INT-55
06.02.2024
Quando si traccia la geneologia del cinema rumeno contemporaneo, non si può evitare di citare Cristi Puiu, il primo cineasta rumeno degli anni duemila a raggiungere la notorietà internazionale, aggiudicandosi prima l’Orso d’Oro al miglior cortometraggio per Cigarettes and Coffee (Un cartuş de Kent și un pachet de cafea, 2004), e poi ottenendo il premio al miglior film in Un Certain Regard a Cannes con La morte del signor Lazarescu (Moartea domnului Lăzărescu, 2005). Il suo film di debutto, del 1999, Stuff and Dough (Marfa si Banii), è spesso considerato il punto di partenza di quello che certi critici definiscono il “nuovo cinema rumeno” (con la disapprovazione dei cineasti stessi), che ha poi incluso tra le sue file figure come Cristian Mungiu, Corneliu Porumboiu, e per certi versi Radu Jude.
Puiu ha però proseguito il proprio percorso artistico allontanandosi dalle prime pellicole, di impronta iperrealista e di derivazione cassavettes-dardenniana, per proseguire con opere dalle spiccate caratteristiche etico-filosofiche, prima con Aurora (2010) e Sieranevada (2016) - che comunque mantengono l’estetica che aveva Lazarescu - e poi con Malmkrog (2020), film che mette in scena densi dialoghi filosofico-religiosi tra un gruppo di aristocratici in una villa della Transilvania di fine Ottocento - lavoro premiato a Berlino con l’Orso d’argento alla regia. La sua ultima fatica, MMXX (2023), è stata presentata in anteprima mondiale al festival di San Sebastian. Il lungometraggio presenta quattro storie, divise tra capitoli fortemente dialogici, più vicini a Malmkrog, e altri più dinamici, reminiscenti delle sue opere precedenti.
In occasione del Trieste Film Festival, svoltosi dal 19 al 27 gennaio, abbiamo intervistato Cristi Puiu - che partecipa a questo evento da un decennio e dove ha accompagnato l’anteprima nazionale di MMXX - che ci ha parlato della sua carriera e del suo modo di intendere il cinema e la regia.
Ormai sono passati più di vent’anni da quando ha girato il suo debutto, Marfa si Banii (Stuff and Dough). Oggi, spesso, il film viene considerato il punto di inizio del "nuovo cinema rumeno", lei cosa ne pensa, ragionandoci con la prospettiva di adesso?
Quando parlo di quel periodo, ripenso ad un’esperienza molto sofferta. Sapevo poco su come si realizza un film, ma avevo l’età giusta per girare un lungometraggio, penso. Era nel 1999, avevo 32 anni. Tutto è arrivato un po’ più tardi nella mia vita: avevo studiato in Romania, in un college che doveva durare quattro anni, ma ho finito per essere espulso dopo sette, avevo raddoppiato gli anni di studio. Sono cresciuto con i libri, mia madre ne leggeva molti. Dedicarmi ai libri era uno dei motivi che mi ha portato a raddoppiare i tempi del college, non era per via di una ribellione personale, semplicemente stavo sempre a casa a leggere. Ho iniziato a studiare cinema un po’ più tardi perché prima mi occupavo di arti figurative e pittura. Sono passato al cinema nel ’93, ed ho finito gli studi nel ’96 a Ginevra. Tornato a casa mi sono acclimatato nel mio paese attraverso questa posizione di cineasta - non saprei se è la parola giusta, ero qualcosa tra un pittore ed un cineasta al tempo. Avevo fatto alcuni lavori nel mondo della pubblicità, non era andata bene. Un mio amico mi invitò a lavorare su dei documentari per un programma televisivo, e per un po’ mi sono dedicato a quello. Per un periodo mi sono occupato di un progetto che aveva perso il suo regista, riguardava dei movimenti musicali che in Romania venivano considerati underground, ma che in occidente non lo erano, tipo l’Hip Hop, eccetera. Ed è così che ho incontrato molte persone, e mi è sembrato di poter gestire la produzione di un lungometraggio. Non sapevo come fare, beh non ero conscio di molte cose. Ed ancora oggi non sono consapevole riguardo a molti aspetti tecnici del cinema, li tengo ad una certa distanza. Sono un analfabeta tecnologico, non capisco questi strumenti. Cerco di fare qualsiasi cosa possa preservare la mia autonomia. Mi sento un po’ un outsider, appartenente al XIX secolo. Continuo a leggere, a seguire una tradizione per quanto posso. Questo per dire che all’epoca di Marfa si Banii non ero per nulla pronto, è semplicemente accaduto. Era un momento molto particolare in Romania perché molte aziende statali erano passate ad un sistema privatizzato, quindi per esempio l’azienda produttrice del film aveva reindirizzato metà dei fondi statali che avevamo ottenuto per il film verso il processo di privatizzazione, il che rendeva le cose ancora più difficili. Avevamo molte restrizioni, dovevamo limitarci per esempio a tre take per ogni scena. Non hanno acquistato pellicola da un solo provider, ma ci hanno fornito dei pezzi di scarto rimasti da altre riprese, per cui abbiamo usato formati di pellicola diversi come Fuji, Kodak, ecc.. Fu una sfida per il direttore della fotografia mettere insieme tutti quei pezzi di pellicola.
