di Mattia Pescitelli
NC-296
23.04.2025
Un respiro affannoso, alla disperata ricerca di un ritmo calmo. Gli occhi puntati sulla preda. La canna di un fucile. Un cervo pascola tranquillo, convinto di essere solo in quel territorio sconfinato e selvaggio tra le montagne di un paradiso incontaminato. D’un tratto, l’istinto. Eccolo lì, l’uomo, tornato a rivendicare un Eden sul quale non ha più presa. I loro sguardi si incontrano, ma non c’è un rapporto gerarchico tra i due. Il cervo si accorge che quello che ha davanti non è un bracconiere, e solo un’altra delle milioni di vittime che ogni giorno il ciclo naturale miete nell’impeto dell’indifferenza altrui. Il vero cacciatore è alle spalle dell’uomo col fucile. È un suo simile, anch’esso armato; anch’esso pronto a fare fuoco. Potrebbe eliminarlo lì, in un istante, ma a lui basta sapere che quello che dovrebbe essere il suo braccatore non ha idea di come catturarlo, di come riportarlo all’ordine.
Il predatore, nella più classica delle forme del racconto, diventa preda. Questa semplice ma pur sempre potente scena racchiude tutta l’essenza di The Order, ifilm di Justin Kurzel presentato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia 2024.
Dopo aver esplorato i recessi più disturbanti della mente attraverso tre storie criminali australiane, inframezzate da due digressioni storico-fantastiche, Macbeth (2015) e Assassin’s Creed (2016) - pur sempre molto legate ai contorti rapporti tra l’uomo e i suoi istinti autodistruttivi- il regista ha deciso di lasciare la madrepatria per andare a immergersi nelle contraddizioni americane, terra ultima di sogni corrotti. L’approccio non è lo stesso. Non può esserlo. Il recinto americano è tutto fuorché quello australiano. Vive di regole differenti, si insinua nella psiche in modi differenti.
Il regista Justin Kurzel e gli attori Jude Law e Tye Sheridan - sullo sfondo - sul set di The Order (2024)
The Order (2024)
Mentre l’Australia dipinta da Kurzel è un luogo di perdizione e anime lasciate a marcire da una società che ostracizza tutto ciò che reputa “altro”, gli Stati Uniti si rivelano uno spazio in cui si cerca disperatamente di tirare i fili di una realtà che scalpita da tutte le parti, dove anche l’ultimo degli ultimi può alzare la voce a tal punto da crearsi un proprio seguito. I perduti americani si ritrovano in valori che condividono; riescono ad amplificare la loro idea di nazione, perché nessuno è ancora riuscito a individuarne una.
La promessa del sogno americano è il motore di una società che rappresenta una moltitudine e nessuno al contempo, figlia di imperi coloniali che si sono spartiti una “terra vergine” perché a loro tutto era dovuto: gli è stato insegnato così, tramandato di generazione in generazione. In un luogo che è stato convertito in territorio di caccia del sé è difficile trovare la propria identità. E questo lo si può facilmente evincere dalla storia di efferata emancipazione violenta che ha contraddistinto una nazione giovane e fin troppo vasta.
Gli Stati Uniti immortalati da Kurzel sono una landa irredenta, dove tutto è ancora da scrivere. La legge, una delle tante istanze che vuole prevalere in una narrazione satura di punti di vista, procede alla cieca, costantemente sulle tracce di un Crimine idealizzato che non riesce mai realmente a incastrare ed esorcizzare. Come alle calcagna di una preda in fuga, i bracconieri dell’identità civile americana cercano di sanare e controllare la faccia naturale d’America, una che trasuda violenza, disordine, egocentrismo. Neanche un colpo tra quelli sparati dalle forze dell’ordine va a segno. Gli agenti del controllo mancano di continuo il loro bersaglio, anche quando sembra messo all’angolo. E la pecora travestita da lupo, che potrebbe porre fine a quella caccia al ladro in qualsiasi momento, preferisce restare a guardare. La dimensione scopica perfora più di qualsiasi proiettile.
