano grandi non solo ci si abituano, ma finiscono pure per apprezzarla”.
Non c’è divina provvidenza, solo maledizioni predestinate – insegnano le massime di queste favole, e quelli che appaiono come miracoli, si rivelano sempre abbagli pericolosi. Come il caso di Jane, la protagonista di Starlet (2012): Baker qui si sposta in California, dove una giovane pornoattrice da poco entrata nel giro fa la scoperta di una piccola fortuna. La ragazza trova una mazzetta di diecimila dollari nascosta dentro un thermos che compra da un’anziana di nome Sadie ad una svendita nel giardino della sua casa. Il ricco bottino dà subito alla giovane una discreta serenità, poi comincia a riempirla di sensi di colpa nei confronti dell’inconsapevole signora. Così decide di diventarci amica. Questo duo inusuale è messo ripetutamente alla prova, prima dalla diffidenza di Sadie, poi dall’invidia che cresce attorno a Jane, gelosia che si accompagna al desiderio e rischio di rivelare la verità nascosta dietro il suo interesse: l’opportunismo della ragazza, comunque, finisce per impallidire rispetto al dolce regalo del finale. La dolcezza è una virtù, e tutti i personaggi del cinema di Baker sembrano confermarlo.
Però non è una cosa scontata, perché molto spesso la loro bontà gli si ritorce contro. Per questo non si possono permettere legami profondi o relazioni serie con l’umanità che incontrano nelle loro sventure. Un po’ come le migliori amiche protagoniste di Tangerine (2015) che prima si amano e poi si odiano e poi si amano di nuovo. Nel suo secondo lungometraggio ambientato a Los Angeles, Baker segue i l’odissea di Sin-Dee, una prostituta reduce da un soggiorno in prigione che torna nel suo giro e scopre che il fidanzato-protettore, Chester, ha trovato un’altra preferita. “Non fare drammi”, dice Alexandra all’amica, conscia di come le sue parole siano vane. E infatti nessun dramma, solo tragedie: furiosa di conoscere la fantomatica donna, con la quale Chester avrebbe addirittura intenzioni serie, gelosia, invidia e frustrazione muovono la pazza maratona di una ragazza che non ha nulla da perdere, si fa tutta la città a piedi alla ricerca del suo uomo e di spiegazioni, anche a costo di compromettere la reputazione di Razmik, un tassista di origini armene che, di nascosto dalla famiglia, frequenta i marciapiedi che le due amiche battono.
Il cinema di Baker esplora anche gli scontri identitari e le costrizioni sociali, ma sempre in qualità di fenomeni conclusi, non come processi generativi e mai in vista di una critica sociale: ne sono un esempio i giovani protagonisti di The Florida Project (Un sogno chiamato Florida, 2017) - dove il regista si trasferisce alle porte di Disneyworld - che si divertono con poco, dicono un sacco di parolacce e non chiedono mai scusa. Sono dei monelli e basta, non c’è da compatirli. Come la giovane madre Halley, Moonee che ha solo sei anni, non ha paura del giudizio altrui e ha sempre la risposta pronta; più che cercare qualcosa di buono per sé, combina piccole malefatte ai danni degli altri. Come una ragazzina di vita, passa le afose giornate estive esplorando l’edilizia circostante in stato di abbandono, non-luoghi sur-moderni che costeggiano l’ultima tappa del cinema-sogno di Baker: il parco divertimenti. Quello raccontato da The Florida Project è piuttosto una Dismaland, non solo nell’anonimato di posti dai nomi fantastici che di bello non hanno nulla, ma anche e soprattutto negli espedienti che Halley ogni giorno rimedia per portarsi a casa la pagnotta, pagare il condominio in cui vive con Moonee, e cercare di non farsela portare via dagli assistenti sociali.
Impossibilitati ad avere legami stabili, i poveri non si possono permettere nemmeno di accumulare beni materiali. Cosa gli rimane allora? Sognare. La loro bussola morale vacilla, mentono, rubano e non si pentono. Ma neanche il loro goniometro cognitivo è dei più saldi: che siano fuochi d’artificio o edifici in fiamme, poco importa: per loro, tutto è uno spettacolo che vale la pena guardare. Eppure, spettatori della loro tragedia, noi non riusciamo a non sorridere con dolcezza, dolce scherno, perché questi esseri singolari chiedono di leggere tra le righe, comprendere il loro silenzio, cogliere la loro umanità nascosta. Più o meno corrotti che siano, i poveri disgraziati di Baker rimangono delle anime umane troppo umane. Come il Mikey di Red Rocket (2021), un attore di film hard che ha abbandonato la moglie per il sogno di Hollywood e adesso, a mente lucida, deve tornare in Texas e fare i conti col passato. Anche lui, come tutti loro, cammina tanto, prende gli autobus, rimedia passaggi in macchina. Chiede ospitalità alla donna che ha lasciato anni fa. “I mendicanti non possono scegliere!” urla Lexi a Mikey, che senza residenza né esperienza, può solo che mettersi a fare il corriere della droga.
