INT-46
25.09.2023
Una carriera iniziata con la scrittura e la direzione di due episodi del film corale Feisbum (2009) e culminata, nel 2018, con i riconoscimenti ricevuti per il film Fiore Gemello. Nel mezzo l’esordio al lungometraggio con Febbre da Fieno (2011), due corti d’animazione, Bagni (2016) e Sugarlove (2018), e Nudes (2021), una serie televisiva sullo scottante tema del revenge porn. Poco tempo fa, il 24 di Agosto, è uscito nei cinema il suo nuovo film: una libera trasposizione da La Bella Estate di Cesare Pavese - prodotto da Kino e distribuito da Lucky Red - presentato all’ultima edizione del Festival di Locarno.
Ore 19:40. L’incontro avviene in Piazza di Testaccio, prendiamo due bicchieri di Gewurztraminer, uno a testa, mentre il luogo brulica di vita. Una carrozzina che viaggia apparentemente da sola e senza conducente da un’area all’altra della piazza viene rincorsa da una bambina. Laura me lo fa notare e subito sorridiamo. Ci conosciamo da quasi 14 anni e il tempo è volato. Noi siamo cambiati poco. Mi accingo a intervistarla mentre mi sottolinea che tanto vale improntare il nostro incontro su un dialogo aperto. Però io ho le mie domande e dopo un preambolo, ci si arriva.
La prima scintilla, il richiamo alla sceneggiatura e alla regia cinematografica.
Deriva chiaramente dal periodo in cui con mio fratello di quattro anni mettevamo in scena recite delle quali ero anche autrice. I miei genitori sono cantanti d’opera, avevamo a casa dei costumi e scrivevo questi drammi obbligando mio fratello a metterseli addosso. Costringevo tutti a vedere queste “composizioni” che finivano sempre con qualche morte. Nacque da lì la passione del racconto. Ho scritto sempre molti racconti, cercando di dare loro una tridimensionalità, come gli origami. Dopo aver scritto tanti racconti ho pensato poi di arrivare a metterli in scena sotto altre forme, come quella del cinema. Ho imparato facendo molta gavetta, come segretaria o assistente sui set e muovendomi molto negli ambienti dov’è possibile fare conoscenze.
Ma Laura Luchetti chi è? A che punto senti di essere della tua crescita umana e professionale?
Ho la grandissima fortuna di essere su una meravigliosa montagna russa, approfitto di tutti i momenti utili che la vita mi dona. Sono in una grandissima salita di apprendimento. La vita mi ha dato l’opportunità di provare a fare quello che mi piace di più. Mi sento come una pre-adolescente che se la sta godendo e sta imparando a gestire l’altezza, i picchi, i precipizi, le emozioni e le paure. Sono al centro esatto di una curva di conoscenza. Quindi non so dove mi porterà. Sono in un vortice che m’insegna ogni giorno delle cose preziose e utili. Penso “Oddio, come ho fatto” e mentre l’ho fatto ho imparato qualcosa. Sono un’ex secchiona e m’interesso continuamente a tutto ciò che scorgo attorno a me. Non è scontato poter fare le cose che si amano, è un regalo, un dono.
Un’esperienza significativa al di sopra delle parti.
“La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, diceva Ungaretti. Le esperienze sopra le parti sono quelle degli incontri. Sono stata fortunata, incontri durati anche cinque minuti. Persone del mercato, persone in una sartoria. Tanti piccoli incontri del quotidiano, con la possibilità di essere sempre in ascolto. L’ascolto e l’incontro, sono le esperienze di cui gioisco ogni giorno. Ricordo una signora meravigliosa che ad una cena di suore mi ha fatto capire delle cose attraverso una conversazione di mezz’ora, ad esempio. Cose che non sapevo e che non mi aspettavo di scoprire.
Visto e considerato che la tua formazione, se non ricordo male, è più inglese, quali differenze intercorrono ancora oggi con le modalità di pensare il cinema a livello produttivo qui in Italia?
Sono le stesse differenze che ci sono nelle nostre culture. Ho vissuto 13 anni e mezzo in Inghilterra e da lì ho cercato di vedere la nostra cultura con gli occhi di una straniera. Sono in bilico fra le due culture. Due cinematografie diverse e magnifiche che si esprimono in maniere completamente diverse. L’inglese è più organizzato e manca il colpo di genio italico che risolve una problematica con un pizzico di fantasia. Da loro ho imparato un certo rigore nella scrittura: che significa riscrivere, riscrivere e riscrivere. Forse ti rende apparentemente meno creativo che applicata a quell’estro tutto nostro può aiutare. Ne potremmo parlare per tantissimo tempo ma credo che a questa domanda possa rispondere meglio qualcuno che si occupa di produzione o co-produzione internazionale. La maniera in cui gli anglosassoni scrivono, con quel rigore, con quella disciplina, e con la capacità che hanno di saper sorridere delle loro tragedie, è forse la differenza più tangibile, mentre noi non so se siamo ancora in grado di sorridere sulle nostre disgrazie. Abbiamo un altro spirito. Con questo non intendo dire che dovremmo cercare di imitare gli inglesi. Significa cercare di essere internazionali, o meglio universali, cercando di essere specifici. Mettere al centro le nostre specificità.
