di Lorenzo Nuzzo
NC-213
07.06.2024
C’è un preciso frame in All of us strangers (Estranei, 2023) che fotografa forse più di qualsiasi altro la poetica del cinema di Andrew Haigh. Ed è quando il personaggio di Adam fa ritorno a Sunderstead, nel luogo della sua infanzia, osservato in semi-soggettiva mentre guarda davanti a sé la vecchia casa con in mano una fotografia della stessa. Sembra volersi sincerare che tutto, o quasi, in quel posto sia rimasto uguale a prima, identico ai ricordi che ne conserva.
La casa di Adam è, in realtà, quella di Haigh e la messinscena di All of us strangers forse non è che il pretesto del suo autore per tornarvi; l’alibi perfetto per un’elaborazione emotiva tra la memoria puerile di ieri e i fantasmi dell’oggi. Tanto che, quando al BFI London Film Festival 2023 chiedono ad Haigh le ragioni di questo “ritorno a casa”, lui risponde serenamente accennando alla storia di qualcuno che torna indietro nel tempo, essenzialmente per comprendere meglio le cose e riconnettersi con il proprio passato. E il passato di Adam è quella casa dove aveva vissuto fino ai dodici anni, nell’infanzia sospesa dalla morte dei genitori. Da lì in poi il rimosso, null’altro che una fotografia sbiadita da portare con sé, perché le immagini - per dirla alla Didi Hubermann - hanno più memoria di colui che le guarda.
Ma la poetica umanista di Andrew Haigh non vede di certo il suo inizio con All of us strangers - adattamento pregevole dell’omonimo romanzo di Taichi Kamada datato 1987 - che deve alcune delle sue virtù proprio a quei sentieri circolari che attraversano l’opera dell’autore inglese.
Fin dal suo esordio nella finzione con Weekend (2011), piccolo manifesto del cinema queer, possiamo osservare come l’Adam di Andrew Scott - protagonista di All of us strangers - sia una sorta di “prolungamento” del Russel di Tom Cullen, lungo il filo di una sottesa conversazione tra i due film. Storie, entrambe, di ragazzi omosessuali: introverse figure malinconiche scrutate nella solitaria elevazione urbana dei loro appartamenti.
È la città il loro posto sicuro a riparo dalle ombre, quel limbo dove finisce la paura del giudizio e inizia quella di sentirsi soli al mondo. Nottingham in Weekend; Londra in All of us strangers . L’urbano come specchio dei caratteri. Lo sa bene Andrew Haigh quando parlando del sobborgo di Stratford - luogo dove vive Adam - in un’intervista per Letterbox racconta di un quartiere che cerca di rappresentare una “nuova comunità” nonostante non sia ancora in armonia con il mondo circostante.
E così Adam e Russell, che sperano nella stessa disperata armonia, con il paesaggio urbano, con l’Altro, con il sé, oltre i limiti del falso Io che si sono costruiti per fronteggiare la legge del Padre, nel frattempo trovano consolazione in una camera da letto con amori nati da brevi incontri, spogliati sotto lenzuola che lasciano un po’ di spazio alla verbosità di intime confessioni. Adam ha perso i genitori a dodici anni dopo un incidente, Russel non li ha mai conosciuti. Ecco, dunque, che All of us strangers sembra volgere lo sguardo al primo Haigh del mini-cult Weekend, e insieme confeziona un’inedita atmosfera intrisa di misticismo e autorialità.
Nell’ultima fatica di Haigh il passato ritorna a galla nascosto sotto le forme dello slow cinema e, allo sguardo delicato sugli albori di un amore, affianca una sorprendente vocazione per il fantastico, nelle costanti tra l’infanzia e l’età adulta, tra il tempo che fu e quello che è adesso, nella rarefazione di un istante che svela il desiderio: quello di Adam di rivivere le ultime volte con i propri genitori. Che sia la decorazione dell’albero di Natale inteso come frammento esclusivo di tenerezza paterna, oppure l’ultima notte nel lettone matrimoniale, quando gli incubi non lasciano dormire e le sussurrate parole della mamma sono lì a coccolarlo.
