NC-243
23.10.2024
Oggi si da inizio alla XVII edizione di Archivio Aperto, il festival bolognese dedicato alla riscoperta del patrimonio cinematografico in piccolo formato - privato, amatoriale, sperimentale, d’artista - e, proprio in occasione della serata d’apertura, saranno proiettati degli inediti lavori della regista belga Chantal Akerman, qui alle prime armi dietro la macchina da presa.
Ripercorrendo gli inizi di una carriera cinematografica possiamo parlare solo in rari casi di un vero e proprio esordio, in senso assoluto e decisivo. Molto più spesso l’esordio va considerato al plurale, come un insieme di diverse prime volte. Questo è senza dubbio il caso della Akerman, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, a cavallo dei suoi vent’anni, muove i primi passi nel cinema. Fino ad oggi Saute ma ville (1968) è stato considerato il suo primo cortometraggio di fiction, Hotel Monterey (1972) il primo lungometraggio documentario e Je, tu, il, elle (1974) il primo lungometraggio a soggetto. Ma di recente sono riemersi quattro filmini realizzati dalla cineasta nell’estate del 1967, a soli diciassette anni. Filmati in bianco e nero e senza sonoro, questi corti vennero presentati per l’ammissione all’Institut Supérieur des Arts du Spectacle (INSAS) di Bruxelles, che Akerman avrebbe poi frequentato solo per pochi mesi.
Si tratta di materiali rimasti a lungo sconosciuti, da poco restaurati da Cinematek e proiettati per la prima volta in Italia. L’evento al Cinema Modernissimo permette quindi di accedere a un lato pre-stilistico della produzione di Chantal Akerman, dove alcuni elementi-chiave dei suoi film a venire sono già presenti, ma in cui manca una loro adeguata costruzione formale. Più che di veri e propri cortometraggi si tratta di home movies in piena regola: il fascino di queste immagini tremolanti in 8mm è da ricercare in quello sguardo vergine e puro che muove il cineamatore. Stan Brakhage parlava a proposito di “una goffaggine ricca di scoperte continue che è bella da vedere.” In effetti, i primi esperimenti di Akerman esprimono con forza questa idea, riuscendo a cogliere elementi della quotidianità femminile con assoluta spontaneità e sapiente leggerezza. Il principio dei suoi esordi va dunque rintracciato in questi film in piccolo formato, testimonianze dirette di un primo approccio alla macchina da presa.
Dove si esaurisce, invece, la forza di un esordio? Prendiamo l’ultima parte di Je, tu, il, elle (1974), che viene generalmente considerato il vero primo film della regista. Questa sezione del racconto è costruita come una conclusione ideale alla sequenza di pronomi del titolo. L’influenza del cinema strutturale americano (che era alla base del precedente Hotel Monterey) si ripresenta proprio in questi accorgimenti di ordine formale a cui Akerman tiene particolarmente. Il film è di fatto costruito per presentare tre temporalità distinte: il tempo interiore della prima parte (momento del je e del tu, perché la protagonista scrive delle lettere, forse a una amante, forse di nuovo a se stessa), tempo esterno della seconda (con il camionista affascinante e rozzo che domina la scena) e il tempo psicologico della terza, in cui l’incontro con un’amica apre il racconto ai meccanismi del sentimento e del sesso. È bene evidenziare che quest’ultima parte è la più pulita e la più luminosa del film. Pulita perché le immagini si impongono ai nostri occhi con particolare nitidezza e cura formale (e questo salta all’occhio specialmente in contrasto alla sezione precedente, dominata da immagini sporche, documentarie). Luminosa per la luce piatta e totalizzante in cui sono immersi i corpi di Chantal Akerman e Claire Wauthion, anche qui in opposizione con quanto mostrato in precedenza (la manomissione dell’otturatore e i conseguenti sbalzi di luce nella prima parte, l’oscurità notturna e granulosa della seconda).
