di Omar Franini
NC-210
28.05.2024
Lo scorso sabato si è conclusa la 77ª edizione del Festival di Cannes, e dopo avervi raccontato dei film che abbiamo visionato sulla Croisette è giunto il momento di trarre le conclusioni su quella che è stata una discreta edizione, seppur sottotono rispetto alla precedente. La qualità dei film in Competizione e nelle altre sezioni non ha raggiunto infatti il livello della 76ª edizione, ma ci sono state pur sempre delle piacevoli sorprese che ci hanno conquistato per la loro audacia ed originalità, un commento che non ci è venuto spontaneo fare l’anno scorso, se non per qualche caso isolato come The Zone of Interest di Jonathan Glazer, La Chimera di Alice Rohrwacher o Los Delincuentes di Rodrigo Moreno. Se prendiamo in considerazione solo la sezione principale, si potrà notare la notevole varietà tra le opere presentate, dal saggio cinematografico di Jia Zhangke che analizza i cambiamenti della società cinese, allo scioccante body horror di Coralie Fargeat, fino a passare al “musical non musical” di Gilles Lellouche, al film antologico di Yorgos Lanthimos e infine a Bird di Andrea Arnold, che segna un cambio di direzione rispetto alle opere precedenti della cineasta britannica. Anche se alcuni di questi film non ci hanno soddisfatto del tutto, abbiamo comunque apprezzato l’ambizione dietro a questa “eccentrica” selezione.
“Hold on, hold on. Today this could be the greatest day of our lives”, i primi versi della versione remixata da Robin Schulz del brano dei Take That, saranno probabilmente risuonati nella testa di Sean Baker quando ha sentito pronunciare il suo nome come vincitore della Palma d’Oro. Un trionfo che non ci ha per niente sorpreso, infatti, l’ottavo lungometraggio del cineasta indipendente è stato tra i film più acclamati del festival e, alla vigilia della cerimonia, la sua presenza nel palmares era ormai data per certa, bisognava solo capire per quale premio e se Baker sarebbe riuscito a fare il colpo grosso dopo che, nel 2021, Red Rocket era stato ingiustamente snobbato alla serata dei premi. Una volta sul palco per ritirare la Palma, Baker ha innanzitutto ringraziato tre donne fondamentali nella sua carriera che hanno contribuito alla buona riuscita del film, ovvero la madre, la moglie e l’attrice protagonista Mickey Madison.
Il cineasta ha colto anche l’occasione per rimarcare uno degli aspetti fondamentali del suo cinema e dei suoi protagonisti, cioè la normalizzazione del sex work, mestiere che è sempre stato visto in maniera controversa dalla società moderna. Infine ha anche riaffermato l’importanza dell’esperienza cinematografica all’interno della sala, lanciando di fatto una frecciatina alle varie piattaforme streaming che stanno sempre più prendendo il sopravvento nei festival. La vittoria di Sean Baker ha inoltre continuato una buffa tradizione, infatti quattro degli ultimi cinque vincitori della Palma (Parasite, Anatomia di una caduta, Triangle of Sadness e lo stesso Anora), hanno avuto la loro première il 21 maggio…quindi, per l’anno prossimo, basterà vedere quale film sarà proiettato in tale giorno per iniziare a predire la sua vittoria.
A vincere il Gran Prix è stata invece Payal Kapadia, cineasta Indiana la cui opera seconda era una di quelle che attendevamo di più al festival. La regista aveva infatti mostrato già un grande talento nei suoi cortometraggi e in A Night of Knowing Nothing, il suo lungometraggio di debutto presentato nella Quinzaine des réalisateurs nel 2021. Già il selezionamento in Competizione aveva rappresentato un grande traguardo per l’intero team del film - infatti erano passati ben trent’anni dall’ultima volta che un’opera indiana era entrata in corsa per la Palma - ma la conseguente vittoria ha marcato un altro importante risultato: la terza vittoria da parte di un lungometraggio indiano al festival di Cannes, dopo il Premio della Giuria assegnato a Mrinal Sen nel 1983 per Kharij e il Gran Premio (condiviso con altri dieci film) a Chetan Anand per Neecha Nagar nella prima edizione del Festival nel 1946. Come nel caso di Anora, All We Imagine As Light è stato uno dei film più acclamati del festival e il suo trionfo non ha stupito più di tanto.