In All of us strangers l’infanzia ha il gusto di un’allucinazione percettiva: una stupefacente estasi resa nella straordinaria sequenza in discoteca sulle sonorità di Death of a party dei Blur, dove è il fidanzato Harry - incarnato nel sensuale physique du rôle di Paul Mescal - a traghettare Adam tra i fantasmi di quando era bambino, e a riportarlo a casa mano nella mano quando questi fanno troppo rumore. Harry è affascinante, espansivo e il suo corpo trasuda una virilità nuova e insieme familiare ai sensi di Adam, che nel personaggio di Mescal vede la proiezione fantasmatica di suo padre (uno strepitoso Jamie Bell) per la somiglianza dei caratteri - entrambi castani, baffuti e caratterizzati da una mascolinità più canonica della sua - ma anche per quella capacità di ascoltare e accudire le sue ombre che a stento aveva trovato nell’incurvabile conservatorismo del padre.
La coppia viene allora intesa da Haigh come albore di una terapia e messa a fuoco dei limiti, dove anche il sesso si fa espediente narrativo che spoglia emotivamente i caratteri, aggrovigliati tra lenzuola calde per rasserenare i corpi. È qui che Adam ed Harry si scambiano i vissuti, e insieme resistono, mentre risuona The power of love dei Frankie Goes to Hollywood, perché la musica è indice, la musica è significato nell’opera di Andrew Haigh. E la frase citata dal protagonista «Ti proteggerò dall’Artiglio Incappucciato, scaccerò i vampiri dalla tua porta» pare piuttosto la proposta per un nuovo intrigante domani, fantasticato dalla camera da letto dei due amanti che nel finale risplende come la stella più luminosa del firmamento.
Ma tra l’assunzione delle grandi consapevolezze sulla propria sessualità in Weekend e la costruzione del (vero) Sé in Estranei ci sono di mezzo dodici anni in cui il regista ha saputo affinare i contorni di un cinema dall’estrema sensibilità. Permeato sulla memoria di mancanze che sanno scompigliare il presente con i loro fantasmi, guarda alla morte di un padre a cui non poter più consegnare gli ideali, come per Charley in Lean on Pete (Charley Thompson, 2018), o all’ombra di una prima moglie con la quale Kate, protagonista di 45 Years (45 anni, 2015), deve fare i conti. Basta giusto un fatto - a volte persino piccolo, giudicato insulso - a rovesciare il loro quotidiano nel baratro di nuove (in)consapevolezze.
Nel cinema dell’autore inglese il tempo è ristretto, smussa gli umori e lascia sprofondare i caratteri. Succede in 45 Years quando nella posta di Kate e Geoff (Charlotte Rampling e Tom Courtenay premiati a Berlino nel 2015 per la migliore interpretazione), a pochi giorni dal loro quarantacinquesimo anniversario di nozze arriva una lettera che annuncia il ritrovamento del corpo di Katia, prima fidanzata di Geoff dispersa durante un’escursione nelle alpi svizzere cinquant’anni prima.
Darà il via a un dramma da camera forgiato sul doppio: il salotto di una casa in campagna dove consumare la lieta vita coniugale e la soffitta dove invece tenere i segreti impolverati, null’altro che simulacri della nostalgica giovinezza di Geoff. Ma soprattutto il fuoricampo di una prima fidanzata, Katya, della quale Kate non può che essere il surrogato linguistico e amoroso, l’ombra di un fantasma che ha sempre vegliato sul loro matrimonio.
A cominciare dalla musica che per anni ha riempito il quotidiano di Geoff - e Kate di riflesso - con le canzoni di Elton John: faro artistico e ideologico per un progressista e anti-tatcheriano fervente come il personaggio di Tom Courtenay. Geoff è uno che «mette troppa passione in quello che fa», dice di lui sua moglie, fidata compagna che durante gli anni insieme non ha potuto fare a meno di seguirlo nei consensi e nelle decisioni.
Ma ben presto la passione reclama il tormento quando, dopo la notizia del ritrovamento del corpo di Katya, Geoff rivede ogni sua abitudine in virtù della memoria angosciosa di quell’evento. E così anche tutti i suoi interessi iniziano a sembrare retroattivamente tracce lasciate dall’amore giovanile per la sua prima fidanzata, per cui provare a leggere Kierkegaard in salotto o dedicarsi d’improvviso a testi sul cambiamento climatico non sono altro che tentativi di omaggiare quel che resta del ricordo della sua adorata.