Jude Law nei panni dell'agente Terry Husk
Il Robert di Nicholas Hoult studia il suo nemico, gli si avvicina, vuole togliergli la sicurezza di avere il controllo della situazione. Lui è il caos organizzato di un’America irrequieta, che non è mai stata succube del sistema, quanto più il motore di una società incrinata e divisiva alla base. E allora gioca con il Terry di Jude Law, lo fa sentire un passo avanti quando è mille indietro e forse fa ciò senza neanche rendersene conto, in quanto lui rappresenta qualcosa che va oltre l’identità personale. È un’idea che supera la carne e vive trasportata dal fumo dei roghi. È un’entità volatile, inafferrabile, che vaga per le terre d’America, in cerca della prossima mente compatibile.
Robert, alla fine, in quella casa ai confini dell’umano, sa perfettamente che la sua ora non è giunta. Non giungerà mai. Neanche un assalto delle forze speciali è in grado di fermarlo, né le fiamme o l’asfissia. Il bruciare vivo, sopravvivendo fino all’ultimo secondo, è il suo più estremo atto di resistenza al sistema, di fuga dal controllo di una società in cui non si riconosce e con la quale non vuole avere nulla a che fare. Il suo obiettivo è dimostrare ai suoi cacciatori che non hanno il controllo, che il loro metodo è destinato a fallire assieme al loro conformismo, che la loro strategia non può niente contro l’ostinata presenza di un’idea che attecchisce.
Terry comprende di non avere voce in capitolo, di non poter cambiare la direzione di una corrente inarrestabile, troppo carica di voci differenti e risentimento verso un ordine fittizio, la facciata di una realtà socio-culturale costantemente sull’orlo del collasso. La guarda bruciare lentamente, inerme, quella casa sul limitare del bosco, confine ultimo della civilizzazione che difende con così tanto ardore. Anche davanti alla sua preda, in bella vista, il tiro pulito e perfetto, sa di non poter avere la meglio. Sa che mancherà il colpo, che gli sfuggirà nuovamente da sotto il naso, perché è così che sempre è andata e sempre andrà.
Nicholas Hoult è Robert Jay Mathews
Terry è un relitto della società civile, rotto emotivamente e fisicamente. Sanguina, si affanna, non riesce a stare al passo. Questo lo rende innocuo agli occhi del nemico, nulla più di un latrato a chilometri di distanza trasportato dal vento che si è alzato al calar della sera. Trasmette la sua impulsività a chi dovrebbe venire dopo di lui, in questo caso al curioso Jamie, la cui pacatezza si tramuta in furia cieca quando vede che il sistema non funziona, non osa e non rischia. Preso dalla foga, brucia le tappe e si fa mastino sulle tracce del male. Ma tutto ciò che può fare da solo è prendersi una pallottola in petto. Pure nella morte è ostinato e scarica il caricatore anche se la lepre è già filata nella sua tana. La sua “gioventù bruciata” riflette quella di come Robert, la sua ombra, l’oscuro presagio di una generazione inesperta che non ha più voglia di aspettare.
Lui è il nomadico vento di cambiamento, la nuova leva di una promessa da mantenere, di un sogno da realizzare. E non ha importanza che il piano non vada come sperato: il processo è iniziato, ma non ora, bensì anni addietro, dal momento in cui i padri pellegrini hanno messo piede sulle fredde coste del nord-est. E continua oggi (come ci suggeriscono un po’ prosaicamente le didascalie a fine film) con eventi come l’assalto a Capitol Hill del 2021 al grido dei Diari di Turner, e continuerà domani. Perché l’America è un’idea che va oltre l’umana concezione. È un’utopia inarrivabile, un sogno che non può rimanere che tale. Terra di frontiera, come ci suggeriscono i paesaggi sonori composti dal fratello di Justin, Jed Kurzel, al quale musica sempre i lungometraggi, ogni volta con risultati che esaltano a dismisura la potenza delle immagini strappate dal velo del reale.
L’incontro soave con il confine naturale si distorce sempre più, corrotto, sgualcito, pestato dall’umano, trasformato in landa di opportunità, una poltiglia di pensieri, convinzioni, resti di coscienza, dove la lotta per la supremazia si consuma sotto gli occhi vigili di un cervo che pascola, placido, sul limitare di un torrente, alle pendici dell’umano.
