Una rassegna di film "di protesta"
che hanno segnato la settima arte
scritto da Vittoria Colangelo
TR-18
08.01.2021
A pochi mesi dalle dimostrazioni del movimento Black Lives Matter, negli Stati Uniti si è ricominciato a parlare di proteste alla luce degli avvenimenti del 7 gennaio. Ma l’infondato sospetto di un’elezione truccata può essere considerato un elemento che pregiudica la libertà di una comunità? Confrontando quest’ultimo con il grido di una comunità veramente oppressa, ci si chiede se queste si possano effettivamente definire proteste.
Ci basta guardare la filmografia del passato per capire che le rivolte che negli ultimi mesi hanno inondato le piazze e le strade non solo degli Stati Uniti, ma del mondo intero, non sono una novità. La tragica morte di George Floyd per mano della polizia, infatti, è solo l'ennesima dimostrazione di secoli di ingiustizie e discriminazioni in tutto il mondo. Quando però il polverone mediatico alzato dalle proteste comincia a dissolversi, il cinema diviene uno dei pochi strumenti con cui le persone riescono a conservare, metabolizzare e comprendere la complessità della società in cui viviamo e i cambiamenti storici chi ha vissuto prima di noi ha dovuto affrontare.
Indipendentemente dal fatto che questi avvenimenti coinvolgano la razza, il gender, i diritti del lavoro o una moltitudine di altre problematiche che per secoli hanno afflitto comunità emarginate, i film di protesta mostrano come il progresso civile arriva dopo anni di duro lavoro e non tramite un’improvvisa rivelazione collettiva..
I film che seguono hanno in comune un aspetto specifico: il modo in cui la popolazione reagisce alla percezione di un'ingiustizia, e come questa reazione porti spesso alla violenza, e di conseguenza anche a un effettivo ripensamento collettivo.
Come dimostrano questi film i disordini sociali hanno cause complesse, e lo stesso cambiamento nella società è spesso complicato; quando la popolazione insorge i metodi possono essere pacifici, dettati da visioni liberali, ma possono anche portare a distruzione e morte.
Allo stesso modo, purtroppo, le rivolte portano troppo spesso a una risposta brutale da parte di chi è al potere che, nonostante raramente ottenga il risultato sperato, cerca in questa maniera di stroncare i disordini e mantenere la propria posizione. Di seguito abbiamo collezionato solo alcuni tra i migliori film che riescono ad analizzare questo ampio argomento con la sottigliezza e l’attenzione di cui ha bisogno, spesso ricorrendo anche a tecniche cinematografiche rivoluzionarie per raccontare al meglio queste storie.
Il capolavoro nominato agli Oscar di Spike Lee Do the Right Thing - Fa’ la cosa giusta (1989) riesce a rendere in maniera drammatica quanto le complesse tensioni razziali, se esasperate, possano portare alla violenza. Ambientato in una strada di Brooklyn nel giorno più caldo dell’anno, il film segue la vita di Mookie, interpretato dallo stesso Lee che all’epoca aveva solo 24 anni, nei panni di un ragazzo che consegna le pizze di un ristorante italiano in un quartiere abitato in prevalenza da afroamericani. Le scene che seguono sono ormai immagini emblematiche e iconiche dei movimenti contro il razzismo: Lee ha infatti portato sugli schermi, ormai più di 30 anni fa, episodi che ancora oggi sono all’ordine del giorno, ed è stato anticipatore e apripista per tanti altri autori e registi che da lì in poi ci hanno raccontato problematiche e ingiustizie delle comunità afroamericane negli Stati Uniti.
Con i suoi film, Spike Lee fa luce su scomode realtà non per dare una risposta allo spettatore, ma piuttosto per spingerlo a porsi delle domande. In questo caso ci lascia alla fine del film con un parallelismo tra due citazioni sulla violenza come strumento di risoluzione delle ingiustizie, una di Martin Luther King e una di Malcolm X, che esprimono al riguardo due pareri forti e contrastanti.
Proprio riguardo al controverso leader per i diritti umani Malcolm X, Spike Lee ci offre una visione molto più sottile sulla sua linea politica nel suo film biografico Malcolm X (1992). Il regista ci mostra infatti come tutte le esperienze di Malcolm abbiano condizionato le sue opinioni e la sua visione del mondo, e come stesse cambiando quelle stesse opinioni fino al giorno del suo assassinio nel 1965.
Solo un anno dopo la morte dell’attivista, viene fondato nel 1966 il partito dei Black Panthers a Oakland, California, da Huey P. Newton e Bobby Seale. Il documentario The Black Panthers: Vanguard of the Revolution si apre con il groove funky di “Soul Train” dei Chi-Lites, con il gruppo che canta “For God’s sake, why dontcha give more power to the people?”. Il partito nasce come risposta al costante maltrattamento da parte della polizia verso la comunità afroamericana presente in città. Rispondendo violentemente ai loro avversarii Panthers agivano come una forza paramilitare vigilando sull’azione delle forze dell’ordine.
Mentre l’approccio di Martin L. King ebbe un discreto successo, i Black Panthers, con il loro look afro fatto di giacche di pelle e occhiali da sole, resero l’emancipazione afroamericana sfacciata, radicale e molto attraente. L’immagine e il messaggio fecero impazzire i giovani di tutto il paese così come intellettuali e progressisti di tutte le etnie. Allo stesso modo la popolarità del partito cominciò a preoccupare conservatori ed establishment americano, portando il capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, a classificare i Black Panthers come il più grande pericolo alla sicurezza nazionale, dando il via così ad una persecuzione verso i membri del partito. Questo, unito ai conflitti interpersonali, la confusione strutturale del partito e gli episodi violenti, alla fine oscurò tanti dei traguardi che ottennero per la loro comunità.