Con Marfa si Banii spesso si indica il punto di inizio di scelte estetiche che lei ha poi attuato nei suoi film successivi.
Quando mi confronto con i miei direttori della fotografia, metto in chiaro che il loro lavoro si deve limitare all’illuminotecnica, mentre la macchina da presa appartiene a me. Adesso e per sempre, la macchina da presa è l’occhio del regista, colloco io la MDP, ne scelgo la posizione ed i movimenti. Voglio comunque che il direttore della fotografia segua attentamente la lavorazione del film. E quando si tratta di inquadrare gli attori, gli dico di entrare in risonanza con loro. Se mi chiede, “come faccio a capirlo?”, rispondo “non lo so”. Come potrei? È un paragone che uso, bisogna entrare in risonanza con il soggetto, con gli esseri umani che si trovano di fronte alla camera. Non parlo di attori, l’“attore” non esiste, è solo un ruolo. In quella posizione, ti trovi di fronte ad un essere umano con la propria storia e le proprie sofferenze, sensazioni e gioie che lo descrivono. Sai di essere in risonanza con la persona quando i vostri battiti sono sincronizzati, è qualcosa che non puoi controllare, o capire, ma di cui sei consapevole. Quando succede qualcosa a due esseri umani, lo senti. E senti di dover essere sincero con te stesso e con gli altri, se anche loro sono pronti a carpire questi dettagli. Mi interessa molto più questa risonanza che la collocazione della macchina da presa. Se non facessi attenzione a questo non mi interesserebbe il cinema. Il cinema è osservare: osservi attraverso le lenti della macchina da presa, fino allo sguardo del personaggio di fronte a te. Non si tratta solo degli occhi, la loro forma o il colore, ma di quello che accade dentro lo sguardo, ed è qualcosa di misterioso. Ed è questa la storia dell’essere umano che riempie il personaggio. Non penso che il personaggio esista. In ogni caso, quando riprendi, cosa riprendi? Perché? Il senso del cinema, il significato, il suo obiettivo è di catturare quello che è indefinito o è impossibile da definire, l’ineffabile, e l’ineffabile fiorirà laddove negli occhi dell’essere umano emerge la propria storia. Potrebbe sembrare barocco, spiegato in questo modo.
Considerando in quest’ottica molte delle sue opere, però, c’è da affermare che lei, al contempo, mantiene una distanza fisica dagli attori, per esempio ne La morte del Signor Lazarescu sono pochi i primi piani. Come concilia tutto questo con le sue idee riguardo allo sguardo?
Perché, appena mi avvicino, gli attori mentono. Mentono a loro stessi. Bisogna trovare una giusta distanza. Di solito sul set penso sempre di trovarla, ma è difficile. Mentre giri non ti rendi conto di commettere determinati errori, poichè hai una prospettiva del film che stai realizzando completamente diversa rispetto a quando lo visioni sul grande schermo, da spettatore. Considero Cassavetes il mio maestro, anche se non l’ho mai incontrato. Spesso vedo il cinema attraverso il suo sguardo e mi chiedo, cosa penserebbe Cassavetes di quello che sto facendo? Ora l’ho un po’ lasciato alle spalle, in termini di qualità mi sono spostato su una posizione diversa. In ogni caso, gli esseri umani tendono a difendersi. Quando le persone vengono al casting, professionisti o non, e leggono le pagine del copione che fornisco, iniziano a recitare. Non si concedono il tempo di incuriosirsi su quello che hanno davanti e di leggerlo, ma vogliono immediatamente inscenarlo. Dico a loro di leggere tranquillamente il testo in modo da “scoprirlo” insieme. Se fanno errori, va bene. Tutti sbagliano, specialmente la prima volta che leggono un testo. Però loro non si permettono di fare degli errori perché pensano che sia un problema farne durante la lettura. E io mi ritrovo a dire di non recitare, e loro mi chiedono “intendi dire, devo essere come nella vita reale?” ed io rispondo “no, perché nella realtà si mente.” Tutti mentono nella vita, o meglio, recitano. Indossiamo maschere diverse con i nostri genitori, insegnanti, amici…è la questione centrale di Uno Nessuno Centomila di Pirandello. È un libro che faccio leggere spesso agli attori, l’avevo letto mentre studiavo pittura e mi ha segnato. In ogni caso, la tendenza è di credere che nella realtà sei sincero a te stesso, che è falso. Sul palcoscenico, sul set sei protetto dal personaggio, perché quando gli spettatori vanno al cinema o a teatro sono consapevoli che è una finzione. Per questo penso che essere un attore è grandioso perché, protetto dal personaggio, un attore può narrare una storia e, allo stesso tempo, raccontare come è esistere realmente. Nella vita reale devi essere protetto dall’amore altrui in modo da liberarti dalle barriere e poterti confrontare con gli altri, ma questo è difficile.