Quando Kate lo capisce, sceglie di fare tabula rasa di tutti i gusti e le inclinazioni che fino a quel momento le sembravano consolidati, naturali, imprescindibili nel loro matrimonio. E lo suggerisce in una scena scritta magistralmente, dove la protagonista è al telefono con il DJ della festa di nozze, che le chiede quali canzoni riprodurre. Lei prima cita soltanto brani di artisti folk e soul - dopo una vita passata ad ascoltare il pop rock di Gary Puckett & The Union Gap - poi, quando dall’altra parte della cornetta le viene fatto il nome di Elton John, Kate, mai così risoluta, risponde: «No, niente Elton John».
È la fine delle illusioni e l’inizio di una coscienza stoica e post-ideologica, tutta racchiusa nel volto amabilmente corrugato di Charlotte Rampling, che vale alla sua Kate l’egemonia del profilmico. La solida regia di Haigh (qui lontana dall’uso quasi smodato della macchina a mano in Weekend) ne fa il suo feticcio o, meglio, il complice sincero di quei paesaggi rurali dediti al maturare delle consapevolezze, che sono più forti con l’avvicinarsi dell’anniversario di nozze. Talmente tanto che solo a uno sguardo distratto l’epilogo sembrerà inconcluso, forse poco graffiante, ma in quel ballo a luce bluastra tra i due coniugi, sulle note di Smoke Gets in Your Eyes dei Platters, affiora tutta la malinconia di una moglie che ha amato tanto, ma forse sente che non è bastato.
Andrew Haigh è quanto mai un autore coniugale, che sa spingersi oltre ogni stringente questione di sesso o genere. Proprio come la sua poetica, sconfinata nella serialità televisiva quando viene chiamato a dirigere alcuni episodi di Looking (2014-2015), una comedy targata HBO su un gruppo di giovani amici gay che vivono a San Francisco, città- specchio di uomini benevoli alla ricerca di qualcosa: un amore, un’avventura o semplicemente una certa idea di casa.
Ed è proprio il ritorno a casa la parabola metafisica che il suo cinema insegue. Casa intesa come culla delle nostre identità, l’abitacolo del sé, inizio e fine della giovinezza. Quasi mai è un ritorno lieto, tranne che per un caso – ma è tutto fuorché una casualità – quello del sedicenne Charley in Leon on Pete (Charley Thompson, 2017), giovane eroe americano della frontiera, che rimasto orfano del padre, parte da Portland con solo un furgone e un cavallo da corsa alla ricerca di un’amata zia nel Wyoming, a Laramie. Nel mezzo una tassonomia di personaggi e incontri tutt’altro che rassicuranti, tra cui quello con un eccezionale (falso) mentore come Steve Buscemi, qui in veste di addestratore di cavalli avido e burbero, che offre a Charley un lavoro nel suo ippodromo. Nascerà una profonda empatia tra il giovane e il cavallo Lean on Pete, anima docile e dimenticata proprio come lui.
Ben presto, però, si capisce come la sfortuna di Charley sia più forte del suo coraggio e dopo la morte del padre le linee western adagiate sugli spazi della frontiera cederanno il passo alla sequenzialità del road movie, in un coming of age (mancato) plasmato sul grande topos dell’immaginario americano: il ritorno a casa. Solo la zia Margy è rimasta a Charley, lasciata all’età di dodici anni, la stessa in cui Adam ha perso i genitori in All of us strangers. Proprio con l’ultimo lavoro del cineasta Leon on Pete condivide lo sguardo sull’inadeguatezza dei padri, così vulnerabili dietro l’impenetrabilità del loro orgoglio. Sono uomini che amano male, i figli e forse anche le donne. Eppure, ci provano, guadagnandosi l’autorità genitoriale prima che il destino li renda fantasmi per l’avvenire.
La fine dell’infanzia è il crocevia di una crescita nell’opera di Haigh, che lascia i colori tenui della campagna inglese per una storia americana (adattata dal romanzo di Willy Vlautin La ballata di Charley Thompson) dagli echi del cinema indie seppur con i guizzi di quello europeo (i silenziosi primi piani e i piani sequenza). Forse la regia è fin troppo aggraziata per le derive della wilderness americana, ma non si possono omettere i meriti di un autore che ha iniziato la sua carriera misurandosi con i linguaggi queer per sconfinare nel mélo fantastico, passando per il dramma intimista e il racconto di formazione made in Usa.