Questa sorta di predestinazione la dice lunga sul rapporto che il pubblico intrattiene con i personaggi. Mikey, come gli altri antieroi, finisce per impelagarsi in grossi guai: manda un amico in prigione e fa affari con la gente sbagliata, fino a rimanere letteralmente senza mutande. La stessa nudità, simbolo di disperazione, nel cinema di Baker è anche dispositivo di catarsi. Perché è proprio nei momenti più vulnerabili che questi personaggi ritrovano una dignità che commuove. Come quando Ming Ding si spoglia nel bagno del locale e si guarda i lividi da martellate, Halley vomita dopo aver preso a botte la sua dirimpettaia, Jane porta i fiori a tombe che non sono le sue, o Lucky e Levon scoppiano a ridere dopo che la polizia ha sequestrato il negozio per attività illecita: queste persone sono vittime della propria sfiga sì, ma così tremendamente umane. La dolcezza è virtù e i fallimenti sono esperienze. L’emozione che suscitano nel pubblico è la loro stessa delusione di fronte le sventure: è insieme lo sconforto di una vita non desiderata e una forma di delusione che condividono insieme a noi.
È la condivisione finale, soprattutto delle parabole peggiori, che premia il pubblico e vendica i suoi protagonisti. La resa è l’espiazione di una vita difficile da condurre, impossibile da cambiare. Il martirio ordinario delle vittime di Baker, segnato dai dettagli sulle azioni ricorsive e corrosive - contare soldi, camminare, riscaldare cibi precotti, comprare robaccia al supermercato - diventa il calvario tipico di una moderna demografia dell’abiezione. È un supplizio così ostinato e gratuito che crea compassione, ma non cattolica, bensì collettivista: soffriamo insieme a loro, non soffriamo per loro. C’è sempre del tragico dietro l’effetto clownesco di questi sventurati, i loro corpi abusati, gli errori di giudizio che commettono e i disastri in cui precipitano ciecamente. Non hanno strumenti di discernimento, né critici né materiali. In cerca di un miglioramento, finiscono col peggiorare la loro condizione. E di chi è la colpa?
Il mostro cattivo, il vero antagonista, nelle epopee di Baker, è la realtà: ora il futuro incerto, ora l’apparato burocratico, ora lo stato di democrazia più in generale. I suoi antieroi non indugiano nell’anoressia del passato, indulgono solo in un presente bulimico. Questo informa non solo la povertà materiale e l’insipienza spirituale, ma anche il loro desiderio di effimero, la loro ricerca di piaceri superficiali, l’amore per le cibarie processate e i prodotti di consumo del capitalismo. Vivono alla giornata, per dirla con Pasolini. Ma non sono ragazzi di vita, sono più marmocchi di una post-vita. Anime semplici, americane e infantili, che scelgono di vivere nel limbo perché in fondo sanno che, se provassero a uscirne, finirebbero ancora più giù di quanto già non sono. E Baker raccoglie - attraverso questi ritratti eccezionali di persone fuori dal comune, allontanate dalla società e costrette a un purgatorio di immondizia post-industriale che le nutre di cibo spazzatura e le avvelena con l’intrattenimento più trash -, la virtù più comune da cui veniamo e a cui torniamo sempre, a scanso di qualsiasi differenza sessuale, etnica, sociale, o economica: la capacità di empatizzare.
Anora ha tutto ciò che Baker ha esplorato nelle sue opere precedenti: c’è lo scontro tra classi - come quella lavorativa da cui viene Ani e la vecchia intellighenzia russa di Ivan -, c’è la promessa di un sogno - qui la proposta di matrimonio -, c’è l’illusione del parco divertimenti - sono le luci e i colori di Las Vegas - c’è tutto il confronto generazionale e lo scontro linguistico - i giovani americani urlano iperbolici mentre i sovietici ortodossi non sanno leggere tra le righe - e c’è, infine, quella forma di frustrazione che cala quando ci svegliamo e ci accorgiamo che nulla di ciò che abbiamo sognato è vero. Presente è anche la freschezza dei dialoghi che riflettono un linguaggio attuale, una dialettica che risuona di continuo in un pubblico attento, lo delizia con risate a denti stretti e lo sorprende con piccoli colpi di scena. Ma, quello che manca nell’ultimo Baker, è quella pietas che accomuna tutti i campioni della natura umana precedentemente raccolti. L’assenza non è nel filtro o nell’ipostasi: è un vuoto registrato proprio dal copione. L’epica in tre atti di una sex worker a New York, parte col botto, promette esplosioni fenomenali, ma si consuma come una candela al vento.