Lei ritiene quindi che il cinema è reale?
Si, il cinema è reale.
Forse anche più reale della realtà?
Non sono in grado di misurarlo, ma sì, è reale. Per esempio, noi abbiamo due bicchieri di acqua qui vicino. Se io cambio la tua acqua in vodka, che è inodore, e tu la bevi pensando che sia acqua, sarai scioccato dal sapore. Quindi, è una questione di definizioni. Ci ritroviamo sempre a doverci presentare come persone in completa armonia con noi stessi, ma essere sinceri con se stessi significa presentarci così come siamo veramente, il che è una sfida per chiunque. L’invito di Socrate, “conosci te stesso”, non esisterebbe in questa forma, altrimenti. Era una sfida fatta ad Ercole, un semidio, non a comuni esseri umani come noi. È un’impresa. Cosa significa conoscere se stessi? Da dove si inizia? È un processo che comincia ad un certo punto della vita? È una questione complicata ma è anche la missione più importante per ognuno di noi su questo pianeta. Credo che la maggior parte dei nostri problemi derivi dall’imbroglio, dal tradire la verità. E questo è un problema vecchio come il mondo. Quindi, vedi la vodka e la percepisci come se fosse acqua. Vedi il film così come è presentato, o meglio come lo presenta l’autore. È un imbroglio, certo. Se un film viene presentato come un documentario e si alterano dei fatti al fine della narrazione, diventa uno strumento, forse politico o di propaganda. Questo succede spesso, anche senza una dittatura, perché la nostra società non permette una discussione aperta su tutto. Per me non ci sono documentari e film di finzione. Per me esiste una distinzione tra autori che sono attratti da ciò che avviene dentro la mente, e questi sono i documentaristi, e autori che si interessano a ciò che avviene fuori, e questi sono coloro che fanno film di finzione.
In Aurora, lei stesso si è messo in gioco come attore. Com’è stato passare all’altro lato della cinepresa?
È stato difficile, molto, molto, molto, molto difficile. Era una questione di tempistiche, perché dovevo dirigere, rivedere i takes, quindi si raddoppiava il tempo. La disciplina non è una qualità rumena e così, dato che quando ero dietro la cinepresa ero concentrato sul ciò che vedevo, e quando ero di fronte, era come se non ci fossi, la mia troupe ne lucrava. Quando il gatto non c’è, i topi ballano, quando sei un regista, la struttura è forte, il regista parla agli attori e al direttore della fotografia, il direttore della fotografia ai suoi sottoposti, ecc. Nelle riprese di Aurora mancava questa struttura, la troupe si sentiva libera, e fare le prove con una troupe rumorosa era difficile. Per me lo era ancora di più perché non ho mai studiato recitazione. La cosa che mi risultava più difficile era focalizzarmi sul cosa dovevo fare. Ai miei attori dicevo di non commettere errori, perché se ne commettevano tornavo a diventare il regista. Il problema era che se mentre recitavamo qualcuno pronunciava la battuta differentemente da come la volevo, mi deconcentravo, e il miracolo scompariva.
In seguito, con Sierranevada ed ancora di più con Malmkrog, sembra che abbia scelto una via diversa rispetto ad Aurora o La Morte del Signor Lazarescu. Come ha percepito, da cineasta, questo cambiamento?
Riguardo a Malmkrog ed agli altri film che ho fatto, la tendenza comune era l’intenzione di catturare non tanto la vita reale - uno potrebbe percepirlo così, visto che uso lunghe inquadrature e piani sequenza che sembrano voler documentare la realtà - ma l’ineffabile. In verità ho avuto bisogno delle inquadrature lunghe e dei piani sequenza affinché l’ineffabile si sprigionasse. È difficile trovare la formula giusta, non è che mi sveglio e decido che oggi catturerò l’ineffabile. Però io uso i piani sequenza per lasciarlo apparire. Si continua a fare i take, ma ad un certo punto accade qualcosa di inaspettato, che sia anche solo il respiro di un personaggio. L’attrice di Olga, ad un certo punto in Malmkrog, ha avuto dei problemi di salute, non me ne aveva parlato, ed all’improvviso ha iniziato a respirare affannosamente in una scena. Per me era straniante perché lei e il personaggio di Nikolaj erano nel mezzo di un diaologo molto serio, ma al contempo lei aveva questo respiro che non era erotico, ma molto corporale, fisico, che non aveva nulla a che fare con la conversazione. Questo tipo di eventi ti spingono a pensare e a mettere in discussione quello che sai della storia. Nelle riprese accadono cose che io tendo a considerare come doni. Sono valori aggiunti. Mentre fai le riprese del film, è la vita stessa che si svolge davanti a te, non solo le riprese. Se riesci ad arrivare al punto di lasciare che la vita entri nell’inquadratura, ti trovi in paradiso perché raggiungi una specie di sapore misterioso, indefinito. Penso al cinema come ad un’arte che ha a che fare con il mistero, ma il mistero resta tale anche all’autore, perché altrimenti non sarebbe un mistero, sarebbe solamente magia. Ma devi lasciarti sorprendere da quel che succede e per questo hai bisogno di take lunghi perché con take brevi non riesci a rilassarti ed immergerti in quei dieci minuti di dialogo, o di dirigere l’attore verso qualcosa che resta sconosciuto anche a te stesso.
