Dirigere un film con la morte
negli occhi e il ritmo nel sangue,
di Alice De Luca
TR-32
06.07.2021
Il 23 giugno del 1927 nasceva Robert Louis Fosse: un uomo che dal quel giorno non ha più conosciuto riposo e che, davanti a quelli che altri consideravano limiti o ostacoli, non si è mai fermato.
La calvizie che lo coglie in gioventù, e che per qualsiasi ballerino sarebbe stata motivo di rinuncia al sogno della danza, non riuscì a impedirgli di continuare a includere il ballo nel suo mestiere: diventerà infatti coreografo. L’insuccesso di Sweet Charity (1969) che avrebbe scoraggiato chiunque a proseguire una carriera a Hollywood, per lui rappresenta solo un incidente di percorso, tanto che il film successivo sarà Cabaret (1972). L’infarto che lo colpisce nel 1974 sarebbe stato interpretato da tutti come un segnale d’avvertimento, eppure le prove a teatro di Chicago e la lavorazione di Lenny erano in corso e, in quanto regista di entrambe le produzioni, Fosse, da vero workaholic, preferì gettarsi a capofitto sui due progetti e ignorare la stanchezza del suo povero cuore.
Ma non è soltanto la determinazione ad averlo contraddistinto e introdotto nell’immaginario collettivo. Il perfezionismo, ad esempio, da sempre è associato al suo modus operandi, basti pensare alla sequenza The Aloof, The Heavyweight, The Big Finish, vista nel 2019 tra le clip di apertura della Festa del Cinema di Roma. A sua volta la ricercatezza estetica ha permesso a Fosse di approdare ad un suo stile, così inconfondibile e iconico da influenzare fortemente Michael Jackson e da diventare oggetto di uno sketch di SNL «This is Fosse, honey. We don't do 1-2-3s. We do 'ka-donks,' 'ka-doonks' and ‘za-zas'!». Esiste però un ulteriore fil rouge all’interno della sua vita: Gwen Verdon. L’attrice, già nota e affermata a Broadway ben prima dell’inizio del loro sodalizio sentimentale e artistico, non ha mai smesso di collaborare con lui, neanche dopo la separazione, come ricorda la recente miniserie biografica Fosse/Verdon.
Un episodio che non viene immortalato nel tv show, sebbene cruciale per la formazione di Fosse, risale al 1953 quando questi, trovandosi negli studios della MGM per via delle sue brevi apparizioni in Baciami Kate e Tre ragazze di Broadway, rimirava da dietro le quinte Fred Astaire, suo personalissimo mito, che sul set di The Band Wagon danzava sulle note di un cinema ormai destinato a scomparire e finire in cantina.
Ma un nuovo importante evento aspettava Bob Fosse, a cui a breve vengono affidate le coreografie di The Pajama Game e Damn Yankees. E’ proprio la preparazione di quest’ultimo musical ad essere galeotta dell'incontro con Gwen Verdon che, più che una musa, per lui fu colei con cui scendere un milione di scale. Comincia così il connubio tra i due, che raggiunge l'apice nel 1966 durante l’allestimento di Sweet Charity, pièce teatrale tratta dalla sceneggiatura de Le Notti di Cabiria di Pinelli, Flaiano, Fellini e Pasolini.
Se come spettacolo fu rivoluzionario e acclamato per via dell’unione della Broadway jazz dance di Jack Cole con una trama incredibilmente densa rispetto alle produzioni dell’epoca, il passaggio sullo schermo della medesima storia nel 1969 non funziona. Il film è un flop: i colori troppo accesi e i toni disneyani dissimulano e indeboliscono il conflitto sociale di Charity e la presenza di Shirley MacLaine, teoricamente garante di incassi, non permette di rientrare nel budget troppo alto. Il tentativo quindi di coreografare non soltanto la danza ma anche le immagini tramite il montaggio, l’uso dello zoom lens, i movimenti di macchina repentini e il freeze frame, riesumando le tecniche e le caratteristiche dei musical di Busby Berkeley, fallisce.