La vittoria che ci ha sorpreso e allo stesso tempo soddisfatto di più è stata quella per la miglior regia a Miguel Gomes per Grand Tour. La natura ambiziosa e sperimentale dell’opera, che fa immerge lo spettatore nel “viaggio” dei due protagonisti, ci ha conquistato sin da subito, ma avevamo il timore che una giuria composta per la maggior parte da attori non sarebbe stata in grado di apprezzare l’operazione compiuta dal regista portoghese. Probabilmente la presenza di Hirokazu Kore’eda ha giocato un ruolo fondamentale nel verdetto, visto che l'autore giapponese ha ammesso già in passato di essere un grande estimatore della filmografia di Gomes e, più nello specifico, del suo Tabù (2012). Durante il discorso di ringraziamento, il cineasta ha citato i nomi di due grandi maestri del cinema portoghese, Manoel de Oliveira e João César Monteiro, e a parlato di come, molto spesso, il cinema della propria nazione sia stato snobbato dal festival di Cannes, ricordando che erano passati ben diciotto anni dall’ultima volta che un lungometraggio - Juventude em Marcia (2006) di Pedro Costa nel 2006 - era stato selezionato nella Competizione.
Dopo queste tre sensazionali scelte da parte della giuria, è arrivato il momento di parlare delle note dolenti che riguardano la serata dei premi, in primis il trattamento riservato a Mohammad Rasoulof. Dopo essere stato condannato a otto anni di prigione dalle autorità iraniane, il regista ha deciso di fuggire dal proprio Paese trovando asilo in Europa, e solo qualche giorno prima della presentazione di The Seed of the Sacred Fig, la sua ultima fatica, era stata comunicata la sua presenza a Cannes. Sin dall’annuncio del film nella selezione erano iniziati i vari discorsi su una possibile vittoria della Palma d’Oro, ma il cineasta si è dovuto accontentare di un “Premio speciale”. La presidentessa Greta Gerwig, durante la conferenza stampa post premiazioni, ha spiegato come questo riconoscimento non sia stato soltanto assegnato per onorare il film, ma anche per denunciare il contesto politico ed extra cinematografico con il quale Rasoulof si è trovato a combattere. Non vogliamo criticare troppo aspramente la scelta della giuria, ma riteniamo che abbiano dato un “contentino” al cineasta iraniano solo per la sua tragica storia e non per la reale qualità del film, a mani basse uno dei migliori del festival. Crediamo sia davvero importante dare risalto alle vicissitudini di Rasoulof a livello mediatico, e questo riconoscimento dall’aspetto “forzato” ci ha lasciato l’amaro in bocca, un premio della Giuria sarebbe stato più corretto, ma a quanto pare sono state preferite altre opere, tra cui Emilia Perez di Jacques Audiard.
Come avevamo già scritto, il nuovo lungometraggio del cineasta francese è un musical avvincente e crediamo che la sua natura da crowd pleaser lo renderà un grande successo al botteghino, soprattutto in Italia quando raggiungerà le nostre sale grazie a Lucky Red. Il Premio della Giuria non ci ha quindi soddisfatto, ma ancora più frustrante è stato il riconoscimento assegnato all’ensemble femminile del film. “Separare queste interpretazioni avrebbe rovinato la magia che queste attrici creano insieme”, sono state queste le dichiarazioni della giuria durante la conferenza stampa, parole che ci hanno deluso e che crediamo leggermente insensate. Per spiegarci meglio, sono state premiate quattro attrici; Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana, le due vere protagoniste di Emilia Perez, Selena Gomez, che interpreta un personaggio secondario, e infine Adriana Paz, la cui presenza nel film non supera la decina di minuti. Queste due ultime interpretazioni non possono essere considerate memorabili o così degne di nota, e, anche se abbiamo apprezzato la performance canora e carismatica di Saldana, non riteniamo la sua prova meritevole del premio.
Discorso opposto per Karla Sofía Gascón, la cui interpretazione è letteralmente il punto di forza di Emilia Perez, che impressiona per il modo in cui si è districata nei “due” ruoli portati sullo schermo. Inoltre, la sola vittoria di Gascón sarebbe entrata nella storia del festival come la prima per un’attrice transessuale, una vera occasione sprecata da parte della giuria. Rileggere le parole di Gerwig risulta ancora più frustrante poichè queste avrebbero avuto senso nel caso di una vittoria delle ensemble di The Seed of the Sacred Fig o All We Imagine as Light, o di un premio congiunto a Demi Moore e Margaret Qualley per The Substance di Coralie Fargeat, le cui interpretazioni risultano davvero “inseparabili”.