Passiamo al suo film più recente, MMXX. Cosa vuole suggerire il titolo in numeri romani? L’importanza storica dell’anno del COVID?
Puoi trovare numeri così sui monumenti, o sui vecchi film degli anni quaranta. Secondo me rappresenta un punto di svolta, il 2020. La storia del COVID verrà raccontata un giorno. Questo film è come quando realizzi un lungometraggio ambientato durante la seconda guerra mondiale, hai la guerra sullo sfondo e magari una storia d’amore al centro del film. Così accade, per esempio, in Guerra e Pace di Tolstoj: mentre al centro c’è la storia di vari personaggi, sullo sfondo c’è Napoleone che entra a Mosca, eccetera. Faccio un film e la Storia non può restarne fuori, non posso estrapolare la mia storia da quella del pianeta, o del cosmo. Ed il cosmo stesso fa i suoi interventi, per esempio all’inizio del film, nel dialogo tra la psicoterapeuta e la sua paziente, si vede la luce del sole che entra sempre di meno nella stanza. Io non ho dato indicazioni di regia al sole. Si sarebbe potuto fare artificialmente con delle luci potenti, ma io non l’ho fatto. Mi ricordo che c’era un film di Eric Rohmer in cui ad un certo punto, durante un’intervista in campagna, si vede il sole andare tra le nuvole, scomparire e poi sbucare di nuovo. Se mi chiedi della trama del film, non so rispondere, ma quel particolare del sole che viene nascosto dalle nuvole è qualcosa che è rimasto con me. Il regista si trova sul set a fare quello che può, di solito con i miei studenti uso l’esempio del pescatore: per pescare devi essere pronto e fare tutto ciò che puoi, però devi essere anche consapevole che potresti tornare a mani vuote, pur facendo del tuo meglio. Quando invece qualcosa avviene, cos’è? È un dono che viene da un luogo misterioso che non possiamo definire. Un dono, l’ineffabile che compare e non per causa tua. Mi è successo una volta con un attore di imbatterci in un momento simile nella sua performance, gli ho detto che il take era buono, e lui ha insistito che sarebbe riuscito a rifarlo, che aveva capito cosa volevo che facesse. Io gli ho risposto che no, non aveva capito, e gli ho fatto fare un altro take per dimostrarlo. E nel take quel qualcosa non c’era, e nemmeno nel take successivo. Gli ho spiegato che non si tratta di lui, e nemmeno di me, quando qualcosa avviene, accade e basta. Per noi umani è importante prendere in considerazione i limiti di ciò che possiamo ottenere. I doni sono delle offerte che provengono da qualche altro luogo, chiaramente non arrivano se non ti dai da fare. Devi svegliarti al mattino, parlare agli attori, preparare la sceneggiatura, modificarla, essere attento a tutto. Al contempo, però, devi essere consapevole che le cose migliori del tuo film non saranno state collocate li da te, e che sei solo un idiota. Io dico spesso di essere il primo spettatore del mio film, vedere gli attori, essere lì, per me è gioia pura. Quel momento in MMXX è come un pezzo di storia del pianeta, no? Il sole coperto dalle nuvole. In questo senso è documentaristico. Bresson in Appunti sul cinematografo scrive che i film sono documentari su come l’attore costruisce il suo personaggio, e da questo punto di vista è vero, è una prova dell’investimento del suo talento.
Sa già quale sarà il suo prossimo progetto?
Spero di riuscire a farlo, forse non ci riuscirò mai perché è un progetto difficile. È un film d’epoca. Il 1940 era un anno buio per la Romania, che entrò in guerra nel 1941. La Francia, alleata storica, era ormai condannata. L’estrema destra e la Guardia di Ferro stavano prendendo il potere, il re aveva abbandonato il trono nel Settembre di quell’anno. Si è passati quindi dalla dittatura del re, Carlo, a quella del Maresciallo Antonescu. A Novembre c’è stato un terremoto che ha distrutto gran parte della capitale, il che è stato considerato da alcuni come un segno del cielo. Era il 10 Novembre, ed il 27 Novembre la Guardia di Ferro ha assassinato in massa i suoi oppositori. La storia che voglio raccontare inizia durante la festa di Sant’Andrea, il 30 Novembre, e si conclude il 6 Dicembre, con la festa di San Nicola. Si baserà su moltissimi brani letterari, di Chekov, di Lermontov, e sui testi di un autore e politico rumeno dell’epoca.
