INT-22
08.03.2023
Nel corso degli ultimi anni, sono usciti due film particolarmente significativi, che hanno affrontato la delicata tematica dell’adozione. Retour à Séoul di Davy Chou, film presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2022 , ad esempio, esplora questa delicata questione attraverso il punto di vista di Freddie, venticinquenne che ritorna a Seoul dopo anni di assenza. Un'altro lungometraggio che analizza l’argomento in maniera sentita ed originale è The Quiet Migration di Malene Choi Jensen, l’opera di cui ci occuperemo oggi. La pellicola è stata presentata due settimane fa al Festival di Berlino nella sezione Panorama, e la visione si è rivelata essere una delle più interessanti dell’intera manifestazione cinematografica.
Il soggetto dell’adozione non è un territorio inesplorato per Choi, infatti, traendo ispirazione dalla propria esperienza personale, la cineasta aveva già saputo analizzare questa tematica nella sua opera prima, The Return (2018). The Quiet Migration invece è il suo primo lungometraggio di finzione e narra l’esperienza di Carl (Cornelius Won Riedel-Clausen), diciannovenne in procinto di ereditare la fattoria della famiglia d’adozione. Questa responsabilità scatenerà nel ragazzo, ancora in cerca di se stesso, un senso di spaesamento. Choi dirige un interessante ritratto sulla solitudine e sull’identità culturale utilizzando un ritmo pacato, dove il non detto vale più di una lunga conversazione. Durante la Berlinale abbiamo avuto l’occasione di parlare con la regista, approfondendo le motivazioni che l’hanno spinta a dirigere il film.
Mi piacerebbe iniziare questa intervista chiedendoti quale è stato il punto di partenza per The Quiet Migration.
Tutto è iniziato quando sono tornata in Corea del Sud qualche anno fa. Sono stata in questa pensione dove c’erano molti ragazzi che sono stati adottati. Ho ascoltato le loro esperienze rendendomi conto che differivano dalla mia, come donna più che altro. C’era qualcosa che riguardava la mascolinità che mi ha affascinato e ho cercato di raccontare l’esperienza dell’adozione dal punto di vista maschile. Una conversazione in particolare mi ha colpito: questo ragazzo mi ha raccontato di essere scappato via di casa a sedici anni per trasferirsi in una grande città europea. Ho parlato anche con altri giovani che si sono trasferiti da aree rurali e mi hanno raccontato dei periodi problematici che hanno vissuto, quindi ho voluto dare luce a questa difficile realtà. Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, ho voluto inserire diverse di queste esperienze dentro al personaggio di Carl.
E per raccontare questa storia hai adoperato un approccio originale dove hai inserito elementi metaforici, come il meteorite, o più “spirituali”, come la donna che Carl vede spesso nel corso del film. C’è questa sequenza in particolare dove Carl è in un club e vede la donna danzare che mi ha davvero impressionato.
Ti è piaciuta la scena mentre danzano?
Si molto.
Oh! Mi fa davvero piacere. Abbiamo avuto diverse difficoltà a girare quella scena, soprattutto per l’utilizzo del green screen. Durante la fase di montaggio non ero molto convinta del risultato, ma mi fa piacere che ti sia piaciuta. Credi che questa donna fosse un interesse amoroso per Carl?
No, secondo me la donna rappresentava la madre che Carl non ha mai incontrato. Nelle sequenze in Corea del Sud, vediamo il protagonista incontrare una donna simile a quella “fantasma” e durante quella piccola interazione sentivo più un amore materno tra i due personaggi, come se avesse riconosciuto la propria madre in quel personaggio. È corretto?
Si. Mi è piaciuto inserire questi elementi metaforici perché ho un background da documentarista e non puoi lavorare molto su determinati aspetti. Ma adesso che ho iniziato a fare film di finzione posso “giocare” di più su certi elementi.
