Il regista britannico in bilico tra
anonimato e mito,
di Virgil Darelli
TR-14
26.11.2020
Watkins raggiunse la maturità stilistica a diciannove anni, lavorando alla BBC. Erano i tempi in cui la televisione inglese produceva documentari di qualità, con registi come Ken Loach e Ken Russell. Culloden (1964), il suo primo film, rifondò il genere docudrama con un sorprendente anacronismo che riportava la storia dritta nel presente. Filmò l’ultima battaglia ad avere luogo sul suolo inglese (1746) come se fosse una newsreel¸ un reportage come se ne vedevano a quel tempo sul Vietnam. Un reporter intervistava i soldati mentre una tragedia all’orlo del ridicolo si svolgeva davanti alle Arriflex traballanti. Il voice-over ironico presentava i fatti in modo tutt’altro che neutrale.
Ma Watkins non voleva decostruire la storia, piuttosto ricostruirla. Andando verso un realismo estremo, appare inevitabile rappresentare la rappresentazione stessa, i media. André Bazin non aveva un’idea troppo distante da questa: posto che esistono “mille modi per andare verso il reale”, il realismo non cerca necessariamente di semplificare il mondo; piuttosto integra materiali eterogenei all’interno di una messa in scena poco simbolizzata. In Culloden Watkins, oltre a uno studio storico di riferimento, usò come attori i discendenti dei morti di quella battaglia, parlanti gaelico e tradotti simultaneamente dal voice-over, mantenendo così l’estraneità di quello che viene filmato.
Il film successivo vinse l’Oscar al miglior documentario. The War Game, di nuovo prodotto dalla BBC, fu trasmesso solo vent’anni dopo. Si trattava di un finto cinegiornale che racconta l’inizio di una guerra nucleare e tutte le catastrofi che ne sarebbero seguite, dalle evacuazioni alle carestie fino alle conseguenze delle radiazioni. Fu giudicato dall’emittente troppo forte per le audience del tempo della guerra fredda.
La rappresentazione televisiva diventò onnipresente nei film girati fuori dal Regno Unito da Watkins. The Gladiators (1968) è un grande reality show ante litteram. In un mondo dove le potenze della Terra cercano sfoghi per evitare i conflitti, due squadre di soldati svolgono i “Peace Games” con l’obiettivo di eliminarsi a vicenda. Gli scontri, il sovversivo che vuole boicottare i giochi, gli operatori dell’intelligenza artificiale che controlla il gioco, addirittura l’alleanza tra i due antagonisti, l’uomo occidentale e la donna orientale, che dovrebbe far saltare le regole, tutto diventa un flusso che annoia persino i generali che stanno seguendo i propri team da un monitor televisivo.
Lo stesso tipo di ‘gamification del sistema’ avviene in Punishment Park (1970), girato negli USA. Invece dei soldati ci sono dei generici “radicali” a cui la polizia offre, al posto della prigione, di partecipare a un gioco mortale dove bisogna fuggire dai poliziotti violenti. Anche qui quello che sembra un delirio fantascientifico appare scandalosamente vicino alla realtà. Gli attori partecipanti (giovani o non professionisti) erano abitanti della California che vivevano il clima delle proteste antivietnamite e delle repressioni violente, anche fatali.
Il ‘mondo là fuori’ appare invece più lontano in The Trap (1975), una storia ambientata totalmente in un bunker dove risiede la famiglia di uno scienziato nucleare. Nella stanza c’è uno schermo, dal quale gli abitanti possono vedere sia i visitatori che passano i controlli per entrare nel bunker, sia la televisione. Un disturbante zapping di canali da tutto il mondo fornisce l’ambientazione, con telegiornali e programmi di storia a dare una panoramica del contesto globale attuale: è l’ultimo giorno del 1999. The Trap è un film televisivo come Culloden, ma questa volta girato con telecamere e montato durante la registrazione, come un vero prodotto televisivo in diretta. Anche qui, il punto di vista televisivo è esplicitato e sentiamo Watkins fare domande ai membri della famiglia, come se si trattasse di un documentario etnografico. Una sorta di reality television centrata sui sentimenti e sui drammi familiari. Riprendendo il leitmotiv del rivoluzionario integrato nel sistema (classica fonte di paranoia per la critica marxista dello spettacolo), Watkins mette in scena un litigio tra lo scienziato e il fratello ‘critico’ venuto per la cena di Capodanno. Parlano di nucleare, di vegetarianesimo, di sicurezza vs libertà. Colpisce la polarizzazione degli argomenti e la vicinanza tra il discorso dei media e quello dei familiari/amici. Un meccanismo che potrebbe andare avanti all’infinito e che il film interrompe d’improvviso, come in altri film di Watkins, come se l’unico modo fosse quello di spegnere il televisore.