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06.02.2024
Quando si traccia la geneologia del cinema rumeno contemporaneo, non si può evitare di citare Cristi Puiu, il primo cineasta rumeno degli anni duemila a raggiungere la notorietà internazionale, aggiudicandosi prima l’Orso d’Oro al miglior cortometraggio per Cigarettes and Coffee (Un cartuş de Kent și un pachet de cafea, 2004), e poi ottenendo il premio al miglior film in Un Certain Regard a Cannes con La morte del signor Lazarescu (Moartea domnului Lăzărescu, 2005). Il suo film di debutto, del 1999, Stuff and Dough (Marfa si Banii), è spesso considerato il punto di partenza di quello che certi critici definiscono il “nuovo cinema rumeno” (con la disapprovazione dei cineasti stessi), che ha poi incluso tra le sue file figure come Cristian Mungiu, Corneliu Porumboiu, e per certi versi Radu Jude.
Puiu ha però proseguito il proprio percorso artistico allontanandosi dalle prime pellicole, di impronta iperrealista e di derivazione cassavettes-dardenniana, per proseguire con opere dalle spiccate caratteristiche etico-filosofiche, prima con Aurora (2010) e Sieranevada (2016) - che comunque mantengono l’estetica che aveva Lazarescu - e poi con Malmkrog (2020), film che mette in scena densi dialoghi filosofico-religiosi tra un gruppo di aristocratici in una villa della Transilvania di fine Ottocento - lavoro premiato a Berlino con l’Orso d’argento alla regia. La sua ultima fatica, MMXX (2023), è stata presentata in anteprima mondiale al festival di San Sebastian. Il lungometraggio presenta quattro storie, divise tra capitoli fortemente dialogici, più vicini a Malmkrog, e altri più dinamici, reminiscenti delle sue opere precedenti.
In occasione del Trieste Film Festival, svoltosi dal 19 al 27 gennaio, abbiamo intervistato Cristi Puiu - che partecipa a questo evento da un decennio e dove ha accompagnato l’anteprima nazionale di MMXX - che ci ha parlato della sua carriera e del suo modo di intendere il cinema e la regia.
Ormai sono passati più di vent’anni da quando ha girato il suo debutto, Marfa si Banii (Stuff and Dough). Oggi, spesso, il film viene considerato il punto di inizio del "nuovo cinema rumeno", lei cosa ne pensa, ragionandoci con la prospettiva di adesso?
Quando parlo di quel periodo, ripenso ad un’esperienza molto sofferta. Sapevo poco su come si realizza un film, ma avevo l’età giusta per girare un lungometraggio, penso. Era nel 1999, avevo 32 anni. Tutto è arrivato un po’ più tardi nella mia vita: avevo studiato in Romania, in un college che doveva durare quattro anni, ma ho finito per essere espulso dopo sette, avevo raddoppiato gli anni di studio. Sono cresciuto con i libri, mia madre ne leggeva molti. Dedicarmi ai libri era uno dei motivi che mi ha portato a raddoppiare i tempi del college, non era per via di una ribellione personale, semplicemente stavo sempre a casa a leggere. Ho iniziato a studiare cinema un po’ più tardi perché prima mi occupavo di arti figurative e pittura. Sono passato al cinema nel ’93, ed ho finito gli studi nel ’96 a Ginevra. Tornato a casa mi sono acclimatato nel mio paese attraverso questa posizione di cineasta - non saprei se è la parola giusta, ero qualcosa tra un pittore ed un cineasta al tempo. Avevo fatto alcuni lavori nel mondo della pubblicità, non era andata bene. Un mio amico mi invitò a lavorare su dei documentari per un programma televisivo, e per un po’ mi sono dedicato a quello. Per un periodo mi sono occupato di un progetto che aveva perso il suo regista, riguardava dei movimenti musicali che in Romania venivano considerati underground, ma che in occidente non lo erano, tipo l’Hip Hop, eccetera. Ed è così che ho incontrato molte persone, e mi è sembrato di poter gestire la produzione di un lungometraggio. Non sapevo come fare, beh non ero conscio di molte cose. Ed ancora oggi non sono consapevole riguardo a molti aspetti tecnici del cinema, li tengo ad una certa distanza. Sono un analfabeta tecnologico, non capisco questi strumenti. Cerco di fare qualsiasi cosa possa preservare la mia autonomia. Mi sento un po’ un outsider, appartenente al XIX secolo. Continuo a leggere, a seguire una tradizione per quanto posso. Questo per dire che all’epoca di Marfa si Banii non ero per nulla pronto, è semplicemente accaduto. Era un momento molto particolare in Romania perché molte aziende statali erano passate ad un sistema privatizzato, quindi per esempio l’azienda produttrice del film aveva reindirizzato metà dei fondi statali che avevamo ottenuto per il film verso il processo di privatizzazione, il che rendeva le cose ancora più difficili. Avevamo molte restrizioni, dovevamo limitarci per esempio a tre take per ogni scena. Non hanno acquistato pellicola da un solo provider, ma ci hanno fornito dei pezzi di scarto rimasti da altre riprese, per cui abbiamo usato formati di pellicola diversi come Fuji, Kodak, ecc.. Fu una sfida per il direttore della fotografia mettere insieme tutti quei pezzi di pellicola.