In comune con i personaggi di Baker, Ani possiede consapevolezza di sé ed empatia verso gli altri: nelle disposizioni contrattuali, dentro e fuori servizio, è sincera con se stessa e onesta con amici e clienti; non è la più furba tra i presenti, ma nondimeno è dotata di sagacia, ha la battuta sempre pronta e, nel profondo, è un animo romantico. Baker, come già ha raccontato a Cannes e in altre interviste, desiderava esplorare le dinamiche di forza su livelli diversi, e su questo non ci sono dubbi: il sogno di una sex worker americana di sposare la fortuna viene a coincidere con il bisogno di green card di un giovane rampollo russo che non ne vuole sapere di tornare in madrepatria. Lo sposalizio però non s’è da fare: l’accordo siglato a Las Vegas, dopo una notte di festeggiamenti, è in realtà una questione molto seria per i genitori di lui. L’incanto della favola è così rotto dal suo brusco risveglio, e la fuga del neo sposino costringe la ragazza al confronto con la propria identità.
È colpa della puttana, è colpa del rabbino, ma mai del ragazzino, protetto dai soldi della potente famiglia che, dall’altra parte dell’Atlantico, invia scagnozzi e ordina l’annullamento imminente del matrimonio. Baker dipinge bene i legami di potere e racconta il lavoro alle dipendenze altrui in modo originale: il confronto tra la frivolezza dell’eloquio americano e la gravità dell’episteme russa apre anche a uno scontro tra l’élite neo-aristocratica dei russi americanizzati e la semplice grettezza del loro controcanto gopnik. La speditezza dei dialoghi, la precisione della dizione e la semplicità della battuta deliziano i palati europei che forse, per la prima volta con Anora, riescono a ricevere per intero il multilinguismo americano nelle sue caricature idiolettiche. Il difetto della pellicola non è infatti nei tecnicismi, pressoché perfetti: Anora manca del rispecchiamento con l’eroina della favola, perché l’eroina è una semplice ragazza che è stata sedotta e abbandonata. Non è una prostituta transgender sotto il governo di Bush, né un immigrato clandestino negli Usa dopo l’11 settembre. Più che una anti-Cenerentola, Ani è una Suor Giovanna della Croce.
L’ingrediente vincente, nelle opere di Baker, è la comprensione: desiderio di condivisione e al contempo forza di una solitudine che prende le distanze dalla gratuità di un mondo egoista, saturo, opulento, abitato da disonesti. E tutte le sue favole senza lieto fine - e le anti-Cenerentole che assistono impotenti alla loro dolce sconfitta - se mandano in frantumi le promesse di gloria iniziali, escono vittoriose per il senso di solidarietà che riflettono, una compassione così umana da far male. Tutti escono sconfitti, ma è la comprensione a premiarli, e così Ming Ding trova aiuto nell’amico, Lucky accetta la sua paternità inaspettata, Jane e Sadie partono per Parigi, Cin-Dee e Alexandra si riappacificano sulle note di “Mystic Merry Toyland”, e Jancey porta finalmente Moonee a Disney World. Ma non in Anora: non c’è agnizione finale perché la comprensione è posta in secondo piano; sia Ani che il suo regista danno per scontato che il pubblico empatizzerà con lei, condividerà il suo dolore, senza spiegarne le ragioni, senza approfondirne i motivi.
L’identificazione non è permessa perché la delusione, che tanto brucia all’eroina, non è così estrema per il suo pubblico: questo dovuto al fatto che, contrariamente ai personaggi descritti in passato, Ani non è una povera disgraziata. Ani il suo lavoro l’ha scelto. Certo, viene dalla classe operaia, non è nata con la camicia, sua madre si è trasferita con il compagno in Florida, però non vive nei bassifondi. Abita, insieme alla sorella, in una casetta a Brighton Beach, che non è l’Upper East Side ma nemmeno il Bronx, e indossa degli abiti puliti. Non ha problemi di tossicodipendenza e nemmeno di denaro, forse solo qualche problema di autostima. Ani sceglie di lavorare come stripper in locali e di prostituirsi, occasionalmente. Ani non è un’anima complessa cresciuta in tempi difficili, ma una ragazza comune che sceglie di praticare un mestiere come tanti. È lei che sceglie di sposare Ivan ed è lei che sceglie di credere nella menzogna, anche quando, già all’inizio del secondo atto, appare chiaro che il suo sogno è destinato a rimanere tale.