Proprio il secondo lungometraggio di Fargeat - che verrà distribuito in Italia da I Wonder Pictures - è stato uno dei più discussi dell’interno festival, il cui impatto non ha lasciato indifferenti e, una volta avvistata la cineasta francese sul Red Carpet insieme a Demi Moore, ci aspettavamo qualche premio importante per il film, ma alla fine ci si è dovuti accontentare di quello per la sceneggiatura. Un’altra scelta che non ha convinto a pieno, più che altro perché è l’aspetto meno memorabile del film, quello che colpisce di più invece è l'audacia di certe scelte stilistiche di Fargeat, il modo in cui gestisce le due interpretazioni centrali e il tono, grottesco e scioccante, che costruisce per tutta la lunga durata dell’opera. Visti gli ultimi vincitori del premio alla sceneggiatura, tra cui Monster (2023) di Hirokazu Kore’eda e Portrait de la jeune fille en feu (2019) di Céline Sciamma, viene naturale pensare che questa categoria sia divenuta una sorta di escamotage per assegnare un premio ad un film apprezzato dalla giuria, ma non abbastanza per la vittoria di qualcosa di più importante.
Terminiamo il palmares dei film della Competizione commentando il vincitore del Prix d'interprétation masculine, Jesse Plemons per Kinds of Kindness, protagonista, insieme ad Emma Stone, dei tre episodi del film. La performance dell’attore è degna di nota e ammalia il modo in cui si è adattato al tono grottesco e austero tipico delle prime opere di Lanthimos, trasmettendolo attraverso tre personaggi completamente diversi tra loro. Nonostante la vittoria non abbia deluso, dobbiamo ammettere che avremmo preferito un risultato diverso, come Franz Rogowski o Barry Keoghan per Bird di Andrea Arnold; il primo ci ha conquistato con la sua toccante interpretazione del titolare Bird, una persona circondata da un'aura misteriosa, mentre l’attore irlandese è stato sensazionale nel ribaltare lo stereotipo del genitore immaturo.
Passiamo ora alla sezione Un Certain Regard, la giuria presieduta da Xavier Dolan ha assegnato il premio per il miglior film a Black Dog di Guan Hu, un “western” minimalista che segue le vicende di Lang e il suo amico fidato, un cane nero, in un ambiente post apocalittico. La vittoria ci ha soddisfatto visto che l’opera di Guan è stata una delle più convincenti della sezione. Il premio per la miglior regia è stato invece un ex-aequo tra Rungano Nyoni, per On Becoming a Guinea Fowl, e Roberto Minervini per I Dannati, una vittoria che abbiamo apprezzato per l’abilità con cui entrambi i registi riescono a creare quel senso di cameratismo in due ambienti completamente opposti; nel primo caso in una famiglia dello Zambia, nel secondo in un gruppo di soldati durante la Guerra Civile americana.
I due premi per L’Histoire du Souleymane di Boris Lojkine, quello della giuria e quello per la miglior interpretazione maschile a Abou Sangare invece non ci hanno entusiasmato più di tanto. Il film non reinventa di certo il genere; la regia è lo stile di recitazione, che richiamano il cinema dei fratelli Dardenne, contribuiscono nel far immedesimare lo spettatore nella difficile situazione del protagonista, ma non risultano così degne di nota. Discorso simile anche per Anasuya Sengupta, vincitrice del premio per la miglior interpretazione femminile in The Shameless di Konstantin Bojanov, la cui performance risulta funzionale alla storia ma non è in grado di elevare il materiale del film o di sovvertire il cliché della prostituta dai tratti ribelli. Vedere i due lavori appena citati vincere ci ha fatto storcere il naso, soprattutto perchè i due migliori film di Un Certain Regard, When the Light Breaks di Rúnar Rúnarsson e Viet and Nam di Truong Minh Quy, sono tornati a casa a mani vuote.