In tutti questi tragitti l’estetica di Andrew Haigh non si è mai snaturata, rimanendo salda a un cinema di fantasmi dove passato e presente sembrano separati soltanto da un battito di palpebre, un attimo fulmineo proprio come una corsa di cavalli nel west.
di Lorenzo Nuzzo
NC-213
07.06.2024
C’è un preciso frame in All of us strangers (Estranei, 2023) che fotografa forse più di qualsiasi altro la poetica del cinema di Andrew Haigh. Ed è quando il personaggio di Adam fa ritorno a Sunderstead, nel luogo della sua infanzia, osservato in semi-soggettiva mentre guarda davanti a sé la vecchia casa con in mano una fotografia della stessa. Sembra volersi sincerare che tutto, o quasi, in quel posto sia rimasto uguale a prima, identico ai ricordi che ne conserva.
La casa di Adam è, in realtà, quella di Haigh e la messinscena di All of us strangers forse non è che il pretesto del suo autore per tornarvi; l’alibi perfetto per un’elaborazione emotiva tra la memoria puerile di ieri e i fantasmi dell’oggi. Tanto che, quando al BFI London Film Festival 2023 chiedono ad Haigh le ragioni di questo “ritorno a casa”, lui risponde serenamente accennando alla storia di qualcuno che torna indietro nel tempo, essenzialmente per comprendere meglio le cose e riconnettersi con il proprio passato. E il passato di Adam è quella casa dove aveva vissuto fino ai dodici anni, nell’infanzia sospesa dalla morte dei genitori. Da lì in poi il rimosso, null’altro che una fotografia sbiadita da portare con sé, perché le immagini - per dirla alla Didi Hubermann - hanno più memoria di colui che le guarda.
Ma la poetica umanista di Andrew Haigh non vede di certo il suo inizio con All of us strangers - adattamento pregevole dell’omonimo romanzo di Taichi Kamada datato 1987 - che deve alcune delle sue virtù proprio a quei sentieri circolari che attraversano l’opera dell’autore inglese.
Fin dal suo esordio nella finzione con Weekend (2011), piccolo manifesto del cinema queer, possiamo osservare come l’Adam di Andrew Scott - protagonista di All of us strangers - sia una sorta di “prolungamento” del Russel di Tom Cullen, lungo il filo di una sottesa conversazione tra i due film. Storie, entrambe, di ragazzi omosessuali: introverse figure malinconiche scrutate nella solitaria elevazione urbana dei loro appartamenti.
È la città il loro posto sicuro a riparo dalle ombre, quel limbo dove finisce la paura del giudizio e inizia quella di sentirsi soli al mondo. Nottingham in Weekend; Londra in All of us strangers . L’urbano come specchio dei caratteri. Lo sa bene Andrew Haigh quando parlando del sobborgo di Stratford - luogo dove vive Adam - in un’intervista per Letterbox racconta di un quartiere che cerca di rappresentare una “nuova comunità” nonostante non sia ancora in armonia con il mondo circostante.
E così Adam e Russell, che sperano nella stessa disperata armonia, con il paesaggio urbano, con l’Altro, con il sé, oltre i limiti del falso Io che si sono costruiti per fronteggiare la legge del Padre, nel frattempo trovano consolazione in una camera da letto con amori nati da brevi incontri, spogliati sotto lenzuola che lasciano un po’ di spazio alla verbosità di intime confessioni. Adam ha perso i genitori a dodici anni dopo un incidente, Russel non li ha mai conosciuti. Ecco, dunque, che All of us strangers sembra volgere lo sguardo al primo Haigh del mini-cult Weekend, e insieme confeziona un’inedita atmosfera intrisa di misticismo e autorialità.
Nell’ultima fatica di Haigh il passato ritorna a galla nascosto sotto le forme dello slow cinema e, allo sguardo delicato sugli albori di un amore, affianca una sorprendente vocazione per il fantastico, nelle costanti tra l’infanzia e l’età adulta, tra il tempo che fu e quello che è adesso, nella rarefazione di un istante che svela il desiderio: quello di Adam di rivivere le ultime volte con i propri genitori. Che sia la decorazione dell’albero di Natale inteso come frammento esclusivo di tenerezza paterna, oppure l’ultima notte nel lettone matrimoniale, quando gli incubi non lasciano dormire e le sussurrate parole della mamma sono lì a coccolarlo.