A proposito di questa transizione tra documentari e film di finzione, volevo chiederti come fosse stato lavorare con attori professionisti abbastanza conosciuti. Mi sto riferendo a Bodil Jørgensen (The Idiots, The Kingdom: Exodus) e Bjarne Henriksen (The Celebration, The Hunt) nello specifico.
È stato fantastico, sono degli attori molto capaci e conosco bene il loro mestiere. Hanno saputo trovare una certa profondità nei loro personaggi e ho fatto anche dei piccoli cambiamenti alla sceneggiatura per renderli più “teneri”. Hanno portato una certa calma sul set e questo ha aiutato molto anche Cornelius (l’interprete protagonista del film, n.d.r.). Ogni interazione tra di loro sembrava naturale ed era proprio quello che stavo cercando in questi personaggi. Sembravano persone “vere” che non vivono soltanto in questa bolla di finzione. Avere Bodil e Bjarne è stato fondamentale in questa transizione verso il cinema di finzione. Comunque, la maggiore difficoltà è stata nel lavorare con più persone e coordinare contemporaneamente diversi aspetti.
The Quiet Migration è stato girato in 16mm e ha una palette di colori che mi ha davvero colpito. Attraverso il colore sei riuscita a creare un buon contrasto tra la natura e la città, ma soprattutto il “mondo” in cui vive Carl. Puoi approfondire queste scelte stilistiche?
Ho sempre voluto girare in 16mm perché ha una texture che ti permette di catturare in modo particolare la luce naturale. Inoltre mi ricorda la mia infanzia e emana questo senso di nostalgia. Per quanto riguarda i colori, volevo una palette calda, ma non troppo. Non volevo dare l’impressione che stessimo girando un film “felice”, così abbiamo deciso di abbassare le tonalità del giallo e del rosso. In alcune sequenze ho messo anche in risalto il cielo blu per omaggiare i bellissimi paesaggi danesi. Mentre nelle scene dove vediamo Carl nella sua camera da letto, abbiamo deciso di usare luci artificiali, che creano un contrasto interessante con la visione del mondo “moderna” di Carl. Hai buon occhio comunque, non so quante persone noteranno questo aspetto nel film (la regista ride, n.d.r.).
I colori nel tuo film hanno colto la mia attenzione sin dall’inizio. E continuando il discorso, c’è anche un netto contrasto tra le scene in Danimarca e in Corea del Sud.
Le luci naturali di questi due Paesi differiscono molto, e il contrasto tra i colori caldi e freddi mi ha affascinato da subito
Prima mi hai detto che i personaggi dei genitori all’inizio erano meno “teneri” e mi fa piacere che tu abbia cambiato leggermente questo aspetto. Ho provato molta empatia per questi due personaggi alla fine del film. Ci sono delle sequenze, come quella nel ristorante cinese, dove ci sono dei momenti di imbarazzo tra i genitori e Carl, e ho provato molta empatia per queste due persone che stanno cercando di comprendere e creare un’intesa con il figlio.
Il merito è per lo più dei due attori. Hanno saputo comunicare molto attraverso dei piccoli gesti. Comunque, quando sei in una famiglia, in qualche modo, ti fai piacere i vari membri. Mentre in una famiglia adottiva l’esperienza può essere davvero difficile, soprattutto perché non si viene a formare quella connessione multiculturale e si possono trovare dei momenti di silenzio “razziale”. Ho voluto rappresentare anche questo aspetto nel film, dove i genitori a volte non riescono a mettersi nei panni del figlio e non riescono a comprendere l’asiaticità di Carl. Non aveva senso rendere i genitori più indifferenti, la gente in fondo è gentile e questo rispecchia la vita reale credo. Un paio di anni fa ero al Torino Film Lab con Angelo Tijessens, lo sceneggiatore di Girl (e Close, n.d.r.) di Lukas Dhont, e anche in quel film possiamo vedere una figura genitoriale simile. Credo sia possibile mostrare sia il lato buono e gentile, ma anche i difetti dietro a questi personaggi.