Il documentario analizza inoltre se i Panthers furono vittima della loro stessa immagine essendo diventati, forse troppo velocemente, dal movimento di quartiere che erano, un movimento nazionale. Questa crescita così repentina li ha portati, forse, a sottovalutare quanto fossero effettivamente potenti i loro nemici: non più la polizia locale di Oakland, ma il governo stesso degli Stati Uniti.
Ciò che rende più che mai allarmante Detroit (2017), è la sua attualità e rilevanza contemporanea. Più di quaranta persone morirono nei cinque giorni di protesta dell’estate del 1969, la maggior parte dei quali afroamericani e per mano delle forze dell’ordine. Nel tentativo di analizzare la rivolta, Kathryn Bigelow si focalizza sulla straziante tragedia sempre più significativa delle complicate tensioni razziali che tutt’oggi perseguitano gli Stati Uniti.
Detroit si apre con una lezione di storia in cui gli straordinari dipinti di Jacob Lawrence ci raccontano la grande migrazione degli afroamericani dalle campagne del sud verso le zone industriali degli Stati Uniti a nord e ad ovest. Qui il disagio dei ghetti offre una vita dove l’uguaglianza è un’illusione e di conseguenza il cambiamento è inevitabile. Particolarmente interessante è il personaggio di Melvin Dismukes, interpretato dall’inglese John Boyega, la guardia giurata che rimane incastrata tra la sua razza e la sua uniforme, cercando invano di mediare tra la brutalità della polizia e i sospetti torturati, guadagnandosi così sfiducia e disprezzo da entrambe le parti.
Grazie all’uso di lenti vintage, Barry Ackroyd, il direttore della fotografia, conferisce un aspetto documentaristico alla storia, combinando al meglio le riprese digitali con il materiale d’archivio.
Nonostante le rivolte dell’estate del 1992 avessero preso piede molto tempo prima della diffusione dei cellulari, queste furono incredibilmente catturate on footage dall’inizio alla fine. Il documentario LA 92 (2017), che esce a 25 anni da quei 6 giorni di proteste, lascia parlare da sole le immagini d’archivio: dall’uccisione di Rodney King da parte della polizia agli episodi di saccheggio, violenza e disordine che seguirono. Unito a una narrazione concisa, la pellicola lascia in testa agli spettatori le parole, più che attuali, che gridavano quell’estate del 92: “No Justice, No Peace”.
Ciò che spaventa di più di questo documentario è l’incredibile somiglianza tra ciò che accadde quell’agosto del 1992 a Los Angeles e ciò che è successo pochi mesi fa a Minneapolis e a seguire in tutto il mondo. Il fattore scatenante è stato l’estrema violenza e brutalità da parte della polizia, e ciò che è seguito sono le rivolte e la devastazione della città. Una storia che tutti conosciamo.
Le stesse dinamiche ci appaiono più che rilevanti anche sulla costa opposta dell’Atlantico: l’ormai cult francese di Mathieu Kassovitz, La Haine - L’odio (1995), prende luogo immediatamente dopo un’enorme rivolta in una banlieue parigina, causata da un’aggressione a un immigrato da parte di un agente della Polizia. Il film cattura la dura realtà urbana della capitale francese interamente in bianco e nero, e segue tre amici della vittima che al finire della rivolta trovano una pistola della polizia e discutono se rispondere alla violenza con altra violenza.
Il film si apre con autentico materiale di archivio su rivolte cittadine, riuscendo così a stabilire immediatamente il tono e a contestualizzare la storia romanzata con avvenimenti sociali realmente accaduti. Kassovitz dimostra inoltre in questo film la sua abilità con la macchina da presa utilizzando innovative tecniche cinematografiche tra cui l’uso di uno dei primi droni per girare la famosa scena in cui la telecamera dalla finestra del dj vaga a volo di uccello sul quartiere popolare. Iconica la scena di Vinz (Vincent Cassel) allo specchio in cui punta al suo riflesso la sua mano come fosse una pistola, imitando il noto personaggio che interpreta Robert De Niro in Taxi Driver. Entrambi i personaggi ci dimostrano quanto siano costantemente esposti alla violenza e alla brutalità, che diventa quindi normale e legittima ai loro occhi, e li porta così ad usare la violenza come catalizzatore del cambiamento sociale.
Kassovitz enfatizza inoltre la stretta correlazione che esiste tra i personaggi e il loro ambiente, analizzando l’emarginazione e reclusione di comunità povere in specifiche zone urbane, sia mentalmente che fisicamente, ricordando molto le scene iniziali delle pellicole americane Menace II Society (1993) e Boyz n the Hood (1991).
L’unicità di quest’opera è data inoltre dal fatto di non essere soggetta al periodo storico in cui è stata realizzata, né tanto meno a quella determinata situazione sociopolitica, rimanendo contestualmente universale. La premessa è senza tempo e senza confini, perché riesce a dare voce a coloro che vengono messi a tacere nel momento in cui hanno più bisogno di essere ascoltati.