Concludiamo la rassegna dei premi con la Camera d’Or per la migliore opera prima, premio che è stato assegnato a Haldan Ullman Tøndel per Armand, una scelta che non ha attirato di certo un riscontro positivo. Infatti, dopo una prima ora piuttosto accattivante, il cineasta perde il controllo della narrativa inserendo inutili sottotrame dell’atmosfera horror, decisioni che fanno deragliare la buona riuscita dell’opera. Un premio per Eephus di Carson Lund, September Days di Ariane Labed o Diamant brut, l’opera prima di Agathe Riedinger presentata in Competizione, sarebbero state scelte più apprezzate.
di Omar Franini
NC-210
28.05.2024
Lo scorso sabato si è conclusa la 77ª edizione del Festival di Cannes, e dopo avervi raccontato dei film che abbiamo visionato sulla Croisette è giunto il momento di trarre le conclusioni su quella che è stata una discreta edizione, seppur sottotono rispetto alla precedente. La qualità dei film in Competizione e nelle altre sezioni non ha raggiunto infatti il livello della 76ª edizione, ma ci sono state pur sempre delle piacevoli sorprese che ci hanno conquistato per la loro audacia ed originalità, un commento che non ci è venuto spontaneo fare l’anno scorso, se non per qualche caso isolato come The Zone of Interest di Jonathan Glazer, La Chimera di Alice Rohrwacher o Los Delincuentes di Rodrigo Moreno. Se prendiamo in considerazione solo la sezione principale, si potrà notare la notevole varietà tra le opere presentate, dal saggio cinematografico di Jia Zhangke che analizza i cambiamenti della società cinese, allo scioccante body horror di Coralie Fargeat, fino a passare al “musical non musical” di Gilles Lellouche, al film antologico di Yorgos Lanthimos e infine a Bird di Andrea Arnold, che segna un cambio di direzione rispetto alle opere precedenti della cineasta britannica. Anche se alcuni di questi film non ci hanno soddisfatto del tutto, abbiamo comunque apprezzato l’ambizione dietro a questa “eccentrica” selezione.
“Hold on, hold on. Today this could be the greatest day of our lives”, i primi versi della versione remixata da Robin Schulz del brano dei Take That, saranno probabilmente risuonati nella testa di Sean Baker quando ha sentito pronunciare il suo nome come vincitore della Palma d’Oro. Un trionfo che non ci ha per niente sorpreso, infatti, l’ottavo lungometraggio del cineasta indipendente è stato tra i film più acclamati del festival e, alla vigilia della cerimonia, la sua presenza nel palmares era ormai data per certa, bisognava solo capire per quale premio e se Baker sarebbe riuscito a fare il colpo grosso dopo che, nel 2021, Red Rocket era stato ingiustamente snobbato alla serata dei premi. Una volta sul palco per ritirare la Palma, Baker ha innanzitutto ringraziato tre donne fondamentali nella sua carriera che hanno contribuito alla buona riuscita del film, ovvero la madre, la moglie e l’attrice protagonista Mickey Madison.
Il cineasta ha colto anche l’occasione per rimarcare uno degli aspetti fondamentali del suo cinema e dei suoi protagonisti, cioè la normalizzazione del sex work, mestiere che è sempre stato visto in maniera controversa dalla società moderna. Infine ha anche riaffermato l’importanza dell’esperienza cinematografica all’interno della sala, lanciando di fatto una frecciatina alle varie piattaforme streaming che stanno sempre più prendendo il sopravvento nei festival. La vittoria di Sean Baker ha inoltre continuato una buffa tradizione, infatti quattro degli ultimi cinque vincitori della Palma (Parasite, Anatomia di una caduta, Triangle of Sadness e lo stesso Anora), hanno avuto la loro première il 21 maggio…quindi, per l’anno prossimo, basterà vedere quale film sarà proiettato in tale giorno per iniziare a predire la sua vittoria.
A vincere il Gran Prix è stata invece Payal Kapadia, cineasta Indiana la cui opera seconda era una di quelle che attendevamo di più al festival. La regista aveva infatti mostrato già un grande talento nei suoi cortometraggi e in A Night of Knowing Nothing, il suo lungometraggio di debutto presentato nella Quinzaine des réalisateurs nel 2021. Già il selezionamento in Competizione aveva rappresentato un grande traguardo per l’intero team del film - infatti erano passati ben trent’anni dall’ultima volta che un’opera indiana era entrata in corsa per la Palma - ma la conseguente vittoria ha marcato un altro importante risultato: la terza vittoria da parte di un lungometraggio indiano al festival di Cannes, dopo il Premio della Giuria assegnato a Mrinal Sen nel 1983 per Kharij e il Gran Premio (condiviso con altri dieci film) a Chetan Anand per Neecha Nagar nella prima edizione del Festival nel 1946. Come nel caso di Anora, All We Imagine As Light è stato uno dei film più acclamati del festival e il suo trionfo non ha stupito più di tanto.