Il punto più debole di Anora è la superficialità di un personaggio difficile da comprendere (e la sua frustrazione che si trascina per gli ultimi due atti della pellicola), ma forse sarà proprio il vanto di Baker per la stagione dei premi: questo “osare ma non troppo” è un mix perfetto per i vecchi liberal e i giovani reazionari di Hollywood. Ma i veri appassionati del cinema di Baker - dopo aver viaggiato per l’America, testimoniato delle realtà più difficili e conosciuto gli esseri più meravigliosi - rimarranno delusi dalla narrazione più o meno ordinaria di una vita normale. Ani è una bad girl, mastica chewing-gum, svapa e mena come una bestia; il suo delirio d’amore con Ivan è un gioco sexy e divertente, ma la fiaba non regala nulla che non sia già stato romanticizzato su TikTok e, tolti strass, paillettes e brillantini, un personaggio che ha poco da perdere (ma quel poco se lo tiene stretto) infastidisce e basta. Il finale pure, invece di nutrire fiducia o schernire con dolcezza, chiude in tono canzonatorio la paternale di un uomo che, ormai adulto, ha perso il contatto con quel sentimento che tanto lo contraddistingueva. Con Anora, magari Baker un Oscar lo vince, tanto ce l’ha fatta. La sua Ani, no.
L'estasi e la caduta
nel cinema di Sean Baker,
di Pavel Belli Micati
TR-111
16.11.2024
Sean Baker ce l’ha fatta. Si è guadagnato un posto nell’Olimpo. Fresca di vittoria della Palma d’Oro a Cannes 2024, la sua ultima opera Anora, da poco presentata alla Festa del Cinema di Roma, sta per concludere il tour mondiale dei festival, mentre in Europa è in corso di distribuzione e l’Italia è uno dei tanti spilli puntati sulla mappa. Il film, che nasce dal desiderio del regista di esplorare la vita di una sex worker nella New York contemporanea, continua a raccogliere ovazioni, plausi e candidature, e si appresta ad affrontare la stagione dei premi: dopo Cannes, sarà la consacrazione con l’Oscar la ciliegina sulla torta? Ci sono delle analogie tra Palma d’Oro e Oscar, le ultime vittorie di The Zone of Interest (La zona d’interesse, 2024), Anatomy of a Fall (Anatomia di una caduta, 2023) e Parasite (2019) sembrano segni premonitori. È anche vero che, nello stesso palmarès, figurano titoli che non hanno riscosso altrettanto successo tra i membri dell’Academy, come Triangle of Sadness (2022) - quell’anno scavalcato dall’epica multiversale Everything Everywhere All At Once - e Titane (2021), scelto per rappresentare la Francia a Los Angeles ma poi escluso dalla cinquina finale.
Anora ha comunque tutte le carte in regola per trionfare: una ragazza e il suo sogno, la scalata sociale, l’estasi e la caduta a picco. Si aggiungono poi la sagacia dei dialoghi, marchio di Baker, la precisione tecnica finalmente conquistata grazie a budget più alti e, ovviamente, la bellezza della resa estetica. È tutto ciò verso cui il regista ha lavorato: il duro lavoro e il divertimento effimero si fondono qui in una spassosa giostra variopinta, un carillon dai ritmi seducenti e i suoni esaltanti, un carosello massimalista dove il regista newyorkese esplora le sue fantasie adolescenziali, prima autorizzate da lunghe notti di divertimento, e poi vagliate alla luce post-sbronza del mattino seguente. Inoltre, manca tutto ciò l’Academy reputa problematico: non ci sono armi, nudi integrali, cannibalismo né si parla di aborto o di assistenza sociosanitaria. Anora è l’asso nella manica di Baker, ha convinto i salotti della cinefilia europea e compiace un pubblico variegato di statunitensi benpensanti. Proprio perché è, al contempo, la sua opera più raffinata e la sua favola meno profonda.
Definiti anti-Cenerentole, i personaggi di Baker ne condividono i sogni di un avvenire migliore, ma al contrario della fortunata principessa, il destino riserva loro brutte e soprattutto inaspettate sorprese. “Pare che pioverà tutto il giorno” dice Young a Ming Ding, il giovane protagonista di Take Out (2004), realizzato in collaborazione con Shih-Ching Tsou - che produrrà anche i successivi lavori di Baker e comparirà anche in qualche ruolo da guest. Ciò che è immondizia per uno, diventa il tesoro di un altro, ed è così che in una giornata di pioggia a New York, i clienti di un take-away di Chinatown ordinano a domicilio e Ming Ding può raccogliere un sacco di mance e saldare i debiti di gioco contratti con Mr. Jiang. “Più pioggia, più consegne!”: ecco l’immigrato illegale che non spiccica una parola d’inglese e si prepara a una corsa contro il tempo in bicicletta per liberarsi degli scagnozzi che gli stanno alle calcagna. Non si capisce mai dov’è che gira la fortuna, nelle avventure di Baker. Di certo, non dalla parte dei suoi protagonisti.