Esiste un film, considerato uno dei film politici più influenti della storia, che venne usato dai Black Panthers come film di formazione, e che ancora oggi viene mostrato al pentagono come esempio di come funzionano i conflitti moderni e sul come nascono e operano le insurrezioni. Dal 1954 al 1962 un gruppo conosciuto come Front de Libération Nationale (FLN) lottò contro le forze coloniali francesi per l’indipendenza algerina. Il conflitto è stato uno dei primi esempi del moderno stato di guerra, dove le forze militari finanziate da stati potenti incontrano difficoltà contro guerriglieri ribelli. La battaglia di Algeri (1966), apprezzato esperimento del cinema verité, documenta questo pezzo di storia moderna in stile cinema-reportage ottenendo una resa così realistica che molti spettatori furono spinti a pensare che il regista Gillo Pontecorvo avesse usato filmati d’archivio della reale insurrezione.
Nonostante il film abbia senza dubbio più simpatia per gli FLN che per i francesi, dimostra come entrambe le fazioni decisero di ricorrere a metodi estremi: gli FLN usarono donne e bambini per atti di terrorismo contro i soldati francesi, mentre i francesi ricorsero alla tortura e alla violenza contro i protestanti pacifici civili.
Ciò che forse rende questo film particolarmente realistico sono da un lato le influenze di Pontecorvo, che guardava ai due capolavori neorealisti di Roberto Rossellini Roma Città Aperta e Paisà, e dall’altra la sua stessa esperienza in guerra come partigiano antifascista, avendo in questo modo chiaro ciò che voleva trasmettere di quelle rivolte. La pellicola, inizialmente intesa come propaganda anticolonialista, era stata abbozzata dal leader ribelle delle FLN Saadi Yacef durante la prigionia, il quale approcciò, una volta uscito, tre registi: Luchino Visconti, Francesco Rosi e Gillo Pontecorvo. Lo stesso Yacef diventò poi non solo produttore del film, ma anche attore, ricreando sullo schermo quegli atti che aveva realmente commesso pochi anni prima. Yacef, insieme agli altri attori presi dalla strada, riescono a portare in scena quella forza profonda e veritiera che solo chi ha provato davvero quella rabbia e sofferenza nella propria vita sarebbe riuscito a ricreare.
Infine, rimane emblematica la scena in cui il colonnello Mathieu, interpretato dall’unico attore professionista Jean Martin, chiede ai giornalisti di accettare le conseguenze della guerra se vogliono che vinca la Francia, esponendo così la scomoda verità dietro al mantenimento dell’ordine pubblico: chi sta al comando, infatti, non vuole sapere né avere a che fare con il lavoro sporco.
Spesso paragonato alla Battaglia di Algeri per il suo modo di fare cinema politico in maniera documentaristica e rivoluzionaria, La corazzata Potëmkin (1925), con la sua iconica scena dei “Gradini di Odessa”, è una memorabile rappresentazione dell’ammutinamento avvenuto sulla nave corazzata Potëmkin nel porto della città di Odessa, nell’attuale Ucraina, nel 1905.
Ispirato dalla rivoluzione comunista russa del tempo, il film racconta dei marinai che si ribellarono contro il loro stesso comandante a causa delle terribili condizioni igienico sanitarie sull’imbarcazione. I rivoltosi sono supportati dalla popolazione di Odessa, il che porta gli uomini dello Zar a reagire brutalmente sui civili.
Il film fu così potente che per molti anni fu vietato in molte nazioni compresala stessa Unione Sovietica checredeva potesse incitare la popolazione alla rivolta. La corazzata Potëmkin ha dimostrato quanto le immagini simboliche possano avere un enorme impatto emotivo ed intellettuale sugli spettatori.
Oltre ad essere considerato propaganda rivoluzionaria, il film è stato anche l’occasione per il regista Sergej Ėjzenštejn di sperimentare innovative tecniche di montaggio per riuscire a dare un ritmo intenso al film.
Il film politico di Jean-Luc Godard La chinoise (1967), è ambientato quasi interamente in un piccolo appartamento parigino, e documenta la vita di cinque giovani rivoluzionari Maoisti che dibattono in merito di violenza come mezzo per raggiungere i loro obiettivi. L’infinito dialogo dei personaggi rende l’impegno all’insurrezione violenta come una bizzarra, ipotetica possibilità: una messa in scena che gli permette di mettersi nei panni dei veri ribelli e giocare a fare la rivoluzione. Godard ci racconta questi personaggi anche attraverso l’appartamento in cui vivono, che nonostante sia arredato con mobili rossi e riempito da copie del Libretto Rosso di Mao, lascia trapelare l’anima della piccola borghesia francese di cui fanno parte i personaggi. La pianificazione dell’assassinio del leader politico viene filmata attraverso il movimento della macchina da presa che, dall’esterno delle finestre, si muove con i personaggi lungo l’appartamento, enfatizzando la fantasia utopica del gruppo che non può che sopravvivere solo all’interno di quell’appartamento parigino.
Questa pellicola segna per Godard un cambiamento nei film che girerà in futuro, che prenderanno una piega più apertamente politica, ma fu anche premonitrice della protesta studentesca che scoppiò da un lato all’altro della Francia solo l’anno seguente.
How We Played the Revolution (2012) introduce gli spettatori in quella che viene chiamata la “Singing Revolution” della Lituania nata dal gruppo Antis, raccontando un fenomeno senza precedenti nella storia non solo della musica, ma delle proteste. Il look estremamente teatrale e grottesco della band, unito ai testi enigmatici e beffardi sul regime sovietico al quale erano sottoposti al tempo, furono il mix perfetto per risvegliare l’annoiato popolo lituano dagli anni di Breznev. La pellicola comincia con l’improvvisa crescita di popolarità della band che anticipò l’uscita della nazione dall’URSS, e lo fa combinando materiale d’archivio e testimonianze da parte di quelle persone che furono coinvolte direttamente in questo straordinario progetto.