Un film molto interessante e complesso è Evening Land (1976), perché simile all’esperienza quotidiana dello spettatore ancora oggi, nonostante tutto: la copertura televisiva di una situazione di crisi nazionale, un grande sciopero seguito dal terrorismo (siamo nel 1976, l’anno del rapimento Moro, ma i temi che fanno notizia non sono poi così diversi da oggi). I punti di vista sono molteplici, oltre al telegiornale ci sono riprese presumibilmente fatte da operatori del sindacato, ma tutto quello che si vede è filtrato dal medium televisivo, di cui si percepisce chiaramente la limitatezza. L’unico elemento extradiegetico è la musica, stranamente invadente ed enfatica, che unifica le sequenze in un flusso onirico. Per lo spettatore è complicato capire la verità della questione dibattuta tra operai, industriali e membri del governo, perché le fonti sono tutte parziali e tendenziose.
La commune, il testamento artistico di Watkins, porta all’estremo questo stile. È un film di circa cinque ore che racconta le vicende della rivoluzione più in voga negli ambienti alternativi, le rivolte che portarono alla proclamazione di indipendenza di Parigi nel 1871. Le riprese iniziano mostrando il teatro di posa all’interno del quale è girato tutto il film. Subito dopo, inizia un lungo reportage di guerra, con i due cronisti che seguono tutta la vicenda. A volte gli attori, sempre non professionisti, escono dal personaggio senza soluzione di continuità e iniziano a parlare di problemi contemporanei, come già avveniva in parte in Evening Land. Sono le loro opinioni, e non quelle del regista, che sentiamo.
Avendo egli più di tutti incarnato la critica di sinistra ai media, è singolare che la carriera di Watkins abbia subìto un picco negativo proprio negli anni della contestazione, quando quella critica divenne corrente. Molti temi ricorrono ancora oggi (oltre a quelli citati, si parla di antieuropeismo e di ambientalismo). Quanto quei temi siano legati all’agenda setting dell’informazione contemporanea e quanto i media incidano sul modo in cui si discute e si risolvono, è ancora questione attuale. Per Watkins il modo in cui un messaggio è costruito e distribuito (la programmazione televisiva) influisce sul modo in cui è recepito. Non è un’autoreferenzialità ‘d’autore’. Il contenuto stesso dei suoi film è la forma audiovisiva, di cui non si può ignorare la standardizzazione (quella che lui chiama la “monoforma”). In ogni caso, il solo esplorare i media con il cinema si rivela estremamente creativo, anticipando film intermediali come Redacted o Le cinque variazioni, come si è visto con il falso reportage storico e il telegiornale ucronico. Dai primi problemi con la BBC, Watkins si trova in esilio permanente dall’UK e ormai da molti anni si è stabilito in Lituania.
Il regista britannico in bilico tra
anonimato e mito,
di Virgil Darelli
TR-14
26.11.2020
Watkins raggiunse la maturità stilistica a diciannove anni, lavorando alla BBC. Erano i tempi in cui la televisione inglese produceva documentari di qualità, con registi come Ken Loach e Ken Russell. Culloden (1964), il suo primo film, rifondò il genere docudrama con un sorprendente anacronismo che riportava la storia dritta nel presente. Filmò l’ultima battaglia ad avere luogo sul suolo inglese (1746) come se fosse una newsreel¸ un reportage come se ne vedevano a quel tempo sul Vietnam. Un reporter intervistava i soldati mentre una tragedia all’orlo del ridicolo si svolgeva davanti alle Arriflex traballanti. Il voice-over ironico presentava i fatti in modo tutt’altro che neutrale.
Ma Watkins non voleva decostruire la storia, piuttosto ricostruirla. Andando verso un realismo estremo, appare inevitabile rappresentare la rappresentazione stessa, i media. André Bazin non aveva un’idea troppo distante da questa: posto che esistono “mille modi per andare verso il reale”, il realismo non cerca necessariamente di semplificare il mondo; piuttosto integra materiali eterogenei all’interno di una messa in scena poco simbolizzata. In Culloden Watkins, oltre a uno studio storico di riferimento, usò come attori i discendenti dei morti di quella battaglia, parlanti gaelico e tradotti simultaneamente dal voice-over, mantenendo così l’estraneità di quello che viene filmato.