Delle vere e proprie anti-fiabe, nessuna delle storie di Baker si conclude con un lieto fine; eppure, i suoi personaggi sventurati hanno un modo tutto loro di vivere il fallimento e di immaginare il successo che, frammento dopo frammento, silenzio dopo parola, conquista il pubblico. Sono personaggi che vivono ai margini della società, sex-workers o immigrati irregolari che campano di rimedi, alla meglio, con soluzioni via via peggiori. Come Lucky ad esempio, il protagonista di Prince of Broadway (2008). Anche lui clandestino, ma di origini ghanesi: fa l’acchiappino per Levon, il proprietario di un negozio che vende capi d’abbigliamento contraffatti. Si contano i soldi, si litiga con i matti per strada, si prende la metro, o semplicemente si cammina con le proprie gambe: gli antieroi di Baker non guidano, ma pure se avessero la patente, non avrebbero soldi a sufficienza per comprare un’auto, e in America non avere la macchina è come non avere un’identità.
Altra cifra imprescindibile di Baker, sono le diarie dei suoi sventurati scandite dai piccoli gesti: dettagli su azioni ricorsive che da una parte evidenziano la ripetitività del duro lavoro contemporaneo e dall’altra invitano a una maggiore identificazione con il loro quotidiano. Si cammina, si aspetta, si compra roba da poco conto, si truffa e si viene truffati. I soldi vanno contati, gli ordini spediti e i pacchi consegnati. Come un aggiornamento contemporaneo del neorealismo italiano, entriamo in sintonia con i loro corpi, i movimenti registrati dalla camera entrano in focus fino a confondersi con i nostri, anzi diventano nostri. Camminiamo insieme a Cin-Dee, pedaliamo con Ming Ding, compriamo noi il gelato a Moonee e le ciambelle a Mikey. E anche se non siamo clandestini nel nostro paese, anche se non ci prostituiamo per pagare il sordido albergo a ore in cui dormiamo o non spacciamo droga per conto di gente pericolosa, entriamo in contatto con l’esperienza dei personaggi nella loro ricezione empirica.
Altra cifra distintiva di Baker è la freschezza dei dialoghi, la loro aderenza al reale. Non importa quanto assurdo sia lo scenario, le parole che escono dalla bocca dei suoi personaggi sono, oltre che esilaranti, sempre azzeccate. Il lungometraggio d’esordio, Four Letter Words (2000) ne è l’esempio: il racconto della psicologia post-adolescenziale ci porta fuori da New York e dentro le conversazioni di giovani maschi che, in pausa festiva dal college, tornano alla loro realtà suburbana e si riconnettono ad una festa. Si beve, si chiacchiera, non succede nulla di eclatante: ma solo perché i protagonisti sono persone normali, non vanno in giro a cercarsi rogne. Parlano di sesso, porno, come conquistare le ragazze, i corsi da frequentare, le opportunità da cogliere, ma affrontano anche temi esistenziali tipici di quell’età: l’amore vero esiste? I condizionamenti sociali sono reali? Nasciamo in un modo irreversibile o possiamo realmente cambiare? In una spedizione per recuperare dell’erba, Baker mette in bocca a Rich, l’unico ebreo alla festa, il sunto della sua poetica: “È tipo come quando cresci i figli con qualcosa, quando diventano grandi non solo ci si abituano, ma finiscono pure per apprezzarla”.
Non c’è divina provvidenza, solo maledizioni predestinate – insegnano le massime di queste favole, e quelli che appaiono come miracoli, si rivelano sempre abbagli pericolosi. Come il caso di Jane, la protagonista di Starlet (2012): Baker qui si sposta in California, dove una giovane pornoattrice da poco entrata nel giro fa la scoperta di una piccola fortuna. La ragazza trova una mazzetta di diecimila dollari nascosta dentro un thermos che compra da un’anziana di nome Sadie ad una svendita nel giardino della sua casa. Il ricco bottino dà subito alla giovane una discreta serenità, poi comincia a riempirla di sensi di colpa nei confronti dell’inconsapevole signora. Così decide di diventarci amica. Questo duo inusuale è messo ripetutamente alla prova, prima dalla diffidenza di Sadie, poi dall’invidia che cresce attorno a Jane, gelosia che si accompagna al desiderio e rischio di rivelare la verità nascosta dietro il suo interesse: l’opportunismo della ragazza, comunque, finisce per impallidire rispetto al dolce regalo del finale. La dolcezza è una virtù, e tutti i personaggi del cinema di Baker sembrano confermarlo.