Il punto di forza del film sta nel sottolineare perfettamente quanto sia stato piccolo il passo tra la performance artistica e il risveglio collettivo, e di conseguenza al radicale cambiamento politico. Va preso però in considerazione che questi eventi avvennero in un momento storico in cui nulla veniva detto o fatto senza attribuirgli un significato politico. Sta al pubblico decidere se intendere il nome della band Antis in maniera letterale, che in lituano vuol dire “papera”, o se vedere il progetto come Anti-S (Anti Soviet). I musicisti infatti si assicurarono che l’ambiguità nel nome della band fosse comprensibile anche alle persone che non parlavano la lingua.
Al giorno d’oggi lo scioglimento dell’Unione Sovietica ci sembra un lontano ricordo, ma non possiamo immaginare cosa possa essere stato per la popolazione lituana poter cantare l’11 Marzo del 1990 quell’inno nazionale che gli fu proibito per più di mezzo secolo. Questa pellicola, creata in un’epoca di libertà di espressione, incoraggia gli spettatori ad apprezzare la bellezza e l’unicità di quel periodo storico, in cui qualunque opera poteva celare un messaggio nascosto da mandare a coloro che erano capaci di interpretarlo. How We Played the Revolution racconta di quel tempo in cui una lotta per la libertà pacifica ma determinata ha unito un intero popolo come non aveva mai fatto.
Anche Milk (2008), come aveva fatto La Haine, si apre con materiale d’archivio sulle reali proteste avvenute negli anni ’70, impostando da subito il contesto storico e politico e riuscendo a dare autenticità alla biografia dell’attivista e politico per i diritti gay Harvey Milk.
La pellicola, diretta da Gus van Sant, compie un ottimo lavoro nel catturare un momento storico nel quale uomini e donne LGBT cominciavano ad essere accettati nonostante la diffusa intolleranza. La sceneggiatura riesce infatti a catturare sia la radicale ambizione politica di Milk che la concretezza dei suoi metodi. La vera punta di diamante però, è la performance di Sean Penn come primo consigliere comunale gay ad essere eletto nella storia Americana. Penn riesce a trasmettere perfettamente il calore di Milk, la sua passione e il suo buon senso politico, che fu tragicamente interrotto dall’omicidio suo e del sindaco di San Francisco George Moscone nel 1978, da parte dal collega Dan White.
Sono il costante rischio di intimidazione, umiliazione e violenza a definire il contesto, e sarà il rifiuto di Milk ad accettarlo e a insistere ad essere ciò che era senza averne vergogna né paura, che lo porterà dall’essere proprietario di un negozio di macchine fotografiche a diventare un leader politico. Il film ci mostra come Milk parlasse alle folle di uomini e donne gay convincendoli che la discriminazione e il pregiudizio che si sono abituati a sopportare in silenzio si può combattere con il voto, con le dimostrazioni e con le proteste, rivendicando quel diritto e quella responsabilità che ha ogni cittadino. La forza del film sta inoltre nel suo straordinario equilibrio e nell’abilità di dare attenzione a tutti gli elementi che lo compongono, dall’amore alla morte, alla politica, al sesso e all’attivismo per i diritti LGBT, senza perdere di vista i particolari della storia di Harvey Milk.
Hunger, il film storico di Steve McQueen, racconta la storia di Bobby Sands, un prigioniero dei combattenti per la libertà dell’Irlanda dell’IRA, che guidò lo sciopero della fame contro la decisione del governo inglese di Margaret Thatcher di revocare lo status di prigioniero politico a lui e i suoi compagni. Il film mostra la crudeltà con la quale i prigionieri venivano trattati ai nei primi anni ottanta nel noto carcere di Maze a Belfast: i funzionari della prigione infatti risposero con altra violenza e brutalità agli scioperi, ma nonostante ciò Sands condusse lo sciopero fino alla sua inevitabile morte, insieme ad altri 10 prigionieri. Alla fine, però, il governo inglese acconsentì a tutte le loro richieste.
La pellicola non esamina né l’arco della vita di Sands prima di quel momento, né tantomeno le problematiche del tempo dell’Irlanda del Nord, rendendolo così diverso da qualunque altro film biografico. Hunger è infatti una meditazione sulla forza di volontà e sulla sopportazione, che utilizza il corpo umano come ultimo luogo di protesta. McQueen stesso ammise che il film era basato proprio sul concetto del corpo inteso come arma, e di come possa essere usato come tale se fosse l'unico mezzo rimasto a disposizione per dare voce alla libertà.
Il passaggio centrale del film, una lunga e ininterrotta ripresa in cui Sands, interpretato da Michael Fassbender, discute sulla moralità del suicidio come arma di protesta con il prete Liam Cunningham, è un incredibile lavoro di scrittura, recitazione e regia.
Registi da tutto il mondo hanno riconosciuto la risonanza di queste storie e hanno deciso di farle proprie, esplorando il tema e creando alcuni tra i loro più straordinari lavori, incarnando un ruolo da messaggeri e dando in questo modo voce al popolo. La cosa più importante che ci dimostrano, infatti, è l’importanza di analizzare e tramandare ciò che è successo in passato, perché fin troppo spesso, con il passare del tempo, si tende a minimizzare gli sforzi che hanno affrontato coloro che si sono ribellati per raggiungere quelle libertà a cui oggi siamo abituati. Queste elencate sono solo alcune tra le tantissime storie che sono state trasmesse con la macchina da presa, e ciò che le accomuna è la caratteristica di non voler scendere a compromessi per raccontarle. E ci lasciano andare con quelle parole, più che attuali, che gridavano nell’estate del 92: “No Justice, No Peace”.