Jude Law e Tye Sheridan in The Order (2024)
di Mattia Pescitelli
NC-296
23.04.2025
Il regista Justin Kurzel e gli attori Jude Law e Tye Sheridan - sullo sfondo - sul set di The Order (2024)
Un respiro affannoso, alla disperata ricerca di un ritmo calmo. Gli occhi puntati sulla preda. La canna di un fucile. Un cervo pascola tranquillo, convinto di essere solo in quel territorio sconfinato e selvaggio tra le montagne di un paradiso incontaminato. D’un tratto, l’istinto. Eccolo lì, l’uomo, tornato a rivendicare un Eden sul quale non ha più presa. I loro sguardi si incontrano, ma non c’è un rapporto gerarchico tra i due. Il cervo si accorge che quello che ha davanti non è un bracconiere, e solo un’altra delle milioni di vittime che ogni giorno il ciclo naturale miete nell’impeto dell’indifferenza altrui. Il vero cacciatore è alle spalle dell’uomo col fucile. È un suo simile, anch’esso armato; anch’esso pronto a fare fuoco. Potrebbe eliminarlo lì, in un istante, ma a lui basta sapere che quello che dovrebbe essere il suo braccatore non ha idea di come catturarlo, di come riportarlo all’ordine.
Il predatore, nella più classica delle forme del racconto, diventa preda. Questa semplice ma pur sempre potente scena racchiude tutta l’essenza di The Order, ifilm di Justin Kurzel presentato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia 2024.
Dopo aver esplorato i recessi più disturbanti della mente attraverso tre storie criminali australiane, inframezzate da due digressioni storico-fantastiche, Macbeth (2015) e Assassin’s Creed (2016) - pur sempre molto legate ai contorti rapporti tra l’uomo e i suoi istinti autodistruttivi- il regista ha deciso di lasciare la madrepatria per andare a immergersi nelle contraddizioni americane, terra ultima di sogni corrotti. L’approccio non è lo stesso. Non può esserlo. Il recinto americano è tutto fuorché quello australiano. Vive di regole differenti, si insinua nella psiche in modi differenti.
The Order (2024)
Mentre l’Australia dipinta da Kurzel è un luogo di perdizione e anime lasciate a marcire da una società che ostracizza tutto ciò che reputa “altro”, gli Stati Uniti si rivelano uno spazio in cui si cerca disperatamente di tirare i fili di una realtà che scalpita da tutte le parti, dove anche l’ultimo degli ultimi può alzare la voce a tal punto da crearsi un proprio seguito. I perduti americani si ritrovano in valori che condividono; riescono ad amplificare la loro idea di nazione, perché nessuno è ancora riuscito a individuarne una.
La promessa del sogno americano è il motore di una società che rappresenta una moltitudine e nessuno al contempo, figlia di imperi coloniali che si sono spartiti una “terra vergine” perché a loro tutto era dovuto: gli è stato insegnato così, tramandato di generazione in generazione. In un luogo che è stato convertito in territorio di caccia del sé è difficile trovare la propria identità. E questo lo si può facilmente evincere dalla storia di efferata emancipazione violenta che ha contraddistinto una nazione giovane e fin troppo vasta.
Gli Stati Uniti immortalati da Kurzel sono una landa irredenta, dove tutto è ancora da scrivere. La legge, una delle tante istanze che vuole prevalere in una narrazione satura di punti di vista, procede alla cieca, costantemente sulle tracce di un Crimine idealizzato che non riesce mai realmente a incastrare ed esorcizzare. Come alle calcagna di una preda in fuga, i bracconieri dell’identità civile americana cercano di sanare e controllare la faccia naturale d’America, una che trasuda violenza, disordine, egocentrismo. Neanche un colpo tra quelli sparati dalle forze dell’ordine va a segno. Gli agenti del controllo mancano di continuo il loro bersaglio, anche quando sembra messo all’angolo. E la pecora travestita da lupo, che potrebbe porre fine a quella caccia al ladro in qualsiasi momento, preferisce restare a guardare. La dimensione scopica perfora più di qualsiasi proiettile.