Come ti muovi tra progetti così diversi a livello produttivo-realizzativo. Ti ci senti a tuo agio o a volte senti che a predominare sull’esigenza espressiva sia quella economica? Ti è capitato almeno una volta?
Sono molto fortunata. Sono riuscita a fare sempre cose molto piccole con modestia. Raccontare storie e aneddoti è la cosa che mi piace più al mondo e si può declinare in vesti e generi differenti. Se ci riesco poi non lo so, ma non è importante per me questo. L’entusiasmo di raccontare viene sempre prima e un poco mi acceca. Dieci anni fa mi dicevano che non potevo fare tutto, perché sono sempre stata considerata eclettica, e questo era considerato come un problema. Oggi invece accade il contrario, quello che sembrava essere un difetto, oggi si è tramutato in pregio e mi giungono proposte piuttosto diversificate. La sintesi dell’esperienza è nel momento ed è lì che bisogna coglierla.
Uno o più film che hanno segnato il tuo immaginario cinematografico.
Tutto Kubrick. Fellini. Il Bell’Antonio di Mauro Bolognini. Elio Petri. James Ivory. L’animazione di Butch Hartman. Mi piace tornare al cinema muto, spesso la sera assieme a mia figlia ci mettiamo a guardare film degli anni ‘20. Io sono onnivora, adoro spaziare. Mi appassiona il cinema giapponese, Kurosawa soprattutto. Ma la mia più grande fonte d’ispirazione è la fotografia.
Raccontaci qualche aneddoto avvenuto sul set di questi tuoi primi film.
Non te li ricordi mai. Sono cose che fanno ridere solo quelli che stanno sul set, quando accadono sul momento, quando meno te lo aspetti. Accadono imprevisti ed è sempre adrenalinico stare lì e risolverli, quando hai poco tempo. Io sono una che fa sempre degli scherzi. Rido molto, dò soprannomi, mi piace essere la madre di tutti. Di aneddoti ce ne sarebbero mille ma sono sciocchi e preferisco lasciarli riservati e custoditi alla dimensione del set.
In quale direzione senti che sta andando, il cinema italiano?
Non lo so tanto bene. Il cinema italiano è di nuovo su un’onda di apprezzamento internazionale. Il cinema italiano viene visto all’estero. Il modo di raccontare italiano è in una fase di rinascita. Dentro tanti generi, tanti mondi, tante età. Non esiste il cinema italiano, esiste il modo di fare cinema all’italiana. C’è il cinema di Alice Rohrwacher che è il ritorno al racconto rurale, naturalistico, c’è Paolo Sorrentino che ha un suo stile personale. Un Garrone, un Sorrentino e una Rohrwacher hanno caratteristiche divergenti ma ciò che li accomuna è che riescono ad essere internazionali.
Un film che avresti voluto dirigere. Un attore o attrice che vorresti dirigere e che probabilmente dirigerai.
Un attore che vorrei tanto dirigere è James McAvoy. Ed ho tre film che avrei voluto dirigere: Lolita di Kubrick, La Mia Africa di Sydney Pollack e Society. Il terzo in particolare, di Brian Yuzna, è una delle più grandi analisi della borghesia mai fatte. Poi sicuramente considererei in tal senso qualche film di Ingmar Bergman.
Qualche parola riguardo il tuo nuovo film.
La Bella Estate è un umilissimo adattamento della meravigliosa novella che Cesare Pavese scrisse nel 1949. Il racconto di una ragazza che cerca di capire se amare un uomo o una donna. Trattato con una forza e una delicatezza da Pavese che noi, con grande umiltà, abbiamo cercato di mettere in scena. La storia universale della post-adolescenza in cui ci si trova di fronte a un bivio, nel quale si sceglie chi e come amare. Era impossibile non innamorarsi di un racconto così e preventivabile esserne terrorizzati. C’è una meravigliosa Yile Yara Vianello come protagonista, che ha lavorato con la Rohrwacher in Corpo Celeste. C’è un cast di giovanissimi attori, molti dei quali al debutto, che hanno fatto un lavoro sorprendente. Ho amato ancora di più Pavese quando ho letto questa sua frase: “L’adolescenza è l’età che amo di più perché è quella che più a lungo è vissuta dentro di noi”.