Una rassegna di film "di protesta"
che hanno segnato la settima arte
scritto da Vittoria Colangelo
TR-18
08.01.2021
A pochi mesi dalle dimostrazioni del movimento Black Lives Matter, negli Stati Uniti si è ricominciato a parlare di proteste alla luce degli avvenimenti del 7 gennaio. Ma l’infondato sospetto di un’elezione truccata può essere considerato un elemento che pregiudica la libertà di una comunità? Confrontando quest’ultimo con il grido di una comunità veramente oppressa, ci si chiede se queste si possano effettivamente definire proteste.
Ci basta guardare la filmografia del passato per capire che le rivolte che negli ultimi mesi hanno inondato le piazze e le strade non solo degli Stati Uniti, ma del mondo intero, non sono una novità. La tragica morte di George Floyd per mano della polizia, infatti, è solo l'ennesima dimostrazione di secoli di ingiustizie e discriminazioni in tutto il mondo. Quando però il polverone mediatico alzato dalle proteste comincia a dissolversi, il cinema diviene uno dei pochi strumenti con cui le persone riescono a conservare, metabolizzare e comprendere la complessità della società in cui viviamo e i cambiamenti storici chi ha vissuto prima di noi ha dovuto affrontare.
Indipendentemente dal fatto che questi avvenimenti coinvolgano la razza, il gender, i diritti del lavoro o una moltitudine di altre problematiche che per secoli hanno afflitto comunità emarginate, i film di protesta mostrano come il progresso civile arriva dopo anni di duro lavoro e non tramite un’improvvisa rivelazione collettiva..
I film che seguono hanno in comune un aspetto specifico: il modo in cui la popolazione reagisce alla percezione di un'ingiustizia, e come questa reazione porti spesso alla violenza, e di conseguenza anche a un effettivo ripensamento collettivo.
Come dimostrano questi film i disordini sociali hanno cause complesse, e lo stesso cambiamento nella società è spesso complicato; quando la popolazione insorge i metodi possono essere pacifici, dettati da visioni liberali, ma possono anche portare a distruzione e morte.
Allo stesso modo, purtroppo, le rivolte portano troppo spesso a una risposta brutale da parte di chi è al potere che, nonostante raramente ottenga il risultato sperato, cerca in questa maniera di stroncare i disordini e mantenere la propria posizione. Di seguito abbiamo collezionato solo alcuni tra i migliori film che riescono ad analizzare questo ampio argomento con la sottigliezza e l’attenzione di cui ha bisogno, spesso ricorrendo anche a tecniche cinematografiche rivoluzionarie per raccontare al meglio queste storie.
Il capolavoro nominato agli Oscar di Spike Lee Do the Right Thing - Fa’ la cosa giusta (1989) riesce a rendere in maniera drammatica quanto le complesse tensioni razziali, se esasperate, possano portare alla violenza. Ambientato in una strada di Brooklyn nel giorno più caldo dell’anno, il film segue la vita di Mookie, interpretato dallo stesso Lee che all’epoca aveva solo 24 anni, nei panni di un ragazzo che consegna le pizze di un ristorante italiano in un quartiere abitato in prevalenza da afroamericani. Le scene che seguono sono ormai immagini emblematiche e iconiche dei movimenti contro il razzismo: Lee ha infatti portato sugli schermi, ormai più di 30 anni fa, episodi che ancora oggi sono all’ordine del giorno, ed è stato anticipatore e apripista per tanti altri autori e registi che da lì in poi ci hanno raccontato problematiche e ingiustizie delle comunità afroamericane negli Stati Uniti.
Con i suoi film, Spike Lee fa luce su scomode realtà non per dare una risposta allo spettatore, ma piuttosto per spingerlo a porsi delle domande. In questo caso ci lascia alla fine del film con un parallelismo tra due citazioni sulla violenza come strumento di risoluzione delle ingiustizie, una di Martin Luther King e una di Malcolm X, che esprimono al riguardo due pareri forti e contrastanti.
Proprio riguardo al controverso leader per i diritti umani Malcolm X, Spike Lee ci offre una visione molto più sottile sulla sua linea politica nel suo film biografico Malcolm X (1992). Il regista ci mostra infatti come tutte le esperienze di Malcolm abbiano condizionato le sue opinioni e la sua visione del mondo, e come stesse cambiando quelle stesse opinioni fino al giorno del suo assassinio nel 1965.
Solo un anno dopo la morte dell’attivista, viene fondato nel 1966 il partito dei Black Panthers a Oakland, California, da Huey P. Newton e Bobby Seale. Il documentario The Black Panthers: Vanguard of the Revolution si apre con il groove funky di “Soul Train” dei Chi-Lites, con il gruppo che canta “For God’s sake, why dontcha give more power to the people?”. Il partito nasce come risposta al costante maltrattamento da parte della polizia verso la comunità afroamericana presente in città. Rispondendo violentemente ai loro avversarii Panthers agivano come una forza paramilitare vigilando sull’azione delle forze dell’ordine.
Mentre l’approccio di Martin L. King ebbe un discreto successo, i Black Panthers, con il loro look afro fatto di giacche di pelle e occhiali da sole, resero l’emancipazione afroamericana sfacciata, radicale e molto attraente. L’immagine e il messaggio fecero impazzire i giovani di tutto il paese così come intellettuali e progressisti di tutte le etnie. Allo stesso modo la popolarità del partito cominciò a preoccupare conservatori ed establishment americano, portando il capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, a classificare i Black Panthers come il più grande pericolo alla sicurezza nazionale, dando il via così ad una persecuzione verso i membri del partito. Questo, unito ai conflitti interpersonali, la confusione strutturale del partito e gli episodi violenti, alla fine oscurò tanti dei traguardi che ottennero per la loro comunità.