Jude Law nei panni dell'agente Terry Husk
Il Robert di Nicholas Hoult studia il suo nemico, gli si avvicina, vuole togliergli la sicurezza di avere il controllo della situazione. Lui è il caos organizzato di un’America irrequieta, che non è mai stata succube del sistema, quanto più il motore di una società incrinata e divisiva alla base. E allora gioca con il Terry di Jude Law, lo fa sentire un passo avanti quando è mille indietro e forse fa ciò senza neanche rendersene conto, in quanto lui rappresenta qualcosa che va oltre l’identità personale. È un’idea che supera la carne e vive trasportata dal fumo dei roghi. È un’entità volatile, inafferrabile, che vaga per le terre d’America, in cerca della prossima mente compatibile.
Robert, alla fine, in quella casa ai confini dell’umano, sa perfettamente che la sua ora non è giunta. Non giungerà mai. Neanche un assalto delle forze speciali è in grado di fermarlo, né le fiamme o l’asfissia. Il bruciare vivo, sopravvivendo fino all’ultimo secondo, è il suo più estremo atto di resistenza al sistema, di fuga dal controllo di una società in cui non si riconosce e con la quale non vuole avere nulla a che fare. Il suo obiettivo è dimostrare ai suoi cacciatori che non hanno il controllo, che il loro metodo è destinato a fallire assieme al loro conformismo, che la loro strategia non può niente contro l’ostinata presenza di un’idea che attecchisce.
Terry comprende di non avere voce in capitolo, di non poter cambiare la direzione di una corrente inarrestabile, troppo carica di voci differenti e risentimento verso un ordine fittizio, la facciata di una realtà socio-culturale costantemente sull’orlo del collasso. La guarda bruciare lentamente, inerme, quella casa sul limitare del bosco, confine ultimo della civilizzazione che difende con così tanto ardore. Anche davanti alla sua preda, in bella vista, il tiro pulito e perfetto, sa di non poter avere la meglio. Sa che mancherà il colpo, che gli sfuggirà nuovamente da sotto il naso, perché è così che sempre è andata e sempre andrà.
Nicholas Hoult è Robert Jay Mathews
Terry è un relitto della società civile, rotto emotivamente e fisicamente. Sanguina, si affanna, non riesce a stare al passo. Questo lo rende innocuo agli occhi del nemico, nulla più di un latrato a chilometri di distanza trasportato dal vento che si è alzato al calar della sera. Trasmette la sua impulsività a chi dovrebbe venire dopo di lui, in questo caso al curioso Jamie, la cui pacatezza si tramuta in furia cieca quando vede che il sistema non funziona, non osa e non rischia. Preso dalla foga, brucia le tappe e si fa mastino sulle tracce del male. Ma tutto ciò che può fare da solo è prendersi una pallottola in petto. Pure nella morte è ostinato e scarica il caricatore anche se la lepre è già filata nella sua tana. La sua “gioventù bruciata” riflette quella di come Robert, la sua ombra, l’oscuro presagio di una generazione inesperta che non ha più voglia di aspettare.
Lui è il nomadico vento di cambiamento, la nuova leva di una promessa da mantenere, di un sogno da realizzare. E non ha importanza che il piano non vada come sperato: il processo è iniziato, ma non ora, bensì anni addietro, dal momento in cui i padri pellegrini hanno messo piede sulle fredde coste del nord-est. E continua oggi (come ci suggeriscono un po’ prosaicamente le didascalie a fine film) con eventi come l’assalto a Capitol Hill del 2021 al grido dei Diari di Turner, e continuerà domani. Perché l’America è un’idea che va oltre l’umana concezione. È un’utopia inarrivabile, un sogno che non può rimanere che tale. Terra di frontiera, come ci suggeriscono i paesaggi sonori composti dal fratello di Justin, Jed Kurzel, al quale musica sempre i lungometraggi, ogni volta con risultati che esaltano a dismisura la potenza delle immagini strappate dal velo del reale.
L’incontro soave con il confine naturale si distorce sempre più, corrotto, sgualcito, pestato dall’umano, trasformato in landa di opportunità, una poltiglia di pensieri, convinzioni, resti di coscienza, dove la lotta per la supremazia si consuma sotto gli occhi vigili di un cervo che pascola, placido, sul limitare di un torrente, alle pendici dell’umano.
Jude Law e Tye Sheridan in The Order (2024)