La vittoria che ci ha sorpreso e allo stesso tempo soddisfatto di più è stata quella per la miglior regia a Miguel Gomes per Grand Tour. La natura ambiziosa e sperimentale dell’opera, che fa immerge lo spettatore nel “viaggio” dei due protagonisti, ci ha conquistato sin da subito, ma avevamo il timore che una giuria composta per la maggior parte da attori non sarebbe stata in grado di apprezzare l’operazione compiuta dal regista portoghese. Probabilmente la presenza di Hirokazu Kore’eda ha giocato un ruolo fondamentale nel verdetto, visto che l'autore giapponese ha ammesso già in passato di essere un grande estimatore della filmografia di Gomes e, più nello specifico, del suo Tabù (2012). Durante il discorso di ringraziamento, il cineasta ha citato i nomi di due grandi maestri del cinema portoghese, Manoel de Oliveira e João César Monteiro, e a parlato di come, molto spesso, il cinema della propria nazione sia stato snobbato dal festival di Cannes, ricordando che erano passati ben diciotto anni dall’ultima volta che un lungometraggio - Juventude em Marcia (2006) di Pedro Costa nel 2006 - era stato selezionato nella Competizione.
Dopo queste tre sensazionali scelte da parte della giuria, è arrivato il momento di parlare delle note dolenti che riguardano la serata dei premi, in primis il trattamento riservato a Mohammad Rasoulof. Dopo essere stato condannato a otto anni di prigione dalle autorità iraniane, il regista ha deciso di fuggire dal proprio Paese trovando asilo in Europa, e solo qualche giorno prima della presentazione di The Seed of the Sacred Fig, la sua ultima fatica, era stata comunicata la sua presenza a Cannes. Sin dall’annuncio del film nella selezione erano iniziati i vari discorsi su una possibile vittoria della Palma d’Oro, ma il cineasta si è dovuto accontentare di un “Premio speciale”. La presidentessa Greta Gerwig, durante la conferenza stampa post premiazioni, ha spiegato come questo riconoscimento non sia stato soltanto assegnato per onorare il film, ma anche per denunciare il contesto politico ed extra cinematografico con il quale Rasoulof si è trovato a combattere. Non vogliamo criticare troppo aspramente la scelta della giuria, ma riteniamo che abbiano dato un “contentino” al cineasta iraniano solo per la sua tragica storia e non per la reale qualità del film, a mani basse uno dei migliori del festival. Crediamo sia davvero importante dare risalto alle vicissitudini di Rasoulof a livello mediatico, e questo riconoscimento dall’aspetto “forzato” ci ha lasciato l’amaro in bocca, un premio della Giuria sarebbe stato più corretto, ma a quanto pare sono state preferite altre opere, tra cui Emilia Perez di Jacques Audiard.
Come avevamo già scritto, il nuovo lungometraggio del cineasta francese è un musical avvincente e crediamo che la sua natura da crowd pleaser lo renderà un grande successo al botteghino, soprattutto in Italia quando raggiungerà le nostre sale grazie a Lucky Red. Il Premio della Giuria non ci ha quindi soddisfatto, ma ancora più frustrante è stato il riconoscimento assegnato all’ensemble femminile del film. “Separare queste interpretazioni avrebbe rovinato la magia che queste attrici creano insieme”, sono state queste le dichiarazioni della giuria durante la conferenza stampa, parole che ci hanno deluso e che crediamo leggermente insensate. Per spiegarci meglio, sono state premiate quattro attrici; Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana, le due vere protagoniste di Emilia Perez, Selena Gomez, che interpreta un personaggio secondario, e infine Adriana Paz, la cui presenza nel film non supera la decina di minuti. Queste due ultime interpretazioni non possono essere considerate memorabili o così degne di nota, e, anche se abbiamo apprezzato la performance canora e carismatica di Saldana, non riteniamo la sua prova meritevole del premio.
Discorso opposto per Karla Sofía Gascón, la cui interpretazione è letteralmente il punto di forza di Emilia Perez, che impressiona per il modo in cui si è districata nei “due” ruoli portati sullo schermo. Inoltre, la sola vittoria di Gascón sarebbe entrata nella storia del festival come la prima per un’attrice transessuale, una vera occasione sprecata da parte della giuria. Rileggere le parole di Gerwig risulta ancora più frustrante poichè queste avrebbero avuto senso nel caso di una vittoria delle ensemble di The Seed of the Sacred Fig o All We Imagine as Light, o di un premio congiunto a Demi Moore e Margaret Qualley per The Substance di Coralie Fargeat, le cui interpretazioni risultano davvero “inseparabili”.