Escludendo una prima inquadratura in cui vediamo la protagonista avvicinarsi al portone di un palazzo, l’intera sequenza si svolge in interni e in particolare in un’unica stanza che comprende letto e tavola da pranzo. Ancora una volta il racconto è segnato dal rapporto che i personaggi instaurano col cibo - come sarà poi anche in Jeanne Dielman (1975). Ma la fame della protagonista rappresenta qualcosa di più del semplice bisogno di mangiare; si tratta piuttosto di una voracità generale, tenera e depressiva, che muove il soggetto a realizzare le sue pulsioni primarie. La fame in questo caso non è solo alimentare, ma anche sessuale e affettiva. Da qui tutta l’essenzialità della storia, che è unicamente il racconto di un bisogno da soddisfare: il bisogno di consumare un rapporto. È solo a partire da questa terza e ultima parte, infatti, che le prime due acquistano un senso più profondo e squisitamente narrativo. In sintesi: il riconoscimento di un bisogno nel momento in cui vediamo Akerman scrivere delle lettere, lo spostamento verso la soddisfazione di quel bisogno nel viaggio con il camionista.
Una volta a casa della sua ex amante, vediamo la giovane protagonista avvicinarsi a lei, buttarsi ai suoi piedi, poi far finta di andarsene (è uno scherzo infantile, ma appunto i piaceri dell’infanzia sono la forza principale del racconto). Le due si scambiano pochissime parole. Si guardano prima con occhi divertiti, poi i loro sguardi si fanno gravi, i loro silenzi tristi. Le vediamo sedute a tavola a mangiare pane, burro e nutella. Superata la fame, la ragazza protagonista avvicina una mano al petto dell’amica e le scosta il vestito. Lei fa no con la testa, ma la sua espressione dice altro. Nell’inquadratura successiva sono nude, sul letto, l’una abbracciata all’altra. È una scena lunga. Solo tre inquadrature in dieci minuti. Il sesso è mostrato in modo esplicito, eppure non presenta nulla di pornografico. È un momento di assoluta intimità, ma di un’intimità così vera e nuda da oltrepassare qualsiasi accezione spettacolare.
La prima inquadratura è un totale dalla frontalità geometrica. I corpi vengono mostrati per intero e si dà risalto alla parete bianca che li sovrasta, descrivendo un ambiente minimale e austero. La seconda è un’inquadratura più ravvicinata, leggermente dall’alto, in cui l’attenzione è rivolta ai volti delle due ragazze e ai loro baci. La terza mostra i corpi nuovamente per intero, ma li coglie di tre quarti e si concentra sulla protagonista che riceve un cunnilinguo dall’amica. Due cose colpiscono in questa scena. Anzitutto il movimento dei corpi, che è convulso, disarmonico, irregolare, e che appunto in queste sue irregolarità stabilisce un naturalismo impressionante. In secondo luogo il sonoro, che si presenta tanto vicino alla pelle delle due amanti da sconvolgerci per la sua crudezza. Il suono dei corpi che si strusciano sulle lenzuola e si accarezzano tra di loro è quanto di più difficile da dimenticare di questo film ridotto all’osso, tanto spoglio ed esplicito nei suoi contenuti quanto nei suoi meccanismi formali.
È a partire da questo primo lungometraggio di finzione che si può capire come funziona il cinema di Akerman, in particolare nei suoi film più radicali, quelli degli anni Settanta. Si tratta di concentrarsi su quanto di norma viene ritenuto antipoetico, antiletterario, anticinematografico: portare l’attenzione sulle azioni ripetitive di una casalinga, leggere allo spettatore le lettere di una madre qualsiasi, mostrare il sesso nei suoi tempi dilatati, materiali e psicologici a un tempo. Dare quindi risalto all’ambiente domestico, territorio per eccellenza del femminile e luogo del rimosso per il cinema commerciale. In definitiva, fare cinema con tutto ciò che non è mai appartenuto al cinema.
Un’ultima scena, breve e costituita da una sola inquadratura, chiude Je, tu, il, elle. È mattina e Chantal si alza dal letto. La vediamo in totale che esce ed entra dal campo: scosta le tende per far entrare la luce, raccoglie i suoi vestiti e abbandona la stanza, di soppiatto, senza svegliare l’amica. Seguono i titoli di coda, accompagnati da una filastrocca per bambini (l’ultimo canto di quell’infanzia con cui la protagonista aveva instaurato un rapporto decisivo). Fuori l’appartamento, oltre quella porta da cui una giovane Akerman è uscita, c’è tutto un mondo a venire: il successo nei festival internazionali, la consacrazione a icona del cinema femminile, l’influenza su più generazioni di artisti; ma anche la depressione, la morte della madre, il suicidio. È doloroso abbandonare la propria giovinezza. Gli esordi di Chantal Akerman raccontano questo.