Però non è una cosa scontata, perché molto spesso la loro bontà gli si ritorce contro. Per questo non si possono permettere legami profondi o relazioni serie con l’umanità che incontrano nelle loro sventure. Un po’ come le migliori amiche protagoniste di Tangerine (2015) che prima si amano e poi si odiano e poi si amano di nuovo. Nel suo secondo lungometraggio ambientato a Los Angeles, Baker segue i l’odissea di Sin-Dee, una prostituta reduce da un soggiorno in prigione che torna nel suo giro e scopre che il fidanzato-protettore, Chester, ha trovato un’altra preferita. “Non fare drammi”, dice Alexandra all’amica, conscia di come le sue parole siano vane. E infatti nessun dramma, solo tragedie: furiosa di conoscere la fantomatica donna, con la quale Chester avrebbe addirittura intenzioni serie, gelosia, invidia e frustrazione muovono la pazza maratona di una ragazza che non ha nulla da perdere, si fa tutta la città a piedi alla ricerca del suo uomo e di spiegazioni, anche a costo di compromettere la reputazione di Razmik, un tassista di origini armene che, di nascosto dalla famiglia, frequenta i marciapiedi che le due amiche battono.
Il cinema di Baker esplora anche gli scontri identitari e le costrizioni sociali, ma sempre in qualità di fenomeni conclusi, non come processi generativi e mai in vista di una critica sociale: ne sono un esempio i giovani protagonisti di The Florida Project (Un sogno chiamato Florida, 2017) - dove il regista si trasferisce alle porte di Disneyworld - che si divertono con poco, dicono un sacco di parolacce e non chiedono mai scusa. Sono dei monelli e basta, non c’è da compatirli. Come la giovane madre Halley, Moonee che ha solo sei anni, non ha paura del giudizio altrui e ha sempre la risposta pronta; più che cercare qualcosa di buono per sé, combina piccole malefatte ai danni degli altri. Come una ragazzina di vita, passa le afose giornate estive esplorando l’edilizia circostante in stato di abbandono, non-luoghi sur-moderni che costeggiano l’ultima tappa del cinema-sogno di Baker: il parco divertimenti. Quello raccontato da The Florida Project è piuttosto una Dismaland, non solo nell’anonimato di posti dai nomi fantastici che di bello non hanno nulla, ma anche e soprattutto negli espedienti che Halley ogni giorno rimedia per portarsi a casa la pagnotta, pagare il condominio in cui vive con Moonee, e cercare di non farsela portare via dagli assistenti sociali.
Impossibilitati ad avere legami stabili, i poveri non si possono permettere nemmeno di accumulare beni materiali. Cosa gli rimane allora? Sognare. La loro bussola morale vacilla, mentono, rubano e non si pentono. Ma neanche il loro goniometro cognitivo è dei più saldi: che siano fuochi d’artificio o edifici in fiamme, poco importa: per loro, tutto è uno spettacolo che vale la pena guardare. Eppure, spettatori della loro tragedia, noi non riusciamo a non sorridere con dolcezza, dolce scherno, perché questi esseri singolari chiedono di leggere tra le righe, comprendere il loro silenzio, cogliere la loro umanità nascosta. Più o meno corrotti che siano, i poveri disgraziati di Baker rimangono delle anime umane troppo umane. Come il Mikey di Red Rocket (2021), un attore di film hard che ha abbandonato la moglie per il sogno di Hollywood e adesso, a mente lucida, deve tornare in Texas e fare i conti col passato. Anche lui, come tutti loro, cammina tanto, prende gli autobus, rimedia passaggi in macchina. Chiede ospitalità alla donna che ha lasciato anni fa. “I mendicanti non possono scegliere!” urla Lexi a Mikey, che senza residenza né esperienza, può solo che mettersi a fare il corriere della droga.
Questa sorta di predestinazione la dice lunga sul rapporto che il pubblico intrattiene con i personaggi. Mikey, come gli altri antieroi, finisce per impelagarsi in grossi guai: manda un amico in prigione e fa affari con la gente sbagliata, fino a rimanere letteralmente senza mutande. La stessa nudità, simbolo di disperazione, nel cinema di Baker è anche dispositivo di catarsi. Perché è proprio nei momenti più vulnerabili che questi personaggi ritrovano una dignità che commuove. Come quando Ming Ding si spoglia nel bagno del locale e si guarda i lividi da martellate, Halley vomita dopo aver preso a botte la sua dirimpettaia, Jane porta i fiori a tombe che non sono le sue, o Lucky e Levon scoppiano a ridere dopo che la polizia ha sequestrato il negozio per attività illecita: queste persone sono vittime della propria sfiga sì, ma così tremendamente umane. La dolcezza è virtù e i fallimenti sono esperienze. L’emozione che suscitano nel pubblico è la loro stessa delusione di fronte le sventure: è insieme lo sconforto di una vita non desiderata e una forma di delusione che condividono insieme a noi.