Fosse, in seguito all’esordio che mise in ginocchio la Universal, entra in trattativa con Cy Feuer per la regia della versione cinematografica di Cabaret. E, nonostante il suo nome si trovi in lizza con quelli di Billy Wilder, Joseph Mankiewicz e Gene Kelly, alla fine sarà lui a dirigerlo. Questa volta però la musica cambia insieme alle luci e all’atmosfera, tanto che agli Oscar 1972 il lungometraggio, ispirato al romanzo Addio a Berlino di Christopher Isherwood, trionfa, portando a casa 8 premi tra cui miglior attrice protagonista (Liza Minelli), miglior attore non protagonista (Joel Grey) e miglior regia.
Finalmente consacrato e riconosciuto, il suo talento nel 1973 riceve un'ulteriore conferma con diversi Tony Awards per il ritorno a Broadway con Pippin e altrettanti Emmy Awards per il documentario Liza with a Z. Come accade ad ogni atleta dopo una vittoria incontrastata, Fosse subisce un forte contraccolpo che ha però origini più profonde, radicate nello stato psichico in cui si trova: convinto di essere una frode vivente, sostiene di aver ingannato tutti sulle sue capacità, al punto da desiderare che qualcuno lo liberi da quelle statuette.
Il suo malessere, rimasto fino a quel momento in ombra sul palco del Kit Kat Klub di Cabaret, muta tempo e ambientazione e torna a manifestarsi nel terzo film: Lenny (1974) che, piuttosto che spiegare Come parlare sporco e influenzare la gente (titolo dell’autobiografia di L.Bruce), affronta la problematica della libertà di espressione con cui il sick comic newyorkese, interpretato da Dustin Hoffman, si scontrò negli anni 50/60.
Se quindi nelle prime due opere di Bob Fosse un destino diverso da quello desiderato rappresenta la minaccia più imponente poiché sinonimo di non vita, nei successivi lavori (Lenny, All That Jazz, Star 80) il cinismo porta il regista ad identificare la morte con il più efficace e potente strumento narrativo, in quanto capace di interrompere qualsiasi storia. Non è un pensiero disincantato ma realista: diversamente da Isaac Davis in Manhattan, infatti, lui le sigarette non le tiene solo in mano ma le aspira e anche voracemente, proprio come Joe Gideon/Roy Scheider in All that Jazz (1979).
«I miei amici sanno che per me la felicità è quando mi sento semplicemente miserabile e non pronto al suicidio» afferma Fosse in un’intervista. Questa potenziale incombenza della disgrazia che in Sweet Charity si nascondeva dietro una visione dickensiana del racconto e dell’esistenza (Charity non è povera, è sfortunata), si evolve e si configura nelle opere seguenti tramite la predominanza visiva del nero e la sua rappresentazione sullo schermo. In Lenny si incontra un uso non solo storico ma anche simbolico del B&W; in Cabaret ad essere dark sono le tematiche come il nazismo, l’aborto e le qualità estetiche incarnate dalla femme fatale; in Star 80 (1983) è semplicemente l’origine dell’idea del soggetto: un articolo di cronaca nera, pubblicato su The Village Voice; in All that Jazz, invece, ci si imbatte in una sintesi additiva di tutti i colori che nel finale trasformano il decesso in una festa.
La salvezza, di conseguenza, è preclusa ai protagonisti: troppo consapevoli della morte fisica, politica ed emotiva che li attende. Privi perciò di compassione per sé stessi, assecondano abulicamente le proprie indoli, lasciando che le debolezze li intrappolino nella solitudine del proprio girone dantesco.
Eppure di cosa li si potrebbe accusare? «Di giocare con la vita e di prenderla per la coda, tanto un giorno dovrà finire» come canterebbe Lucio Dalla? La loro comune predisposizione autolesionista, lontana da qualsiasi arco di trasformazione, in realtà li rende maledettamente cinematografici: il desiderio di realizzare un obiettivo, (dimenticarsi della propria appartenenza sociale, mettere in piedi uno spettacolo, deridere i costumi e le ipocrisie culturali borghesi di fronte ad un pubblico), non permette mai alla narrazione di prendersi pause o di cadere in tempi morti.