Proprio il secondo lungometraggio di Fargeat - che verrà distribuito in Italia da I Wonder Pictures - è stato uno dei più discussi dell’interno festival, il cui impatto non ha lasciato indifferenti e, una volta avvistata la cineasta francese sul Red Carpet insieme a Demi Moore, ci aspettavamo qualche premio importante per il film, ma alla fine ci si è dovuti accontentare di quello per la sceneggiatura. Un’altra scelta che non ha convinto a pieno, più che altro perché è l’aspetto meno memorabile del film, quello che colpisce di più invece è l'audacia di certe scelte stilistiche di Fargeat, il modo in cui gestisce le due interpretazioni centrali e il tono, grottesco e scioccante, che costruisce per tutta la lunga durata dell’opera. Visti gli ultimi vincitori del premio alla sceneggiatura, tra cui Monster (2023) di Hirokazu Kore’eda e Portrait de la jeune fille en feu (2019) di Céline Sciamma, viene naturale pensare che questa categoria sia divenuta una sorta di escamotage per assegnare un premio ad un film apprezzato dalla giuria, ma non abbastanza per la vittoria di qualcosa di più importante.
Terminiamo il palmares dei film della Competizione commentando il vincitore del Prix d'interprétation masculine, Jesse Plemons per Kinds of Kindness, protagonista, insieme ad Emma Stone, dei tre episodi del film. La performance dell’attore è degna di nota e ammalia il modo in cui si è adattato al tono grottesco e austero tipico delle prime opere di Lanthimos, trasmettendolo attraverso tre personaggi completamente diversi tra loro. Nonostante la vittoria non abbia deluso, dobbiamo ammettere che avremmo preferito un risultato diverso, come Franz Rogowski o Barry Keoghan per Bird di Andrea Arnold; il primo ci ha conquistato con la sua toccante interpretazione del titolare Bird, una persona circondata da un'aura misteriosa, mentre l’attore irlandese è stato sensazionale nel ribaltare lo stereotipo del genitore immaturo.
Passiamo ora alla sezione Un Certain Regard, la giuria presieduta da Xavier Dolan ha assegnato il premio per il miglior film a Black Dog di Guan Hu, un “western” minimalista che segue le vicende di Lang e il suo amico fidato, un cane nero, in un ambiente post apocalittico. La vittoria ci ha soddisfatto visto che l’opera di Guan è stata una delle più convincenti della sezione. Il premio per la miglior regia è stato invece un ex-aequo tra Rungano Nyoni, per On Becoming a Guinea Fowl, e Roberto Minervini per I Dannati, una vittoria che abbiamo apprezzato per l’abilità con cui entrambi i registi riescono a creare quel senso di cameratismo in due ambienti completamente opposti; nel primo caso in una famiglia dello Zambia, nel secondo in un gruppo di soldati durante la Guerra Civile americana.
I due premi per L’Histoire du Souleymane di Boris Lojkine, quello della giuria e quello per la miglior interpretazione maschile a Abou Sangare invece non ci hanno entusiasmato più di tanto. Il film non reinventa di certo il genere; la regia è lo stile di recitazione, che richiamano il cinema dei fratelli Dardenne, contribuiscono nel far immedesimare lo spettatore nella difficile situazione del protagonista, ma non risultano così degne di nota. Discorso simile anche per Anasuya Sengupta, vincitrice del premio per la miglior interpretazione femminile in The Shameless di Konstantin Bojanov, la cui performance risulta funzionale alla storia ma non è in grado di elevare il materiale del film o di sovvertire il cliché della prostituta dai tratti ribelli. Vedere i due lavori appena citati vincere ci ha fatto storcere il naso, soprattutto perchè i due migliori film di Un Certain Regard, When the Light Breaks di Rúnar Rúnarsson e Viet and Nam di Truong Minh Quy, sono tornati a casa a mani vuote.
Concludiamo la rassegna dei premi con la Camera d’Or per la migliore opera prima, premio che è stato assegnato a Haldan Ullman Tøndel per Armand, una scelta che non ha attirato di certo un riscontro positivo. Infatti, dopo una prima ora piuttosto accattivante, il cineasta perde il controllo della narrativa inserendo inutili sottotrame dell’atmosfera horror, decisioni che fanno deragliare la buona riuscita dell’opera. Un premio per Eephus di Carson Lund, September Days di Ariane Labed o Diamant brut, l’opera prima di Agathe Riedinger presentata in Competizione, sarebbero state scelte più apprezzate.