Il documentario analizza inoltre se i Panthers furono vittima della loro stessa immagine essendo diventati, forse troppo velocemente, dal movimento di quartiere che erano, un movimento nazionale. Questa crescita così repentina li ha portati, forse, a sottovalutare quanto fossero effettivamente potenti i loro nemici: non più la polizia locale di Oakland, ma il governo stesso degli Stati Uniti.
Ciò che rende più che mai allarmante Detroit (2017), è la sua attualità e rilevanza contemporanea. Più di quaranta persone morirono nei cinque giorni di protesta dell’estate del 1969, la maggior parte dei quali afroamericani e per mano delle forze dell’ordine. Nel tentativo di analizzare la rivolta, Kathryn Bigelow si focalizza sulla straziante tragedia sempre più significativa delle complicate tensioni razziali che tutt’oggi perseguitano gli Stati Uniti.
Detroit si apre con una lezione di storia in cui gli straordinari dipinti di Jacob Lawrence ci raccontano la grande migrazione degli afroamericani dalle campagne del sud verso le zone industriali degli Stati Uniti a nord e ad ovest. Qui il disagio dei ghetti offre una vita dove l’uguaglianza è un’illusione e di conseguenza il cambiamento è inevitabile. Particolarmente interessante è il personaggio di Melvin Dismukes, interpretato dall’inglese John Boyega, la guardia giurata che rimane incastrata tra la sua razza e la sua uniforme, cercando invano di mediare tra la brutalità della polizia e i sospetti torturati, guadagnandosi così sfiducia e disprezzo da entrambe le parti.
Grazie all’uso di lenti vintage, Barry Ackroyd, il direttore della fotografia, conferisce un aspetto documentaristico alla storia, combinando al meglio le riprese digitali con il materiale d’archivio.
Nonostante le rivolte dell’estate del 1992 avessero preso piede molto tempo prima della diffusione dei cellulari, queste furono incredibilmente catturate on footage dall’inizio alla fine. Il documentario LA 92 (2017), che esce a 25 anni da quei 6 giorni di proteste, lascia parlare da sole le immagini d’archivio: dall’uccisione di Rodney King da parte della polizia agli episodi di saccheggio, violenza e disordine che seguirono. Unito a una narrazione concisa, la pellicola lascia in testa agli spettatori le parole, più che attuali, che gridavano quell’estate del 92: “No Justice, No Peace”.
Ciò che spaventa di più di questo documentario è l’incredibile somiglianza tra ciò che accadde quell’agosto del 1992 a Los Angeles e ciò che è successo pochi mesi fa a Minneapolis e a seguire in tutto il mondo. Il fattore scatenante è stato l’estrema violenza e brutalità da parte della polizia, e ciò che è seguito sono le rivolte e la devastazione della città. Una storia che tutti conosciamo.
Le stesse dinamiche ci appaiono più che rilevanti anche sulla costa opposta dell’Atlantico: l’ormai cult francese di Mathieu Kassovitz, La Haine - L’odio (1995), prende luogo immediatamente dopo un’enorme rivolta in una banlieue parigina, causata da un’aggressione a un immigrato da parte di un agente della Polizia. Il film cattura la dura realtà urbana della capitale francese interamente in bianco e nero, e segue tre amici della vittima che al finire della rivolta trovano una pistola della polizia e discutono se rispondere alla violenza con altra violenza.
Il film si apre con autentico materiale di archivio su rivolte cittadine, riuscendo così a stabilire immediatamente il tono e a contestualizzare la storia romanzata con avvenimenti sociali realmente accaduti. Kassovitz dimostra inoltre in questo film la sua abilità con la macchina da presa utilizzando innovative tecniche cinematografiche tra cui l’uso di uno dei primi droni per girare la famosa scena in cui la telecamera dalla finestra del dj vaga a volo di uccello sul quartiere popolare. Iconica la scena di Vinz (Vincent Cassel) allo specchio in cui punta al suo riflesso la sua mano come fosse una pistola, imitando il noto personaggio che interpreta Robert De Niro in Taxi Driver. Entrambi i personaggi ci dimostrano quanto siano costantemente esposti alla violenza e alla brutalità, che diventa quindi normale e legittima ai loro occhi, e li porta così ad usare la violenza come catalizzatore del cambiamento sociale.
Kassovitz enfatizza inoltre la stretta correlazione che esiste tra i personaggi e il loro ambiente, analizzando l’emarginazione e reclusione di comunità povere in specifiche zone urbane, sia mentalmente che fisicamente, ricordando molto le scene iniziali delle pellicole americane Menace II Society (1993) e Boyz n the Hood (1991).
L’unicità di quest’opera è data inoltre dal fatto di non essere soggetta al periodo storico in cui è stata realizzata, né tanto meno a quella determinata situazione sociopolitica, rimanendo contestualmente universale. La premessa è senza tempo e senza confini, perché riesce a dare voce a coloro che vengono messi a tacere nel momento in cui hanno più bisogno di essere ascoltati.