L’istinto di Fosse ad autosabotarsi, minando così relazioni, set e anche la minima manifestazione di equilibrio, si può quindi rintracciare in un comportamento analogo da parte dei suoi personaggi: Charity persegue ciecamente il sogno della finzione dominante americana, convinta che un giorno potrà guardare New York dall’alto perché come la lontana parente, Gelsomina, si illude che tutto quello che c’è al mondo serva a qualcosa perché altrimenti sarebbero inutili anche le stelle; Sally, gelosa della sua indipendenza, è disposta a rifiutare il vero amore; Lenny, nonostante serata dopo serata finisca per comprendere che esibirsi per lui sia soltanto dannoso, non riesce a farne a meno; Joe, sebbene attratto dalla personificazione della morte (interpretata nella pellicola da Jessica Lange), non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalle scene; Dorothy Stratten, pur di dare un senso alla propria bellezza, ingenuamente la lascia nelle mani del suo futuro omicida.
La felicità non abita sulla terra, nel 1974, e infatti Fosse la va a cercare, tuffandosi nei panni di un serpente, nell’universo stravagante de Il piccolo principe di Stanley Donen. Ma torna a mani vuote e nel suo cinema continuerà a non lasciare spazio alla spensieratezza tipica dei musical da lui tanto amati, soppiantati poi negli anni settanta dall'avvento di un radicale cambiamento avviato a Broadway da Stephen Sondheim: compositore, drammaturgo, padre fondatore del concept musical e colui che ha orientato questo genere teatrale verso il contenuto e non più la forma.
L'esigenza di una maggiore introspezione psicologica dei personaggi nei film è ancora più urgente in quanto è sempre più complesso garantire la sospensione dell’incredulità. Il ballo e il canto non possono più limitarsi a svolgere un ruolo decorativo e le categorie spaziali e temporali devono fungere da palcoscenico dell'interiorità.
Facendosi forte dell’insegnamento, Bob Fosse trasforma la danza e il canto in espressioni dei recessi dell’animo, adeguandosi al registro e al linguaggio filmico. Quando a Moretti venne chiesto il motivo per cui avesse scelto il cinema e non la letteratura per raccontarsi, egli rispose che la decisione era stata dettata dalle caratteristiche del mezzo audiovisivo, capace di fargli esprimere meglio la sua poetica. Quando Fosse razionalizza la differenza tra Broadway e Hollywood, la distanza è evidente e, come nei migliori manuali di sceneggiatura, lo scopo dei suoi protagonisti diventa letteralmente una questione di vita o di morte.
Silenziosamente infatti, come Joe Gideon nella scena del montaggio di All That Jazz, tutti i personaggi di Fosse si approcciano alla loro esistenza tramite le cinque fasi che la psichiatra Kubler-Ross attribuiva all'elaborazione del lutto: diniego, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione. Costretti a confrontarsi e a reagire ogni volta in maniera diversa ai propri limiti e alla condizione politica, fisica o mentale in cui si trovano, diventano vittime di un’ironia tragica. Perciò, la volontà in Sweet Charity di attingere liberamente alla sceneggiatura de Le Notti di Cabiria, dove la promessa di redenzione viene delusa nel finale, preannuncia soltanto una rilevante dose di scetticismo riguardo la possibilità di rivalsa sociale, convinzione simile a quella di Pasolini che, allo stesso modo, credeva nell’impossibilità di fuga dalle periferie.
E, sebbene i film di Fosse non appartengano al realismo magico, presentano sempre un istante, seppur breve, di quiete in cui il ballo, l’amore, l’incoscienza e la tenerezza consolano e allontanano temporaneamente i timori. Un caso a sé è quello di Sweet Charity, dove l’attimo si protrae per l'intera durata della pellicola, a causa dell’assunzione totale del punto di vista della protagonista che, accecata dalla speranza di un lieto fine, non guarda mai in faccia la realtà e preferisce darsi una versione edulcorata della storia.