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23.10.2024
Oggi si da inizio alla XVII edizione di Archivio Aperto, il festival bolognese dedicato alla riscoperta del patrimonio cinematografico in piccolo formato - privato, amatoriale, sperimentale, d’artista - e, proprio in occasione della serata d’apertura, saranno proiettati degli inediti lavori della regista belga Chantal Akerman, qui alle prime armi dietro la macchina da presa.
Ripercorrendo gli inizi di una carriera cinematografica possiamo parlare solo in rari casi di un vero e proprio esordio, in senso assoluto e decisivo. Molto più spesso l’esordio va considerato al plurale, come un insieme di diverse prime volte. Questo è senza dubbio il caso della Akerman, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, a cavallo dei suoi vent’anni, muove i primi passi nel cinema. Fino ad oggi Saute ma ville (1968) è stato considerato il suo primo cortometraggio di fiction, Hotel Monterey (1972) il primo lungometraggio documentario e Je, tu, il, elle (1974) il primo lungometraggio a soggetto. Ma di recente sono riemersi quattro filmini realizzati dalla cineasta nell’estate del 1967, a soli diciassette anni. Filmati in bianco e nero e senza sonoro, questi corti vennero presentati per l’ammissione all’Institut Supérieur des Arts du Spectacle (INSAS) di Bruxelles, che Akerman avrebbe poi frequentato solo per pochi mesi.
Si tratta di materiali rimasti a lungo sconosciuti, da poco restaurati da Cinematek e proiettati per la prima volta in Italia. L’evento al Cinema Modernissimo permette quindi di accedere a un lato pre-stilistico della produzione di Chantal Akerman, dove alcuni elementi-chiave dei suoi film a venire sono già presenti, ma in cui manca una loro adeguata costruzione formale. Più che di veri e propri cortometraggi si tratta di home movies in piena regola: il fascino di queste immagini tremolanti in 8mm è da ricercare in quello sguardo vergine e puro che muove il cineamatore. Stan Brakhage parlava a proposito di “una goffaggine ricca di scoperte continue che è bella da vedere.” In effetti, i primi esperimenti di Akerman esprimono con forza questa idea, riuscendo a cogliere elementi della quotidianità femminile con assoluta spontaneità e sapiente leggerezza. Il principio dei suoi esordi va dunque rintracciato in questi film in piccolo formato, testimonianze dirette di un primo approccio alla macchina da presa.
Dove si esaurisce, invece, la forza di un esordio? Prendiamo l’ultima parte di Je, tu, il, elle (1974), che viene generalmente considerato il vero primo film della regista. Questa sezione del racconto è costruita come una conclusione ideale alla sequenza di pronomi del titolo. L’influenza del cinema strutturale americano (che era alla base del precedente Hotel Monterey) si ripresenta proprio in questi accorgimenti di ordine formale a cui Akerman tiene particolarmente. Il film è di fatto costruito per presentare tre temporalità distinte: il tempo interiore della prima parte (momento del je e del tu, perché la protagonista scrive delle lettere, forse a una amante, forse di nuovo a se stessa), tempo esterno della seconda (con il camionista affascinante e rozzo che domina la scena) e il tempo psicologico della terza, in cui l’incontro con un’amica apre il racconto ai meccanismi del sentimento e del sesso. È bene evidenziare che quest’ultima parte è la più pulita e la più luminosa del film. Pulita perché le immagini si impongono ai nostri occhi con particolare nitidezza e cura formale (e questo salta all’occhio specialmente in contrasto alla sezione precedente, dominata da immagini sporche, documentarie). Luminosa per la luce piatta e totalizzante in cui sono immersi i corpi di Chantal Akerman e Claire Wauthion, anche qui in opposizione con quanto mostrato in precedenza (la manomissione dell’otturatore e i conseguenti sbalzi di luce nella prima parte, l’oscurità notturna e granulosa della seconda).