È la condivisione finale, soprattutto delle parabole peggiori, che premia il pubblico e vendica i suoi protagonisti. La resa è l’espiazione di una vita difficile da condurre, impossibile da cambiare. Il martirio ordinario delle vittime di Baker, segnato dai dettagli sulle azioni ricorsive e corrosive - contare soldi, camminare, riscaldare cibi precotti, comprare robaccia al supermercato - diventa il calvario tipico di una moderna demografia dell’abiezione. È un supplizio così ostinato e gratuito che crea compassione, ma non cattolica, bensì collettivista: soffriamo insieme a loro, non soffriamo per loro. C’è sempre del tragico dietro l’effetto clownesco di questi sventurati, i loro corpi abusati, gli errori di giudizio che commettono e i disastri in cui precipitano ciecamente. Non hanno strumenti di discernimento, né critici né materiali. In cerca di un miglioramento, finiscono col peggiorare la loro condizione. E di chi è la colpa?
Il mostro cattivo, il vero antagonista, nelle epopee di Baker, è la realtà: ora il futuro incerto, ora l’apparato burocratico, ora lo stato di democrazia più in generale. I suoi antieroi non indugiano nell’anoressia del passato, indulgono solo in un presente bulimico. Questo informa non solo la povertà materiale e l’insipienza spirituale, ma anche il loro desiderio di effimero, la loro ricerca di piaceri superficiali, l’amore per le cibarie processate e i prodotti di consumo del capitalismo. Vivono alla giornata, per dirla con Pasolini. Ma non sono ragazzi di vita, sono più marmocchi di una post-vita. Anime semplici, americane e infantili, che scelgono di vivere nel limbo perché in fondo sanno che, se provassero a uscirne, finirebbero ancora più giù di quanto già non sono. E Baker raccoglie - attraverso questi ritratti eccezionali di persone fuori dal comune, allontanate dalla società e costrette a un purgatorio di immondizia post-industriale che le nutre di cibo spazzatura e le avvelena con l’intrattenimento più trash -, la virtù più comune da cui veniamo e a cui torniamo sempre, a scanso di qualsiasi differenza sessuale, etnica, sociale, o economica: la capacità di empatizzare.
Anora ha tutto ciò che Baker ha esplorato nelle sue opere precedenti: c’è lo scontro tra classi - come quella lavorativa da cui viene Ani e la vecchia intellighenzia russa di Ivan -, c’è la promessa di un sogno - qui la proposta di matrimonio -, c’è l’illusione del parco divertimenti - sono le luci e i colori di Las Vegas - c’è tutto il confronto generazionale e lo scontro linguistico - i giovani americani urlano iperbolici mentre i sovietici ortodossi non sanno leggere tra le righe - e c’è, infine, quella forma di frustrazione che cala quando ci svegliamo e ci accorgiamo che nulla di ciò che abbiamo sognato è vero. Presente è anche la freschezza dei dialoghi che riflettono un linguaggio attuale, una dialettica che risuona di continuo in un pubblico attento, lo delizia con risate a denti stretti e lo sorprende con piccoli colpi di scena. Ma, quello che manca nell’ultimo Baker, è quella pietas che accomuna tutti i campioni della natura umana precedentemente raccolti. L’assenza non è nel filtro o nell’ipostasi: è un vuoto registrato proprio dal copione. L’epica in tre atti di una sex worker a New York, parte col botto, promette esplosioni fenomenali, ma si consuma come una candela al vento.
In comune con i personaggi di Baker, Ani possiede consapevolezza di sé ed empatia verso gli altri: nelle disposizioni contrattuali, dentro e fuori servizio, è sincera con se stessa e onesta con amici e clienti; non è la più furba tra i presenti, ma nondimeno è dotata di sagacia, ha la battuta sempre pronta e, nel profondo, è un animo romantico. Baker, come già ha raccontato a Cannes e in altre interviste, desiderava esplorare le dinamiche di forza su livelli diversi, e su questo non ci sono dubbi: il sogno di una sex worker americana di sposare la fortuna viene a coincidere con il bisogno di green card di un giovane rampollo russo che non ne vuole sapere di tornare in madrepatria. Lo sposalizio però non s’è da fare: l’accordo siglato a Las Vegas, dopo una notte di festeggiamenti, è in realtà una questione molto seria per i genitori di lui. L’incanto della favola è così rotto dal suo brusco risveglio, e la fuga del neo sposino costringe la ragazza al confronto con la propria identità.