Atteggiamento completamente diverso da quello del regista che, nonostante sparga nella filmografia diversi elementi personali (l’esperienza da vaudeville, la malattia, la dissolutezza) paradossalmente riesce a rimanere “anti-biografico”. Quella mancanza di indulgenza verso sé stesso gli permette infatti di trattare il suo vissuto alla stregua di quello altrui e di dislocarlo in epoche, mestieri e volti nuovi.
Diversamente dalla diffusa tendenza odierna all'autobiografismo esplicito, Bob Fosse omaggia colui che è stato capace di nascondere dietro un lenzuolo trasparente la sua vita intera dall’infanzia ai sogni: Federico Fellini. Guido Anselmi, in 8 e mezzo, alla vivace esuberanza della creatività preferisce la sonnolenza, l’apatia e l’indifferenza. Al contrario Joe Gideon, in All That Jazz, dove le premesse del capolavoro del 1963 vengono ribaltate, avendo i giorni contati, fa di tutto pur di evitare che il sipario possa calare sul suo corpo esanime. Robert Louis Fosse, che oggi avrebbe 98 anni, invece ha preferito andarsene nel 1978, tra le braccia di Gwen Verdon, poco prima di raggiungere il National Theatre per assistere ad un revival di Sweet Charity. Questo crudo e ingiusto finale, consumatosi su un marciapiede di Washington, sarebbe stato condannato da Robert McKee poiché non abbastanza sbalorditivo e soddisfacente. Ma è così che si muore nella realtà: male, all’improvviso e spesso ancor prima di essere felici. E Fosse lo sapeva bene, per questo al suo alter ego in All That Jazz ha concesso una degna sepoltura piena di musica, luci, calore e cullata da una standing ovation di un pubblico che ha assistito ad uno spettacolo durato 60 anni.
Dirigere un film con la morte
negli occhi e il ritmo nel sangue,
di Alice De Luca
TR-32
06.07.2021
Il 23 giugno del 1927 nasceva Robert Louis Fosse: un uomo che dal quel giorno non ha più conosciuto riposo e che, davanti a quelli che altri consideravano limiti o ostacoli, non si è mai fermato.
La calvizie che lo coglie in gioventù, e che per qualsiasi ballerino sarebbe stata motivo di rinuncia al sogno della danza, non riuscì a impedirgli di continuare a includere il ballo nel suo mestiere: diventerà infatti coreografo. L’insuccesso di Sweet Charity (1969) che avrebbe scoraggiato chiunque a proseguire una carriera a Hollywood, per lui rappresenta solo un incidente di percorso, tanto che il film successivo sarà Cabaret (1972). L’infarto che lo colpisce nel 1974 sarebbe stato interpretato da tutti come un segnale d’avvertimento, eppure le prove a teatro di Chicago e la lavorazione di Lenny erano in corso e, in quanto regista di entrambe le produzioni, Fosse, da vero workaholic, preferì gettarsi a capofitto sui due progetti e ignorare la stanchezza del suo povero cuore.
Ma non è soltanto la determinazione ad averlo contraddistinto e introdotto nell’immaginario collettivo. Il perfezionismo, ad esempio, da sempre è associato al suo modus operandi, basti pensare alla sequenza The Aloof, The Heavyweight, The Big Finish, vista nel 2019 tra le clip di apertura della Festa del Cinema di Roma. A sua volta la ricercatezza estetica ha permesso a Fosse di approdare ad un suo stile, così inconfondibile e iconico da influenzare fortemente Michael Jackson e da diventare oggetto di uno sketch di SNL «This is Fosse, honey. We don't do 1-2-3s. We do 'ka-donks,' 'ka-doonks' and ‘za-zas'!». Esiste però un ulteriore fil rouge all’interno della sua vita: Gwen Verdon. L’attrice, già nota e affermata a Broadway ben prima dell’inizio del loro sodalizio sentimentale e artistico, non ha mai smesso di collaborare con lui, neanche dopo la separazione, come ricorda la recente miniserie biografica Fosse/Verdon.