INT-22
08.03.2023
Nel corso degli ultimi anni, sono usciti due film particolarmente significativi, che hanno affrontato la delicata tematica dell’adozione. Retour à Séoul di Davy Chou, film presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2022 , ad esempio, esplora questa delicata questione attraverso il punto di vista di Freddie, venticinquenne che ritorna a Seoul dopo anni di assenza. Un'altro lungometraggio che analizza l’argomento in maniera sentita ed originale è The Quiet Migration di Malene Choi Jensen, l’opera di cui ci occuperemo oggi. La pellicola è stata presentata due settimane fa al Festival di Berlino nella sezione Panorama, e la visione si è rivelata essere una delle più interessanti dell’intera manifestazione cinematografica.
Il soggetto dell’adozione non è un territorio inesplorato per Choi, infatti, traendo ispirazione dalla propria esperienza personale, la cineasta aveva già saputo analizzare questa tematica nella sua opera prima, The Return (2018). The Quiet Migration invece è il suo primo lungometraggio di finzione e narra l’esperienza di Carl (Cornelius Won Riedel-Clausen), diciannovenne in procinto di ereditare la fattoria della famiglia d’adozione. Questa responsabilità scatenerà nel ragazzo, ancora in cerca di se stesso, un senso di spaesamento. Choi dirige un interessante ritratto sulla solitudine e sull’identità culturale utilizzando un ritmo pacato, dove il non detto vale più di una lunga conversazione. Durante la Berlinale abbiamo avuto l’occasione di parlare con la regista, approfondendo le motivazioni che l’hanno spinta a dirigere il film.
Mi piacerebbe iniziare questa intervista chiedendoti quale è stato il punto di partenza per The Quiet Migration.
Tutto è iniziato quando sono tornata in Corea del Sud qualche anno fa. Sono stata in questa pensione dove c’erano molti ragazzi che sono stati adottati. Ho ascoltato le loro esperienze rendendomi conto che differivano dalla mia, come donna più che altro. C’era qualcosa che riguardava la mascolinità che mi ha affascinato e ho cercato di raccontare l’esperienza dell’adozione dal punto di vista maschile. Una conversazione in particolare mi ha colpito: questo ragazzo mi ha raccontato di essere scappato via di casa a sedici anni per trasferirsi in una grande città europea. Ho parlato anche con altri giovani che si sono trasferiti da aree rurali e mi hanno raccontato dei periodi problematici che hanno vissuto, quindi ho voluto dare luce a questa difficile realtà. Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, ho voluto inserire diverse di queste esperienze dentro al personaggio di Carl.
E per raccontare questa storia hai adoperato un approccio originale dove hai inserito elementi metaforici, come il meteorite, o più “spirituali”, come la donna che Carl vede spesso nel corso del film. C’è questa sequenza in particolare dove Carl è in un club e vede la donna danzare che mi ha davvero impressionato.
Ti è piaciuta la scena mentre danzano?
Si molto.
Oh! Mi fa davvero piacere. Abbiamo avuto diverse difficoltà a girare quella scena, soprattutto per l’utilizzo del green screen. Durante la fase di montaggio non ero molto convinta del risultato, ma mi fa piacere che ti sia piaciuta. Credi che questa donna fosse un interesse amoroso per Carl?
No, secondo me la donna rappresentava la madre che Carl non ha mai incontrato. Nelle sequenze in Corea del Sud, vediamo il protagonista incontrare una donna simile a quella “fantasma” e durante quella piccola interazione sentivo più un amore materno tra i due personaggi, come se avesse riconosciuto la propria madre in quel personaggio. È corretto?
Si. Mi è piaciuto inserire questi elementi metaforici perché ho un background da documentarista e non puoi lavorare molto su determinati aspetti. Ma adesso che ho iniziato a fare film di finzione posso “giocare” di più su certi elementi.