In All of us strangers l’infanzia ha il gusto di un’allucinazione percettiva: una stupefacente estasi resa nella straordinaria sequenza in discoteca sulle sonorità di Death of a party dei Blur, dove è il fidanzato Harry - incarnato nel sensuale physique du rôle di Paul Mescal - a traghettare Adam tra i fantasmi di quando era bambino, e a riportarlo a casa mano nella mano quando questi fanno troppo rumore. Harry è affascinante, espansivo e il suo corpo trasuda una virilità nuova e insieme familiare ai sensi di Adam, che nel personaggio di Mescal vede la proiezione fantasmatica di suo padre (uno strepitoso Jamie Bell) per la somiglianza dei caratteri - entrambi castani, baffuti e caratterizzati da una mascolinità più canonica della sua - ma anche per quella capacità di ascoltare e accudire le sue ombre che a stento aveva trovato nell’incurvabile conservatorismo del padre.
La coppia viene allora intesa da Haigh come albore di una terapia e messa a fuoco dei limiti, dove anche il sesso si fa espediente narrativo che spoglia emotivamente i caratteri, aggrovigliati tra lenzuola calde per rasserenare i corpi. È qui che Adam ed Harry si scambiano i vissuti, e insieme resistono, mentre risuona The power of love dei Frankie Goes to Hollywood, perché la musica è indice, la musica è significato nell’opera di Andrew Haigh. E la frase citata dal protagonista «Ti proteggerò dall’Artiglio Incappucciato, scaccerò i vampiri dalla tua porta» pare piuttosto la proposta per un nuovo intrigante domani, fantasticato dalla camera da letto dei due amanti che nel finale risplende come la stella più luminosa del firmamento.
Ma tra l’assunzione delle grandi consapevolezze sulla propria sessualità in Weekend e la costruzione del (vero) Sé in Estranei ci sono di mezzo dodici anni in cui il regista ha saputo affinare i contorni di un cinema dall’estrema sensibilità. Permeato sulla memoria di mancanze che sanno scompigliare il presente con i loro fantasmi, guarda alla morte di un padre a cui non poter più consegnare gli ideali, come per Charley in Lean on Pete (Charley Thompson, 2018), o all’ombra di una prima moglie con la quale Kate, protagonista di 45 Years (45 anni, 2015), deve fare i conti. Basta giusto un fatto - a volte persino piccolo, giudicato insulso - a rovesciare il loro quotidiano nel baratro di nuove (in)consapevolezze.
Nel cinema dell’autore inglese il tempo è ristretto, smussa gli umori e lascia sprofondare i caratteri. Succede in 45 Years quando nella posta di Kate e Geoff (Charlotte Rampling e Tom Courtenay premiati a Berlino nel 2015 per la migliore interpretazione), a pochi giorni dal loro quarantacinquesimo anniversario di nozze arriva una lettera che annuncia il ritrovamento del corpo di Katia, prima fidanzata di Geoff dispersa durante un’escursione nelle alpi svizzere cinquant’anni prima.
Darà il via a un dramma da camera forgiato sul doppio: il salotto di una casa in campagna dove consumare la lieta vita coniugale e la soffitta dove invece tenere i segreti impolverati, null’altro che simulacri della nostalgica giovinezza di Geoff. Ma soprattutto il fuoricampo di una prima fidanzata, Katya, della quale Kate non può che essere il surrogato linguistico e amoroso, l’ombra di un fantasma che ha sempre vegliato sul loro matrimonio.
A cominciare dalla musica che per anni ha riempito il quotidiano di Geoff - e Kate di riflesso - con le canzoni di Elton John: faro artistico e ideologico per un progressista e anti-tatcheriano fervente come il personaggio di Tom Courtenay. Geoff è uno che «mette troppa passione in quello che fa», dice di lui sua moglie, fidata compagna che durante gli anni insieme non ha potuto fare a meno di seguirlo nei consensi e nelle decisioni.
Ma ben presto la passione reclama il tormento quando, dopo la notizia del ritrovamento del corpo di Katya, Geoff rivede ogni sua abitudine in virtù della memoria angosciosa di quell’evento. E così anche tutti i suoi interessi iniziano a sembrare retroattivamente tracce lasciate dall’amore giovanile per la sua prima fidanzata, per cui provare a leggere Kierkegaard in salotto o dedicarsi d’improvviso a testi sul cambiamento climatico non sono altro che tentativi di omaggiare quel che resta del ricordo della sua adorata.