Un episodio che non viene immortalato nel tv show, sebbene cruciale per la formazione di Fosse, risale al 1953 quando questi, trovandosi negli studios della MGM per via delle sue brevi apparizioni in Baciami Kate e Tre ragazze di Broadway, rimirava da dietro le quinte Fred Astaire, suo personalissimo mito, che sul set di The Band Wagon danzava sulle note di un cinema ormai destinato a scomparire e finire in cantina.
Ma un nuovo importante evento aspettava Bob Fosse, a cui a breve vengono affidate le coreografie di The Pajama Game e Damn Yankees. E’ proprio la preparazione di quest’ultimo musical ad essere galeotta dell'incontro con Gwen Verdon che, più che una musa, per lui fu colei con cui scendere un milione di scale. Comincia così il connubio tra i due, che raggiunge l'apice nel 1966 durante l’allestimento di Sweet Charity, pièce teatrale tratta dalla sceneggiatura de Le Notti di Cabiria di Pinelli, Flaiano, Fellini e Pasolini.
Se come spettacolo fu rivoluzionario e acclamato per via dell’unione della Broadway jazz dance di Jack Cole con una trama incredibilmente densa rispetto alle produzioni dell’epoca, il passaggio sullo schermo della medesima storia nel 1969 non funziona. Il film è un flop: i colori troppo accesi e i toni disneyani dissimulano e indeboliscono il conflitto sociale di Charity e la presenza di Shirley MacLaine, teoricamente garante di incassi, non permette di rientrare nel budget troppo alto. Il tentativo quindi di coreografare non soltanto la danza ma anche le immagini tramite il montaggio, l’uso dello zoom lens, i movimenti di macchina repentini e il freeze frame, riesumando le tecniche e le caratteristiche dei musical di Busby Berkeley, fallisce.
Fosse, in seguito all’esordio che mise in ginocchio la Universal, entra in trattativa con Cy Feuer per la regia della versione cinematografica di Cabaret. E, nonostante il suo nome si trovi in lizza con quelli di Billy Wilder, Joseph Mankiewicz e Gene Kelly, alla fine sarà lui a dirigerlo. Questa volta però la musica cambia insieme alle luci e all’atmosfera, tanto che agli Oscar 1972 il lungometraggio, ispirato al romanzo Addio a Berlino di Christopher Isherwood, trionfa, portando a casa 8 premi tra cui miglior attrice protagonista (Liza Minelli), miglior attore non protagonista (Joel Grey) e miglior regia.
Finalmente consacrato e riconosciuto, il suo talento nel 1973 riceve un'ulteriore conferma con diversi Tony Awards per il ritorno a Broadway con Pippin e altrettanti Emmy Awards per il documentario Liza with a Z. Come accade ad ogni atleta dopo una vittoria incontrastata, Fosse subisce un forte contraccolpo che ha però origini più profonde, radicate nello stato psichico in cui si trova: convinto di essere una frode vivente, sostiene di aver ingannato tutti sulle sue capacità, al punto da desiderare che qualcuno lo liberi da quelle statuette.
Il suo malessere, rimasto fino a quel momento in ombra sul palco del Kit Kat Klub di Cabaret, muta tempo e ambientazione e torna a manifestarsi nel terzo film: Lenny (1974) che, piuttosto che spiegare Come parlare sporco e influenzare la gente (titolo dell’autobiografia di L.Bruce), affronta la problematica della libertà di espressione con cui il sick comic newyorkese, interpretato da Dustin Hoffman, si scontrò negli anni 50/60.