Con Marfa si Banii spesso si indica il punto di inizio di scelte estetiche che lei ha poi attuato nei suoi film successivi.
Quando mi confronto con i miei direttori della fotografia, metto in chiaro che il loro lavoro si deve limitare all’illuminotecnica, mentre la macchina da presa appartiene a me. Adesso e per sempre, la macchina da presa è l’occhio del regista, colloco io la MDP, ne scelgo la posizione ed i movimenti. Voglio comunque che il direttore della fotografia segua attentamente la lavorazione del film. E quando si tratta di inquadrare gli attori, gli dico di entrare in risonanza con loro. Se mi chiede, “come faccio a capirlo?”, rispondo “non lo so”. Come potrei? È un paragone che uso, bisogna entrare in risonanza con il soggetto, con gli esseri umani che si trovano di fronte alla camera. Non parlo di attori, l’“attore” non esiste, è solo un ruolo. In quella posizione, ti trovi di fronte ad un essere umano con la propria storia e le proprie sofferenze, sensazioni e gioie che lo descrivono. Sai di essere in risonanza con la persona quando i vostri battiti sono sincronizzati, è qualcosa che non puoi controllare, o capire, ma di cui sei consapevole. Quando succede qualcosa a due esseri umani, lo senti. E senti di dover essere sincero con te stesso e con gli altri, se anche loro sono pronti a carpire questi dettagli. Mi interessa molto più questa risonanza che la collocazione della macchina da presa. Se non facessi attenzione a questo non mi interesserebbe il cinema. Il cinema è osservare: osservi attraverso le lenti della macchina da presa, fino allo sguardo del personaggio di fronte a te. Non si tratta solo degli occhi, la loro forma o il colore, ma di quello che accade dentro lo sguardo, ed è qualcosa di misterioso. Ed è questa la storia dell’essere umano che riempie il personaggio. Non penso che il personaggio esista. In ogni caso, quando riprendi, cosa riprendi? Perché? Il senso del cinema, il significato, il suo obiettivo è di catturare quello che è indefinito o è impossibile da definire, l’ineffabile, e l’ineffabile fiorirà laddove negli occhi dell’essere umano emerge la propria storia. Potrebbe sembrare barocco, spiegato in questo modo.
Considerando in quest’ottica molte delle sue opere, però, c’è da affermare che lei, al contempo, mantiene una distanza fisica dagli attori, per esempio ne La morte del Signor Lazarescu sono pochi i primi piani. Come concilia tutto questo con le sue idee riguardo allo sguardo?
Perché, appena mi avvicino, gli attori mentono. Mentono a loro stessi. Bisogna trovare una giusta distanza. Di solito sul set penso sempre di trovarla, ma è difficile. Mentre giri non ti rendi conto di commettere determinati errori, poichè hai una prospettiva del film che stai realizzando completamente diversa rispetto a quando lo visioni sul grande schermo, da spettatore. Considero Cassavetes il mio maestro, anche se non l’ho mai incontrato. Spesso vedo il cinema attraverso il suo sguardo e mi chiedo, cosa penserebbe Cassavetes di quello che sto facendo? Ora l’ho un po’ lasciato alle spalle, in termini di qualità mi sono spostato su una posizione diversa. In ogni caso, gli esseri umani tendono a difendersi. Quando le persone vengono al casting, professionisti o non, e leggono le pagine del copione che fornisco, iniziano a recitare. Non si concedono il tempo di incuriosirsi su quello che hanno davanti e di leggerlo, ma vogliono immediatamente inscenarlo. Dico a loro di leggere tranquillamente il testo in modo da “scoprirlo” insieme. Se fanno errori, va bene. Tutti sbagliano, specialmente la prima volta che leggono un testo. Però loro non si permettono di fare degli errori perché pensano che sia un problema farne durante la lettura. E io mi ritrovo a dire di non recitare, e loro mi chiedono “intendi dire, devo essere come nella vita reale?” ed io rispondo “no, perché nella realtà si mente.” Tutti mentono nella vita, o meglio, recitano. Indossiamo maschere diverse con i nostri genitori, insegnanti, amici…è la questione centrale di Uno Nessuno Centomila di Pirandello. È un libro che faccio leggere spesso agli attori, l’avevo letto mentre studiavo pittura e mi ha segnato. In ogni caso, la tendenza è di credere che nella realtà sei sincero a te stesso, che è falso. Sul palcoscenico, sul set sei protetto dal personaggio, perché quando gli spettatori vanno al cinema o a teatro sono consapevoli che è una finzione. Per questo penso che essere un attore è grandioso perché, protetto dal personaggio, un attore può narrare una storia e, allo stesso tempo, raccontare come è esistere realmente. Nella vita reale devi essere protetto dall’amore altrui in modo da liberarti dalle barriere e poterti confrontare con gli altri, ma questo è difficile.