Escludendo una prima inquadratura in cui vediamo la protagonista avvicinarsi al portone di un palazzo, l’intera sequenza si svolge in interni e in particolare in un’unica stanza che comprende letto e tavola da pranzo. Ancora una volta il racconto è segnato dal rapporto che i personaggi instaurano col cibo - come sarà poi anche in Jeanne Dielman (1975). Ma la fame della protagonista rappresenta qualcosa di più del semplice bisogno di mangiare; si tratta piuttosto di una voracità generale, tenera e depressiva, che muove il soggetto a realizzare le sue pulsioni primarie. La fame in questo caso non è solo alimentare, ma anche sessuale e affettiva. Da qui tutta l’essenzialità della storia, che è unicamente il racconto di un bisogno da soddisfare: il bisogno di consumare un rapporto. È solo a partire da questa terza e ultima parte, infatti, che le prime due acquistano un senso più profondo e squisitamente narrativo. In sintesi: il riconoscimento di un bisogno nel momento in cui vediamo Akerman scrivere delle lettere, lo spostamento verso la soddisfazione di quel bisogno nel viaggio con il camionista.
Una volta a casa della sua ex amante, vediamo la giovane protagonista avvicinarsi a lei, buttarsi ai suoi piedi, poi far finta di andarsene (è uno scherzo infantile, ma appunto i piaceri dell’infanzia sono la forza principale del racconto). Le due si scambiano pochissime parole. Si guardano prima con occhi divertiti, poi i loro sguardi si fanno gravi, i loro silenzi tristi. Le vediamo sedute a tavola a mangiare pane, burro e nutella. Superata la fame, la ragazza protagonista avvicina una mano al petto dell’amica e le scosta il vestito. Lei fa no con la testa, ma la sua espressione dice altro. Nell’inquadratura successiva sono nude, sul letto, l’una abbracciata all’altra. È una scena lunga. Solo tre inquadrature in dieci minuti. Il sesso è mostrato in modo esplicito, eppure non presenta nulla di pornografico. È un momento di assoluta intimità, ma di un’intimità così vera e nuda da oltrepassare qualsiasi accezione spettacolare.
La prima inquadratura è un totale dalla frontalità geometrica. I corpi vengono mostrati per intero e si dà risalto alla parete bianca che li sovrasta, descrivendo un ambiente minimale e austero. La seconda è un’inquadratura più ravvicinata, leggermente dall’alto, in cui l’attenzione è rivolta ai volti delle due ragazze e ai loro baci. La terza mostra i corpi nuovamente per intero, ma li coglie di tre quarti e si concentra sulla protagonista che riceve un cunnilinguo dall’amica. Due cose colpiscono in questa scena. Anzitutto il movimento dei corpi, che è convulso, disarmonico, irregolare, e che appunto in queste sue irregolarità stabilisce un naturalismo impressionante. In secondo luogo il sonoro, che si presenta tanto vicino alla pelle delle due amanti da sconvolgerci per la sua crudezza. Il suono dei corpi che si strusciano sulle lenzuola e si accarezzano tra di loro è quanto di più difficile da dimenticare di questo film ridotto all’osso, tanto spoglio ed esplicito nei suoi contenuti quanto nei suoi meccanismi formali.
È a partire da questo primo lungometraggio di finzione che si può capire come funziona il cinema di Akerman, in particolare nei suoi film più radicali, quelli degli anni Settanta. Si tratta di concentrarsi su quanto di norma viene ritenuto antipoetico, antiletterario, anticinematografico: portare l’attenzione sulle azioni ripetitive di una casalinga, leggere allo spettatore le lettere di una madre qualsiasi, mostrare il sesso nei suoi tempi dilatati, materiali e psicologici a un tempo. Dare quindi risalto all’ambiente domestico, territorio per eccellenza del femminile e luogo del rimosso per il cinema commerciale. In definitiva, fare cinema con tutto ciò che non è mai appartenuto al cinema.
Un’ultima scena, breve e costituita da una sola inquadratura, chiude Je, tu, il, elle. È mattina e Chantal si alza dal letto. La vediamo in totale che esce ed entra dal campo: scosta le tende per far entrare la luce, raccoglie i suoi vestiti e abbandona la stanza, di soppiatto, senza svegliare l’amica. Seguono i titoli di coda, accompagnati da una filastrocca per bambini (l’ultimo canto di quell’infanzia con cui la protagonista aveva instaurato un rapporto decisivo). Fuori l’appartamento, oltre quella porta da cui una giovane Akerman è uscita, c’è tutto un mondo a venire: il successo nei festival internazionali, la consacrazione a icona del cinema femminile, l’influenza su più generazioni di artisti; ma anche la depressione, la morte della madre, il suicidio. È doloroso abbandonare la propria giovinezza. Gli esordi di Chantal Akerman raccontano questo.