Esiste un film, considerato uno dei film politici più influenti della storia, che venne usato dai Black Panthers come film di formazione, e che ancora oggi viene mostrato al pentagono come esempio di come funzionano i conflitti moderni e sul come nascono e operano le insurrezioni. Dal 1954 al 1962 un gruppo conosciuto come Front de Libération Nationale (FLN) lottò contro le forze coloniali francesi per l’indipendenza algerina. Il conflitto è stato uno dei primi esempi del moderno stato di guerra, dove le forze militari finanziate da stati potenti incontrano difficoltà contro guerriglieri ribelli. La battaglia di Algeri (1966), apprezzato esperimento del cinema verité, documenta questo pezzo di storia moderna in stile cinema-reportage ottenendo una resa così realistica che molti spettatori furono spinti a pensare che il regista Gillo Pontecorvo avesse usato filmati d’archivio della reale insurrezione.
Nonostante il film abbia senza dubbio più simpatia per gli FLN che per i francesi, dimostra come entrambe le fazioni decisero di ricorrere a metodi estremi: gli FLN usarono donne e bambini per atti di terrorismo contro i soldati francesi, mentre i francesi ricorsero alla tortura e alla violenza contro i protestanti pacifici civili.
Ciò che forse rende questo film particolarmente realistico sono da un lato le influenze di Pontecorvo, che guardava ai due capolavori neorealisti di Roberto Rossellini Roma Città Aperta e Paisà, e dall’altra la sua stessa esperienza in guerra come partigiano antifascista, avendo in questo modo chiaro ciò che voleva trasmettere di quelle rivolte. La pellicola, inizialmente intesa come propaganda anticolonialista, era stata abbozzata dal leader ribelle delle FLN Saadi Yacef durante la prigionia, il quale approcciò, una volta uscito, tre registi: Luchino Visconti, Francesco Rosi e Gillo Pontecorvo. Lo stesso Yacef diventò poi non solo produttore del film, ma anche attore, ricreando sullo schermo quegli atti che aveva realmente commesso pochi anni prima. Yacef, insieme agli altri attori presi dalla strada, riescono a portare in scena quella forza profonda e veritiera che solo chi ha provato davvero quella rabbia e sofferenza nella propria vita sarebbe riuscito a ricreare.
Infine, rimane emblematica la scena in cui il colonnello Mathieu, interpretato dall’unico attore professionista Jean Martin, chiede ai giornalisti di accettare le conseguenze della guerra se vogliono che vinca la Francia, esponendo così la scomoda verità dietro al mantenimento dell’ordine pubblico: chi sta al comando, infatti, non vuole sapere né avere a che fare con il lavoro sporco.
Spesso paragonato alla Battaglia di Algeri per il suo modo di fare cinema politico in maniera documentaristica e rivoluzionaria, La corazzata Potëmkin (1925), con la sua iconica scena dei “Gradini di Odessa”, è una memorabile rappresentazione dell’ammutinamento avvenuto sulla nave corazzata Potëmkin nel porto della città di Odessa, nell’attuale Ucraina, nel 1905.
Ispirato dalla rivoluzione comunista russa del tempo, il film racconta dei marinai che si ribellarono contro il loro stesso comandante a causa delle terribili condizioni igienico sanitarie sull’imbarcazione. I rivoltosi sono supportati dalla popolazione di Odessa, il che porta gli uomini dello Zar a reagire brutalmente sui civili.
Il film fu così potente che per molti anni fu vietato in molte nazioni compresala stessa Unione Sovietica checredeva potesse incitare la popolazione alla rivolta. La corazzata Potëmkin ha dimostrato quanto le immagini simboliche possano avere un enorme impatto emotivo ed intellettuale sugli spettatori.
Oltre ad essere considerato propaganda rivoluzionaria, il film è stato anche l’occasione per il regista Sergej Ėjzenštejn di sperimentare innovative tecniche di montaggio per riuscire a dare un ritmo intenso al film.
Il film politico di Jean-Luc Godard La chinoise (1967), è ambientato quasi interamente in un piccolo appartamento parigino, e documenta la vita di cinque giovani rivoluzionari Maoisti che dibattono in merito di violenza come mezzo per raggiungere i loro obiettivi. L’infinito dialogo dei personaggi rende l’impegno all’insurrezione violenta come una bizzarra, ipotetica possibilità: una messa in scena che gli permette di mettersi nei panni dei veri ribelli e giocare a fare la rivoluzione. Godard ci racconta questi personaggi anche attraverso l’appartamento in cui vivono, che nonostante sia arredato con mobili rossi e riempito da copie del Libretto Rosso di Mao, lascia trapelare l’anima della piccola borghesia francese di cui fanno parte i personaggi. La pianificazione dell’assassinio del leader politico viene filmata attraverso il movimento della macchina da presa che, dall’esterno delle finestre, si muove con i personaggi lungo l’appartamento, enfatizzando la fantasia utopica del gruppo che non può che sopravvivere solo all’interno di quell’appartamento parigino.
Questa pellicola segna per Godard un cambiamento nei film che girerà in futuro, che prenderanno una piega più apertamente politica, ma fu anche premonitrice della protesta studentesca che scoppiò da un lato all’altro della Francia solo l’anno seguente.
How We Played the Revolution (2012) introduce gli spettatori in quella che viene chiamata la “Singing Revolution” della Lituania nata dal gruppo Antis, raccontando un fenomeno senza precedenti nella storia non solo della musica, ma delle proteste. Il look estremamente teatrale e grottesco della band, unito ai testi enigmatici e beffardi sul regime sovietico al quale erano sottoposti al tempo, furono il mix perfetto per risvegliare l’annoiato popolo lituano dagli anni di Breznev. La pellicola comincia con l’improvvisa crescita di popolarità della band che anticipò l’uscita della nazione dall’URSS, e lo fa combinando materiale d’archivio e testimonianze da parte di quelle persone che furono coinvolte direttamente in questo straordinario progetto.