Se quindi nelle prime due opere di Bob Fosse un destino diverso da quello desiderato rappresenta la minaccia più imponente poiché sinonimo di non vita, nei successivi lavori (Lenny, All That Jazz, Star 80) il cinismo porta il regista ad identificare la morte con il più efficace e potente strumento narrativo, in quanto capace di interrompere qualsiasi storia. Non è un pensiero disincantato ma realista: diversamente da Isaac Davis in Manhattan, infatti, lui le sigarette non le tiene solo in mano ma le aspira e anche voracemente, proprio come Joe Gideon/Roy Scheider in All that Jazz (1979).
«I miei amici sanno che per me la felicità è quando mi sento semplicemente miserabile e non pronto al suicidio» afferma Fosse in un’intervista. Questa potenziale incombenza della disgrazia che in Sweet Charity si nascondeva dietro una visione dickensiana del racconto e dell’esistenza (Charity non è povera, è sfortunata), si evolve e si configura nelle opere seguenti tramite la predominanza visiva del nero e la sua rappresentazione sullo schermo. In Lenny si incontra un uso non solo storico ma anche simbolico del B&W; in Cabaret ad essere dark sono le tematiche come il nazismo, l’aborto e le qualità estetiche incarnate dalla femme fatale; in Star 80 (1983) è semplicemente l’origine dell’idea del soggetto: un articolo di cronaca nera, pubblicato su The Village Voice; in All that Jazz, invece, ci si imbatte in una sintesi additiva di tutti i colori che nel finale trasformano il decesso in una festa.
La salvezza, di conseguenza, è preclusa ai protagonisti: troppo consapevoli della morte fisica, politica ed emotiva che li attende. Privi perciò di compassione per sé stessi, assecondano abulicamente le proprie indoli, lasciando che le debolezze li intrappolino nella solitudine del proprio girone dantesco.
Eppure di cosa li si potrebbe accusare? «Di giocare con la vita e di prenderla per la coda, tanto un giorno dovrà finire» come canterebbe Lucio Dalla? La loro comune predisposizione autolesionista, lontana da qualsiasi arco di trasformazione, in realtà li rende maledettamente cinematografici: il desiderio di realizzare un obiettivo, (dimenticarsi della propria appartenenza sociale, mettere in piedi uno spettacolo, deridere i costumi e le ipocrisie culturali borghesi di fronte ad un pubblico), non permette mai alla narrazione di prendersi pause o di cadere in tempi morti.
L’istinto di Fosse ad autosabotarsi, minando così relazioni, set e anche la minima manifestazione di equilibrio, si può quindi rintracciare in un comportamento analogo da parte dei suoi personaggi: Charity persegue ciecamente il sogno della finzione dominante americana, convinta che un giorno potrà guardare New York dall’alto perché come la lontana parente, Gelsomina, si illude che tutto quello che c’è al mondo serva a qualcosa perché altrimenti sarebbero inutili anche le stelle; Sally, gelosa della sua indipendenza, è disposta a rifiutare il vero amore; Lenny, nonostante serata dopo serata finisca per comprendere che esibirsi per lui sia soltanto dannoso, non riesce a farne a meno; Joe, sebbene attratto dalla personificazione della morte (interpretata nella pellicola da Jessica Lange), non ha alcuna intenzione di ritirarsi dalle scene; Dorothy Stratten, pur di dare un senso alla propria bellezza, ingenuamente la lascia nelle mani del suo futuro omicida.
La felicità non abita sulla terra, nel 1974, e infatti Fosse la va a cercare, tuffandosi nei panni di un serpente, nell’universo stravagante de Il piccolo principe di Stanley Donen. Ma torna a mani vuote e nel suo cinema continuerà a non lasciare spazio alla spensieratezza tipica dei musical da lui tanto amati, soppiantati poi negli anni settanta dall'avvento di un radicale cambiamento avviato a Broadway da Stephen Sondheim: compositore, drammaturgo, padre fondatore del concept musical e colui che ha orientato questo genere teatrale verso il contenuto e non più la forma.
L'esigenza di una maggiore introspezione psicologica dei personaggi nei film è ancora più urgente in quanto è sempre più complesso garantire la sospensione dell’incredulità. Il ballo e il canto non possono più limitarsi a svolgere un ruolo decorativo e le categorie spaziali e temporali devono fungere da palcoscenico dell'interiorità.