Quando Kate lo capisce, sceglie di fare tabula rasa di tutti i gusti e le inclinazioni che fino a quel momento le sembravano consolidati, naturali, imprescindibili nel loro matrimonio. E lo suggerisce in una scena scritta magistralmente, dove la protagonista è al telefono con il DJ della festa di nozze, che le chiede quali canzoni riprodurre. Lei prima cita soltanto brani di artisti folk e soul - dopo una vita passata ad ascoltare il pop rock di Gary Puckett & The Union Gap - poi, quando dall’altra parte della cornetta le viene fatto il nome di Elton John, Kate, mai così risoluta, risponde: «No, niente Elton John».
È la fine delle illusioni e l’inizio di una coscienza stoica e post-ideologica, tutta racchiusa nel volto amabilmente corrugato di Charlotte Rampling, che vale alla sua Kate l’egemonia del profilmico. La solida regia di Haigh (qui lontana dall’uso quasi smodato della macchina a mano in Weekend) ne fa il suo feticcio o, meglio, il complice sincero di quei paesaggi rurali dediti al maturare delle consapevolezze, che sono più forti con l’avvicinarsi dell’anniversario di nozze. Talmente tanto che solo a uno sguardo distratto l’epilogo sembrerà inconcluso, forse poco graffiante, ma in quel ballo a luce bluastra tra i due coniugi, sulle note di Smoke Gets in Your Eyes dei Platters, affiora tutta la malinconia di una moglie che ha amato tanto, ma forse sente che non è bastato.
Andrew Haigh è quanto mai un autore coniugale, che sa spingersi oltre ogni stringente questione di sesso o genere. Proprio come la sua poetica, sconfinata nella serialità televisiva quando viene chiamato a dirigere alcuni episodi di Looking (2014-2015), una comedy targata HBO su un gruppo di giovani amici gay che vivono a San Francisco, città- specchio di uomini benevoli alla ricerca di qualcosa: un amore, un’avventura o semplicemente una certa idea di casa.
Ed è proprio il ritorno a casa la parabola metafisica che il suo cinema insegue. Casa intesa come culla delle nostre identità, l’abitacolo del sé, inizio e fine della giovinezza. Quasi mai è un ritorno lieto, tranne che per un caso – ma è tutto fuorché una casualità – quello del sedicenne Charley in Leon on Pete (Charley Thompson, 2017), giovane eroe americano della frontiera, che rimasto orfano del padre, parte da Portland con solo un furgone e un cavallo da corsa alla ricerca di un’amata zia nel Wyoming, a Laramie. Nel mezzo una tassonomia di personaggi e incontri tutt’altro che rassicuranti, tra cui quello con un eccezionale (falso) mentore come Steve Buscemi, qui in veste di addestratore di cavalli avido e burbero, che offre a Charley un lavoro nel suo ippodromo. Nascerà una profonda empatia tra il giovane e il cavallo Lean on Pete, anima docile e dimenticata proprio come lui.
Ben presto, però, si capisce come la sfortuna di Charley sia più forte del suo coraggio e dopo la morte del padre le linee western adagiate sugli spazi della frontiera cederanno il passo alla sequenzialità del road movie, in un coming of age (mancato) plasmato sul grande topos dell’immaginario americano: il ritorno a casa. Solo la zia Margy è rimasta a Charley, lasciata all’età di dodici anni, la stessa in cui Adam ha perso i genitori in All of us strangers. Proprio con l’ultimo lavoro del cineasta Leon on Pete condivide lo sguardo sull’inadeguatezza dei padri, così vulnerabili dietro l’impenetrabilità del loro orgoglio. Sono uomini che amano male, i figli e forse anche le donne. Eppure, ci provano, guadagnandosi l’autorità genitoriale prima che il destino li renda fantasmi per l’avvenire.
La fine dell’infanzia è il crocevia di una crescita nell’opera di Haigh, che lascia i colori tenui della campagna inglese per una storia americana (adattata dal romanzo di Willy Vlautin La ballata di Charley Thompson) dagli echi del cinema indie seppur con i guizzi di quello europeo (i silenziosi primi piani e i piani sequenza). Forse la regia è fin troppo aggraziata per le derive della wilderness americana, ma non si possono omettere i meriti di un autore che ha iniziato la sua carriera misurandosi con i linguaggi queer per sconfinare nel mélo fantastico, passando per il dramma intimista e il racconto di formazione made in Usa.
In tutti questi tragitti l’estetica di Andrew Haigh non si è mai snaturata, rimanendo salda a un cinema di fantasmi dove passato e presente sembrano separati soltanto da un battito di palpebre, un attimo fulmineo proprio come una corsa di cavalli nel west.