Il punto di forza del film sta nel sottolineare perfettamente quanto sia stato piccolo il passo tra la performance artistica e il risveglio collettivo, e di conseguenza al radicale cambiamento politico. Va preso però in considerazione che questi eventi avvennero in un momento storico in cui nulla veniva detto o fatto senza attribuirgli un significato politico. Sta al pubblico decidere se intendere il nome della band Antis in maniera letterale, che in lituano vuol dire “papera”, o se vedere il progetto come Anti-S (Anti Soviet). I musicisti infatti si assicurarono che l’ambiguità nel nome della band fosse comprensibile anche alle persone che non parlavano la lingua.
Al giorno d’oggi lo scioglimento dell’Unione Sovietica ci sembra un lontano ricordo, ma non possiamo immaginare cosa possa essere stato per la popolazione lituana poter cantare l’11 Marzo del 1990 quell’inno nazionale che gli fu proibito per più di mezzo secolo. Questa pellicola, creata in un’epoca di libertà di espressione, incoraggia gli spettatori ad apprezzare la bellezza e l’unicità di quel periodo storico, in cui qualunque opera poteva celare un messaggio nascosto da mandare a coloro che erano capaci di interpretarlo. How We Played the Revolution racconta di quel tempo in cui una lotta per la libertà pacifica ma determinata ha unito un intero popolo come non aveva mai fatto.
Anche Milk (2008), come aveva fatto La Haine, si apre con materiale d’archivio sulle reali proteste avvenute negli anni ’70, impostando da subito il contesto storico e politico e riuscendo a dare autenticità alla biografia dell’attivista e politico per i diritti gay Harvey Milk.
La pellicola, diretta da Gus van Sant, compie un ottimo lavoro nel catturare un momento storico nel quale uomini e donne LGBT cominciavano ad essere accettati nonostante la diffusa intolleranza. La sceneggiatura riesce infatti a catturare sia la radicale ambizione politica di Milk che la concretezza dei suoi metodi. La vera punta di diamante però, è la performance di Sean Penn come primo consigliere comunale gay ad essere eletto nella storia Americana. Penn riesce a trasmettere perfettamente il calore di Milk, la sua passione e il suo buon senso politico, che fu tragicamente interrotto dall’omicidio suo e del sindaco di San Francisco George Moscone nel 1978, da parte dal collega Dan White.
Sono il costante rischio di intimidazione, umiliazione e violenza a definire il contesto, e sarà il rifiuto di Milk ad accettarlo e a insistere ad essere ciò che era senza averne vergogna né paura, che lo porterà dall’essere proprietario di un negozio di macchine fotografiche a diventare un leader politico. Il film ci mostra come Milk parlasse alle folle di uomini e donne gay convincendoli che la discriminazione e il pregiudizio che si sono abituati a sopportare in silenzio si può combattere con il voto, con le dimostrazioni e con le proteste, rivendicando quel diritto e quella responsabilità che ha ogni cittadino. La forza del film sta inoltre nel suo straordinario equilibrio e nell’abilità di dare attenzione a tutti gli elementi che lo compongono, dall’amore alla morte, alla politica, al sesso e all’attivismo per i diritti LGBT, senza perdere di vista i particolari della storia di Harvey Milk.
Hunger, il film storico di Steve McQueen, racconta la storia di Bobby Sands, un prigioniero dei combattenti per la libertà dell’Irlanda dell’IRA, che guidò lo sciopero della fame contro la decisione del governo inglese di Margaret Thatcher di revocare lo status di prigioniero politico a lui e i suoi compagni. Il film mostra la crudeltà con la quale i prigionieri venivano trattati ai nei primi anni ottanta nel noto carcere di Maze a Belfast: i funzionari della prigione infatti risposero con altra violenza e brutalità agli scioperi, ma nonostante ciò Sands condusse lo sciopero fino alla sua inevitabile morte, insieme ad altri 10 prigionieri. Alla fine, però, il governo inglese acconsentì a tutte le loro richieste.
La pellicola non esamina né l’arco della vita di Sands prima di quel momento, né tantomeno le problematiche del tempo dell’Irlanda del Nord, rendendolo così diverso da qualunque altro film biografico. Hunger è infatti una meditazione sulla forza di volontà e sulla sopportazione, che utilizza il corpo umano come ultimo luogo di protesta. McQueen stesso ammise che il film era basato proprio sul concetto del corpo inteso come arma, e di come possa essere usato come tale se fosse l'unico mezzo rimasto a disposizione per dare voce alla libertà.
Il passaggio centrale del film, una lunga e ininterrotta ripresa in cui Sands, interpretato da Michael Fassbender, discute sulla moralità del suicidio come arma di protesta con il prete Liam Cunningham, è un incredibile lavoro di scrittura, recitazione e regia.
Registi da tutto il mondo hanno riconosciuto la risonanza di queste storie e hanno deciso di farle proprie, esplorando il tema e creando alcuni tra i loro più straordinari lavori, incarnando un ruolo da messaggeri e dando in questo modo voce al popolo. La cosa più importante che ci dimostrano, infatti, è l’importanza di analizzare e tramandare ciò che è successo in passato, perché fin troppo spesso, con il passare del tempo, si tende a minimizzare gli sforzi che hanno affrontato coloro che si sono ribellati per raggiungere quelle libertà a cui oggi siamo abituati. Queste elencate sono solo alcune tra le tantissime storie che sono state trasmesse con la macchina da presa, e ciò che le accomuna è la caratteristica di non voler scendere a compromessi per raccontarle. E ci lasciano andare con quelle parole, più che attuali, che gridavano nell’estate del 92: “No Justice, No Peace”.