Lei ritiene quindi che il cinema è reale?
Si, il cinema è reale.
Forse anche più reale della realtà?
Non sono in grado di misurarlo, ma sì, è reale. Per esempio, noi abbiamo due bicchieri di acqua qui vicino. Se io cambio la tua acqua in vodka, che è inodore, e tu la bevi pensando che sia acqua, sarai scioccato dal sapore. Quindi, è una questione di definizioni. Ci ritroviamo sempre a doverci presentare come persone in completa armonia con noi stessi, ma essere sinceri con se stessi significa presentarci così come siamo veramente, il che è una sfida per chiunque. L’invito di Socrate, “conosci te stesso”, non esisterebbe in questa forma, altrimenti. Era una sfida fatta ad Ercole, un semidio, non a comuni esseri umani come noi. È un’impresa. Cosa significa conoscere se stessi? Da dove si inizia? È un processo che comincia ad un certo punto della vita? È una questione complicata ma è anche la missione più importante per ognuno di noi su questo pianeta. Credo che la maggior parte dei nostri problemi derivi dall’imbroglio, dal tradire la verità. E questo è un problema vecchio come il mondo. Quindi, vedi la vodka e la percepisci come se fosse acqua. Vedi il film così come è presentato, o meglio come lo presenta l’autore. È un imbroglio, certo. Se un film viene presentato come un documentario e si alterano dei fatti al fine della narrazione, diventa uno strumento, forse politico o di propaganda. Questo succede spesso, anche senza una dittatura, perché la nostra società non permette una discussione aperta su tutto. Per me non ci sono documentari e film di finzione. Per me esiste una distinzione tra autori che sono attratti da ciò che avviene dentro la mente, e questi sono i documentaristi, e autori che si interessano a ciò che avviene fuori, e questi sono coloro che fanno film di finzione.
In Aurora, lei stesso si è messo in gioco come attore. Com’è stato passare all’altro lato della cinepresa?
È stato difficile, molto, molto, molto, molto difficile. Era una questione di tempistiche, perché dovevo dirigere, rivedere i takes, quindi si raddoppiava il tempo. La disciplina non è una qualità rumena e così, dato che quando ero dietro la cinepresa ero concentrato sul ciò che vedevo, e quando ero di fronte, era come se non ci fossi, la mia troupe ne lucrava. Quando il gatto non c’è, i topi ballano, quando sei un regista, la struttura è forte, il regista parla agli attori e al direttore della fotografia, il direttore della fotografia ai suoi sottoposti, ecc. Nelle riprese di Aurora mancava questa struttura, la troupe si sentiva libera, e fare le prove con una troupe rumorosa era difficile. Per me lo era ancora di più perché non ho mai studiato recitazione. La cosa che mi risultava più difficile era focalizzarmi sul cosa dovevo fare. Ai miei attori dicevo di non commettere errori, perché se ne commettevano tornavo a diventare il regista. Il problema era che se mentre recitavamo qualcuno pronunciava la battuta differentemente da come la volevo, mi deconcentravo, e il miracolo scompariva.
In seguito, con Sierranevada ed ancora di più con Malmkrog, sembra che abbia scelto una via diversa rispetto ad Aurora o La Morte del Signor Lazarescu. Come ha percepito, da cineasta, questo cambiamento?
Riguardo a Malmkrog ed agli altri film che ho fatto, la tendenza comune era l’intenzione di catturare non tanto la vita reale - uno potrebbe percepirlo così, visto che uso lunghe inquadrature e piani sequenza che sembrano voler documentare la realtà - ma l’ineffabile. In verità ho avuto bisogno delle inquadrature lunghe e dei piani sequenza affinché l’ineffabile si sprigionasse. È difficile trovare la formula giusta, non è che mi sveglio e decido che oggi catturerò l’ineffabile. Però io uso i piani sequenza per lasciarlo apparire. Si continua a fare i take, ma ad un certo punto accade qualcosa di inaspettato, che sia anche solo il respiro di un personaggio. L’attrice di Olga, ad un certo punto in Malmkrog, ha avuto dei problemi di salute, non me ne aveva parlato, ed all’improvviso ha iniziato a respirare affannosamente in una scena. Per me era straniante perché lei e il personaggio di Nikolaj erano nel mezzo di un diaologo molto serio, ma al contempo lei aveva questo respiro che non era erotico, ma molto corporale, fisico, che non aveva nulla a che fare con la conversazione. Questo tipo di eventi ti spingono a pensare e a mettere in discussione quello che sai della storia. Nelle riprese accadono cose che io tendo a considerare come doni. Sono valori aggiunti. Mentre fai le riprese del film, è la vita stessa che si svolge davanti a te, non solo le riprese. Se riesci ad arrivare al punto di lasciare che la vita entri nell’inquadratura, ti trovi in paradiso perché raggiungi una specie di sapore misterioso, indefinito. Penso al cinema come ad un’arte che ha a che fare con il mistero, ma il mistero resta tale anche all’autore, perché altrimenti non sarebbe un mistero, sarebbe solamente magia. Ma devi lasciarti sorprendere da quel che succede e per questo hai bisogno di take lunghi perché con take brevi non riesci a rilassarti ed immergerti in quei dieci minuti di dialogo, o di dirigere l’attore verso qualcosa che resta sconosciuto anche a te stesso.