INT-46
25.09.2023
Una carriera iniziata con la scrittura e la direzione di due episodi del film corale Feisbum (2009) e culminata, nel 2018, con i riconoscimenti ricevuti per il film Fiore Gemello. Nel mezzo l’esordio al lungometraggio con Febbre da Fieno (2011), due corti d’animazione, Bagni (2016) e Sugarlove (2018), e Nudes (2021), una serie televisiva sullo scottante tema del revenge porn. Poco tempo fa, il 24 di Agosto, è uscito nei cinema il suo nuovo film: una libera trasposizione da La Bella Estate di Cesare Pavese - prodotto da Kino e distribuito da Lucky Red - presentato all’ultima edizione del Festival di Locarno.
Ore 19:40. L’incontro avviene in Piazza di Testaccio, prendiamo due bicchieri di Gewurztraminer, uno a testa, mentre il luogo brulica di vita. Una carrozzina che viaggia apparentemente da sola e senza conducente da un’area all’altra della piazza viene rincorsa da una bambina. Laura me lo fa notare e subito sorridiamo. Ci conosciamo da quasi 14 anni e il tempo è volato. Noi siamo cambiati poco. Mi accingo a intervistarla mentre mi sottolinea che tanto vale improntare il nostro incontro su un dialogo aperto. Però io ho le mie domande e dopo un preambolo, ci si arriva.
La prima scintilla, il richiamo alla sceneggiatura e alla regia cinematografica.
Deriva chiaramente dal periodo in cui con mio fratello di quattro anni mettevamo in scena recite delle quali ero anche autrice. I miei genitori sono cantanti d’opera, avevamo a casa dei costumi e scrivevo questi drammi obbligando mio fratello a metterseli addosso. Costringevo tutti a vedere queste “composizioni” che finivano sempre con qualche morte. Nacque da lì la passione del racconto. Ho scritto sempre molti racconti, cercando di dare loro una tridimensionalità, come gli origami. Dopo aver scritto tanti racconti ho pensato poi di arrivare a metterli in scena sotto altre forme, come quella del cinema. Ho imparato facendo molta gavetta, come segretaria o assistente sui set e muovendomi molto negli ambienti dov’è possibile fare conoscenze.
Ma Laura Luchetti chi è? A che punto senti di essere della tua crescita umana e professionale?
Ho la grandissima fortuna di essere su una meravigliosa montagna russa, approfitto di tutti i momenti utili che la vita mi dona. Sono in una grandissima salita di apprendimento. La vita mi ha dato l’opportunità di provare a fare quello che mi piace di più. Mi sento come una pre-adolescente che se la sta godendo e sta imparando a gestire l’altezza, i picchi, i precipizi, le emozioni e le paure. Sono al centro esatto di una curva di conoscenza. Quindi non so dove mi porterà. Sono in un vortice che m’insegna ogni giorno delle cose preziose e utili. Penso “Oddio, come ho fatto” e mentre l’ho fatto ho imparato qualcosa. Sono un’ex secchiona e m’interesso continuamente a tutto ciò che scorgo attorno a me. Non è scontato poter fare le cose che si amano, è un regalo, un dono.
Un’esperienza significativa al di sopra delle parti.
“La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, diceva Ungaretti. Le esperienze sopra le parti sono quelle degli incontri. Sono stata fortunata, incontri durati anche cinque minuti. Persone del mercato, persone in una sartoria. Tanti piccoli incontri del quotidiano, con la possibilità di essere sempre in ascolto. L’ascolto e l’incontro, sono le esperienze di cui gioisco ogni giorno. Ricordo una signora meravigliosa che ad una cena di suore mi ha fatto capire delle cose attraverso una conversazione di mezz’ora, ad esempio. Cose che non sapevo e che non mi aspettavo di scoprire.
Visto e considerato che la tua formazione, se non ricordo male, è più inglese, quali differenze intercorrono ancora oggi con le modalità di pensare il cinema a livello produttivo qui in Italia?
Sono le stesse differenze che ci sono nelle nostre culture. Ho vissuto 13 anni e mezzo in Inghilterra e da lì ho cercato di vedere la nostra cultura con gli occhi di una straniera. Sono in bilico fra le due culture. Due cinematografie diverse e magnifiche che si esprimono in maniere completamente diverse. L’inglese è più organizzato e manca il colpo di genio italico che risolve una problematica con un pizzico di fantasia. Da loro ho imparato un certo rigore nella scrittura: che significa riscrivere, riscrivere e riscrivere. Forse ti rende apparentemente meno creativo che applicata a quell’estro tutto nostro può aiutare. Ne potremmo parlare per tantissimo tempo ma credo che a questa domanda possa rispondere meglio qualcuno che si occupa di produzione o co-produzione internazionale. La maniera in cui gli anglosassoni scrivono, con quel rigore, con quella disciplina, e con la capacità che hanno di saper sorridere delle loro tragedie, è forse la differenza più tangibile, mentre noi non so se siamo ancora in grado di sorridere sulle nostre disgrazie. Abbiamo un altro spirito. Con questo non intendo dire che dovremmo cercare di imitare gli inglesi. Significa cercare di essere internazionali, o meglio universali, cercando di essere specifici. Mettere al centro le nostre specificità.