È colpa della puttana, è colpa del rabbino, ma mai del ragazzino, protetto dai soldi della potente famiglia che, dall’altra parte dell’Atlantico, invia scagnozzi e ordina l’annullamento imminente del matrimonio. Baker dipinge bene i legami di potere e racconta il lavoro alle dipendenze altrui in modo originale: il confronto tra la frivolezza dell’eloquio americano e la gravità dell’episteme russa apre anche a uno scontro tra l’élite neo-aristocratica dei russi americanizzati e la semplice grettezza del loro controcanto gopnik. La speditezza dei dialoghi, la precisione della dizione e la semplicità della battuta deliziano i palati europei che forse, per la prima volta con Anora, riescono a ricevere per intero il multilinguismo americano nelle sue caricature idiolettiche. Il difetto della pellicola non è infatti nei tecnicismi, pressoché perfetti: Anora manca del rispecchiamento con l’eroina della favola, perché l’eroina è una semplice ragazza che è stata sedotta e abbandonata. Non è una prostituta transgender sotto il governo di Bush, né un immigrato clandestino negli Usa dopo l’11 settembre. Più che una anti-Cenerentola, Ani è una Suor Giovanna della Croce.
L’ingrediente vincente, nelle opere di Baker, è la comprensione: desiderio di condivisione e al contempo forza di una solitudine che prende le distanze dalla gratuità di un mondo egoista, saturo, opulento, abitato da disonesti. E tutte le sue favole senza lieto fine - e le anti-Cenerentole che assistono impotenti alla loro dolce sconfitta - se mandano in frantumi le promesse di gloria iniziali, escono vittoriose per il senso di solidarietà che riflettono, una compassione così umana da far male. Tutti escono sconfitti, ma è la comprensione a premiarli, e così Ming Ding trova aiuto nell’amico, Lucky accetta la sua paternità inaspettata, Jane e Sadie partono per Parigi, Cin-Dee e Alexandra si riappacificano sulle note di “Mystic Merry Toyland”, e Jancey porta finalmente Moonee a Disney World. Ma non in Anora: non c’è agnizione finale perché la comprensione è posta in secondo piano; sia Ani che il suo regista danno per scontato che il pubblico empatizzerà con lei, condividerà il suo dolore, senza spiegarne le ragioni, senza approfondirne i motivi.
L’identificazione non è permessa perché la delusione, che tanto brucia all’eroina, non è così estrema per il suo pubblico: questo dovuto al fatto che, contrariamente ai personaggi descritti in passato, Ani non è una povera disgraziata. Ani il suo lavoro l’ha scelto. Certo, viene dalla classe operaia, non è nata con la camicia, sua madre si è trasferita con il compagno in Florida, però non vive nei bassifondi. Abita, insieme alla sorella, in una casetta a Brighton Beach, che non è l’Upper East Side ma nemmeno il Bronx, e indossa degli abiti puliti. Non ha problemi di tossicodipendenza e nemmeno di denaro, forse solo qualche problema di autostima. Ani sceglie di lavorare come stripper in locali e di prostituirsi, occasionalmente. Ani non è un’anima complessa cresciuta in tempi difficili, ma una ragazza comune che sceglie di praticare un mestiere come tanti. È lei che sceglie di sposare Ivan ed è lei che sceglie di credere nella menzogna, anche quando, già all’inizio del secondo atto, appare chiaro che il suo sogno è destinato a rimanere tale.
Il punto più debole di Anora è la superficialità di un personaggio difficile da comprendere (e la sua frustrazione che si trascina per gli ultimi due atti della pellicola), ma forse sarà proprio il vanto di Baker per la stagione dei premi: questo “osare ma non troppo” è un mix perfetto per i vecchi liberal e i giovani reazionari di Hollywood. Ma i veri appassionati del cinema di Baker - dopo aver viaggiato per l’America, testimoniato delle realtà più difficili e conosciuto gli esseri più meravigliosi - rimarranno delusi dalla narrazione più o meno ordinaria di una vita normale. Ani è una bad girl, mastica chewing-gum, svapa e mena come una bestia; il suo delirio d’amore con Ivan è un gioco sexy e divertente, ma la fiaba non regala nulla che non sia già stato romanticizzato su TikTok e, tolti strass, paillettes e brillantini, un personaggio che ha poco da perdere (ma quel poco se lo tiene stretto) infastidisce e basta. Il finale pure, invece di nutrire fiducia o schernire con dolcezza, chiude in tono canzonatorio la paternale di un uomo che, ormai adulto, ha perso il contatto con quel sentimento che tanto lo contraddistingueva. Con Anora, magari Baker un Oscar lo vince, tanto ce l’ha fatta. La sua Ani, no.