Facendosi forte dell’insegnamento, Bob Fosse trasforma la danza e il canto in espressioni dei recessi dell’animo, adeguandosi al registro e al linguaggio filmico. Quando a Moretti venne chiesto il motivo per cui avesse scelto il cinema e non la letteratura per raccontarsi, egli rispose che la decisione era stata dettata dalle caratteristiche del mezzo audiovisivo, capace di fargli esprimere meglio la sua poetica. Quando Fosse razionalizza la differenza tra Broadway e Hollywood, la distanza è evidente e, come nei migliori manuali di sceneggiatura, lo scopo dei suoi protagonisti diventa letteralmente una questione di vita o di morte.
Silenziosamente infatti, come Joe Gideon nella scena del montaggio di All That Jazz, tutti i personaggi di Fosse si approcciano alla loro esistenza tramite le cinque fasi che la psichiatra Kubler-Ross attribuiva all'elaborazione del lutto: diniego, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione. Costretti a confrontarsi e a reagire ogni volta in maniera diversa ai propri limiti e alla condizione politica, fisica o mentale in cui si trovano, diventano vittime di un’ironia tragica. Perciò, la volontà in Sweet Charity di attingere liberamente alla sceneggiatura de Le Notti di Cabiria, dove la promessa di redenzione viene delusa nel finale, preannuncia soltanto una rilevante dose di scetticismo riguardo la possibilità di rivalsa sociale, convinzione simile a quella di Pasolini che, allo stesso modo, credeva nell’impossibilità di fuga dalle periferie.
E, sebbene i film di Fosse non appartengano al realismo magico, presentano sempre un istante, seppur breve, di quiete in cui il ballo, l’amore, l’incoscienza e la tenerezza consolano e allontanano temporaneamente i timori. Un caso a sé è quello di Sweet Charity, dove l’attimo si protrae per l'intera durata della pellicola, a causa dell’assunzione totale del punto di vista della protagonista che, accecata dalla speranza di un lieto fine, non guarda mai in faccia la realtà e preferisce darsi una versione edulcorata della storia.
Atteggiamento completamente diverso da quello del regista che, nonostante sparga nella filmografia diversi elementi personali (l’esperienza da vaudeville, la malattia, la dissolutezza) paradossalmente riesce a rimanere “anti-biografico”. Quella mancanza di indulgenza verso sé stesso gli permette infatti di trattare il suo vissuto alla stregua di quello altrui e di dislocarlo in epoche, mestieri e volti nuovi.
Diversamente dalla diffusa tendenza odierna all'autobiografismo esplicito, Bob Fosse omaggia colui che è stato capace di nascondere dietro un lenzuolo trasparente la sua vita intera dall’infanzia ai sogni: Federico Fellini. Guido Anselmi, in 8 e mezzo, alla vivace esuberanza della creatività preferisce la sonnolenza, l’apatia e l’indifferenza. Al contrario Joe Gideon, in All That Jazz, dove le premesse del capolavoro del 1963 vengono ribaltate, avendo i giorni contati, fa di tutto pur di evitare che il sipario possa calare sul suo corpo esanime. Robert Louis Fosse, che oggi avrebbe 98 anni, invece ha preferito andarsene nel 1978, tra le braccia di Gwen Verdon, poco prima di raggiungere il National Theatre per assistere ad un revival di Sweet Charity. Questo crudo e ingiusto finale, consumatosi su un marciapiede di Washington, sarebbe stato condannato da Robert McKee poiché non abbastanza sbalorditivo e soddisfacente. Ma è così che si muore nella realtà: male, all’improvviso e spesso ancor prima di essere felici. E Fosse lo sapeva bene, per questo al suo alter ego in All That Jazz ha concesso una degna sepoltura piena di musica, luci, calore e cullata da una standing ovation di un pubblico che ha assistito ad uno spettacolo durato 60 anni.