Passiamo al suo film più recente, MMXX. Cosa vuole suggerire il titolo in numeri romani? L’importanza storica dell’anno del COVID?
Puoi trovare numeri così sui monumenti, o sui vecchi film degli anni quaranta. Secondo me rappresenta un punto di svolta, il 2020. La storia del COVID verrà raccontata un giorno. Questo film è come quando realizzi un lungometraggio ambientato durante la seconda guerra mondiale, hai la guerra sullo sfondo e magari una storia d’amore al centro del film. Così accade, per esempio, in Guerra e Pace di Tolstoj: mentre al centro c’è la storia di vari personaggi, sullo sfondo c’è Napoleone che entra a Mosca, eccetera. Faccio un film e la Storia non può restarne fuori, non posso estrapolare la mia storia da quella del pianeta, o del cosmo. Ed il cosmo stesso fa i suoi interventi, per esempio all’inizio del film, nel dialogo tra la psicoterapeuta e la sua paziente, si vede la luce del sole che entra sempre di meno nella stanza. Io non ho dato indicazioni di regia al sole. Si sarebbe potuto fare artificialmente con delle luci potenti, ma io non l’ho fatto. Mi ricordo che c’era un film di Eric Rohmer in cui ad un certo punto, durante un’intervista in campagna, si vede il sole andare tra le nuvole, scomparire e poi sbucare di nuovo. Se mi chiedi della trama del film, non so rispondere, ma quel particolare del sole che viene nascosto dalle nuvole è qualcosa che è rimasto con me. Il regista si trova sul set a fare quello che può, di solito con i miei studenti uso l’esempio del pescatore: per pescare devi essere pronto e fare tutto ciò che puoi, però devi essere anche consapevole che potresti tornare a mani vuote, pur facendo del tuo meglio. Quando invece qualcosa avviene, cos’è? È un dono che viene da un luogo misterioso che non possiamo definire. Un dono, l’ineffabile che compare e non per causa tua. Mi è successo una volta con un attore di imbatterci in un momento simile nella sua performance, gli ho detto che il take era buono, e lui ha insistito che sarebbe riuscito a rifarlo, che aveva capito cosa volevo che facesse. Io gli ho risposto che no, non aveva capito, e gli ho fatto fare un altro take per dimostrarlo. E nel take quel qualcosa non c’era, e nemmeno nel take successivo. Gli ho spiegato che non si tratta di lui, e nemmeno di me, quando qualcosa avviene, accade e basta. Per noi umani è importante prendere in considerazione i limiti di ciò che possiamo ottenere. I doni sono delle offerte che provengono da qualche altro luogo, chiaramente non arrivano se non ti dai da fare. Devi svegliarti al mattino, parlare agli attori, preparare la sceneggiatura, modificarla, essere attento a tutto. Al contempo, però, devi essere consapevole che le cose migliori del tuo film non saranno state collocate li da te, e che sei solo un idiota. Io dico spesso di essere il primo spettatore del mio film, vedere gli attori, essere lì, per me è gioia pura. Quel momento in MMXX è come un pezzo di storia del pianeta, no? Il sole coperto dalle nuvole. In questo senso è documentaristico. Bresson in Appunti sul cinematografo scrive che i film sono documentari su come l’attore costruisce il suo personaggio, e da questo punto di vista è vero, è una prova dell’investimento del suo talento.
Sa già quale sarà il suo prossimo progetto?
Spero di riuscire a farlo, forse non ci riuscirò mai perché è un progetto difficile. È un film d’epoca. Il 1940 era un anno buio per la Romania, che entrò in guerra nel 1941. La Francia, alleata storica, era ormai condannata. L’estrema destra e la Guardia di Ferro stavano prendendo il potere, il re aveva abbandonato il trono nel Settembre di quell’anno. Si è passati quindi dalla dittatura del re, Carlo, a quella del Maresciallo Antonescu. A Novembre c’è stato un terremoto che ha distrutto gran parte della capitale, il che è stato considerato da alcuni come un segno del cielo. Era il 10 Novembre, ed il 27 Novembre la Guardia di Ferro ha assassinato in massa i suoi oppositori. La storia che voglio raccontare inizia durante la festa di Sant’Andrea, il 30 Novembre, e si conclude il 6 Dicembre, con la festa di San Nicola. Si baserà su moltissimi brani letterari, di Chekov, di Lermontov, e sui testi di un autore e politico rumeno dell’epoca.