Come ti muovi tra progetti così diversi a livello produttivo-realizzativo. Ti ci senti a tuo agio o a volte senti che a predominare sull’esigenza espressiva sia quella economica? Ti è capitato almeno una volta?
Sono molto fortunata. Sono riuscita a fare sempre cose molto piccole con modestia. Raccontare storie e aneddoti è la cosa che mi piace più al mondo e si può declinare in vesti e generi differenti. Se ci riesco poi non lo so, ma non è importante per me questo. L’entusiasmo di raccontare viene sempre prima e un poco mi acceca. Dieci anni fa mi dicevano che non potevo fare tutto, perché sono sempre stata considerata eclettica, e questo era considerato come un problema. Oggi invece accade il contrario, quello che sembrava essere un difetto, oggi si è tramutato in pregio e mi giungono proposte piuttosto diversificate. La sintesi dell’esperienza è nel momento ed è lì che bisogna coglierla.
Uno o più film che hanno segnato il tuo immaginario cinematografico.
Tutto Kubrick. Fellini. Il Bell’Antonio di Mauro Bolognini. Elio Petri. James Ivory. L’animazione di Butch Hartman. Mi piace tornare al cinema muto, spesso la sera assieme a mia figlia ci mettiamo a guardare film degli anni ‘20. Io sono onnivora, adoro spaziare. Mi appassiona il cinema giapponese, Kurosawa soprattutto. Ma la mia più grande fonte d’ispirazione è la fotografia.
Raccontaci qualche aneddoto avvenuto sul set di questi tuoi primi film.
Non te li ricordi mai. Sono cose che fanno ridere solo quelli che stanno sul set, quando accadono sul momento, quando meno te lo aspetti. Accadono imprevisti ed è sempre adrenalinico stare lì e risolverli, quando hai poco tempo. Io sono una che fa sempre degli scherzi. Rido molto, dò soprannomi, mi piace essere la madre di tutti. Di aneddoti ce ne sarebbero mille ma sono sciocchi e preferisco lasciarli riservati e custoditi alla dimensione del set.
In quale direzione senti che sta andando, il cinema italiano?
Non lo so tanto bene. Il cinema italiano è di nuovo su un’onda di apprezzamento internazionale. Il cinema italiano viene visto all’estero. Il modo di raccontare italiano è in una fase di rinascita. Dentro tanti generi, tanti mondi, tante età. Non esiste il cinema italiano, esiste il modo di fare cinema all’italiana. C’è il cinema di Alice Rohrwacher che è il ritorno al racconto rurale, naturalistico, c’è Paolo Sorrentino che ha un suo stile personale. Un Garrone, un Sorrentino e una Rohrwacher hanno caratteristiche divergenti ma ciò che li accomuna è che riescono ad essere internazionali.
Un film che avresti voluto dirigere. Un attore o attrice che vorresti dirigere e che probabilmente dirigerai.
Un attore che vorrei tanto dirigere è James McAvoy. Ed ho tre film che avrei voluto dirigere: Lolita di Kubrick, La Mia Africa di Sydney Pollack e Society. Il terzo in particolare, di Brian Yuzna, è una delle più grandi analisi della borghesia mai fatte. Poi sicuramente considererei in tal senso qualche film di Ingmar Bergman.
Qualche parola riguardo il tuo nuovo film.
La Bella Estate è un umilissimo adattamento della meravigliosa novella che Cesare Pavese scrisse nel 1949. Il racconto di una ragazza che cerca di capire se amare un uomo o una donna. Trattato con una forza e una delicatezza da Pavese che noi, con grande umiltà, abbiamo cercato di mettere in scena. La storia universale della post-adolescenza in cui ci si trova di fronte a un bivio, nel quale si sceglie chi e come amare. Era impossibile non innamorarsi di un racconto così e preventivabile esserne terrorizzati. C’è una meravigliosa Yile Yara Vianello come protagonista, che ha lavorato con la Rohrwacher in Corpo Celeste. C’è un cast di giovanissimi attori, molti dei quali al debutto, che hanno fatto un lavoro sorprendente. Ho amato ancora di più Pavese quando ho letto questa sua frase: “L’adolescenza è l’età che amo di più perché è quella che più a lungo è vissuta dentro di noi”.