A proposito di questa transizione tra documentari e film di finzione, volevo chiederti come fosse stato lavorare con attori professionisti abbastanza conosciuti. Mi sto riferendo a Bodil Jørgensen (The Idiots, The Kingdom: Exodus) e Bjarne Henriksen (The Celebration, The Hunt) nello specifico.
È stato fantastico, sono degli attori molto capaci e conosco bene il loro mestiere. Hanno saputo trovare una certa profondità nei loro personaggi e ho fatto anche dei piccoli cambiamenti alla sceneggiatura per renderli più “teneri”. Hanno portato una certa calma sul set e questo ha aiutato molto anche Cornelius (l’interprete protagonista del film, n.d.r.). Ogni interazione tra di loro sembrava naturale ed era proprio quello che stavo cercando in questi personaggi. Sembravano persone “vere” che non vivono soltanto in questa bolla di finzione. Avere Bodil e Bjarne è stato fondamentale in questa transizione verso il cinema di finzione. Comunque, la maggiore difficoltà è stata nel lavorare con più persone e coordinare contemporaneamente diversi aspetti.
The Quiet Migration è stato girato in 16mm e ha una palette di colori che mi ha davvero colpito. Attraverso il colore sei riuscita a creare un buon contrasto tra la natura e la città, ma soprattutto il “mondo” in cui vive Carl. Puoi approfondire queste scelte stilistiche?
Ho sempre voluto girare in 16mm perché ha una texture che ti permette di catturare in modo particolare la luce naturale. Inoltre mi ricorda la mia infanzia e emana questo senso di nostalgia. Per quanto riguarda i colori, volevo una palette calda, ma non troppo. Non volevo dare l’impressione che stessimo girando un film “felice”, così abbiamo deciso di abbassare le tonalità del giallo e del rosso. In alcune sequenze ho messo anche in risalto il cielo blu per omaggiare i bellissimi paesaggi danesi. Mentre nelle scene dove vediamo Carl nella sua camera da letto, abbiamo deciso di usare luci artificiali, che creano un contrasto interessante con la visione del mondo “moderna” di Carl. Hai buon occhio comunque, non so quante persone noteranno questo aspetto nel film (la regista ride, n.d.r.).
I colori nel tuo film hanno colto la mia attenzione sin dall’inizio. E continuando il discorso, c’è anche un netto contrasto tra le scene in Danimarca e in Corea del Sud.
Le luci naturali di questi due Paesi differiscono molto, e il contrasto tra i colori caldi e freddi mi ha affascinato da subito
Prima mi hai detto che i personaggi dei genitori all’inizio erano meno “teneri” e mi fa piacere che tu abbia cambiato leggermente questo aspetto. Ho provato molta empatia per questi due personaggi alla fine del film. Ci sono delle sequenze, come quella nel ristorante cinese, dove ci sono dei momenti di imbarazzo tra i genitori e Carl, e ho provato molta empatia per queste due persone che stanno cercando di comprendere e creare un’intesa con il figlio.
Il merito è per lo più dei due attori. Hanno saputo comunicare molto attraverso dei piccoli gesti. Comunque, quando sei in una famiglia, in qualche modo, ti fai piacere i vari membri. Mentre in una famiglia adottiva l’esperienza può essere davvero difficile, soprattutto perché non si viene a formare quella connessione multiculturale e si possono trovare dei momenti di silenzio “razziale”. Ho voluto rappresentare anche questo aspetto nel film, dove i genitori a volte non riescono a mettersi nei panni del figlio e non riescono a comprendere l’asiaticità di Carl. Non aveva senso rendere i genitori più indifferenti, la gente in fondo è gentile e questo rispecchia la vita reale credo. Un paio di anni fa ero al Torino Film Lab con Angelo Tijessens, lo sceneggiatore di Girl (e Close, n.d.r.) di Lukas Dhont, e anche in quel film possiamo vedere una figura genitoriale simile. Credo sia possibile mostrare sia il lato buono e gentile, ma anche i difetti dietro a questi personaggi.