Il film successivo vinse l’Oscar al miglior documentario. The War Game, di nuovo prodotto dalla BBC, fu trasmesso solo vent’anni dopo. Si trattava di un finto cinegiornale che racconta l’inizio di una guerra nucleare e tutte le catastrofi che ne sarebbero seguite, dalle evacuazioni alle carestie fino alle conseguenze delle radiazioni. Fu giudicato dall’emittente troppo forte per le audience del tempo della guerra fredda.
La rappresentazione televisiva diventò onnipresente nei film girati fuori dal Regno Unito da Watkins. The Gladiators (1968) è un grande reality show ante litteram. In un mondo dove le potenze della Terra cercano sfoghi per evitare i conflitti, due squadre di soldati svolgono i “Peace Games” con l’obiettivo di eliminarsi a vicenda. Gli scontri, il sovversivo che vuole boicottare i giochi, gli operatori dell’intelligenza artificiale che controlla il gioco, addirittura l’alleanza tra i due antagonisti, l’uomo occidentale e la donna orientale, che dovrebbe far saltare le regole, tutto diventa un flusso che annoia persino i generali che stanno seguendo i propri team da un monitor televisivo.
Lo stesso tipo di ‘gamification del sistema’ avviene in Punishment Park (1970), girato negli USA. Invece dei soldati ci sono dei generici “radicali” a cui la polizia offre, al posto della prigione, di partecipare a un gioco mortale dove bisogna fuggire dai poliziotti violenti. Anche qui quello che sembra un delirio fantascientifico appare scandalosamente vicino alla realtà. Gli attori partecipanti (giovani o non professionisti) erano abitanti della California che vivevano il clima delle proteste antivietnamite e delle repressioni violente, anche fatali.
Il ‘mondo là fuori’ appare invece più lontano in The Trap (1975), una storia ambientata totalmente in un bunker dove risiede la famiglia di uno scienziato nucleare. Nella stanza c’è uno schermo, dal quale gli abitanti possono vedere sia i visitatori che passano i controlli per entrare nel bunker, sia la televisione. Un disturbante zapping di canali da tutto il mondo fornisce l’ambientazione, con telegiornali e programmi di storia a dare una panoramica del contesto globale attuale: è l’ultimo giorno del 1999. The Trap è un film televisivo come Culloden, ma questa volta girato con telecamere e montato durante la registrazione, come un vero prodotto televisivo in diretta. Anche qui, il punto di vista televisivo è esplicitato e sentiamo Watkins fare domande ai membri della famiglia, come se si trattasse di un documentario etnografico. Una sorta di reality television centrata sui sentimenti e sui drammi familiari. Riprendendo il leitmotiv del rivoluzionario integrato nel sistema (classica fonte di paranoia per la critica marxista dello spettacolo), Watkins mette in scena un litigio tra lo scienziato e il fratello ‘critico’ venuto per la cena di Capodanno. Parlano di nucleare, di vegetarianesimo, di sicurezza vs libertà. Colpisce la polarizzazione degli argomenti e la vicinanza tra il discorso dei media e quello dei familiari/amici. Un meccanismo che potrebbe andare avanti all’infinito e che il film interrompe d’improvviso, come in altri film di Watkins, come se l’unico modo fosse quello di spegnere il televisore.
Un film molto interessante e complesso è Evening Land (1976), perché simile all’esperienza quotidiana dello spettatore ancora oggi, nonostante tutto: la copertura televisiva di una situazione di crisi nazionale, un grande sciopero seguito dal terrorismo (siamo nel 1976, l’anno del rapimento Moro, ma i temi che fanno notizia non sono poi così diversi da oggi). I punti di vista sono molteplici, oltre al telegiornale ci sono riprese presumibilmente fatte da operatori del sindacato, ma tutto quello che si vede è filtrato dal medium televisivo, di cui si percepisce chiaramente la limitatezza. L’unico elemento extradiegetico è la musica, stranamente invadente ed enfatica, che unifica le sequenze in un flusso onirico. Per lo spettatore è complicato capire la verità della questione dibattuta tra operai, industriali e membri del governo, perché le fonti sono tutte parziali e tendenziose.
La commune, il testamento artistico di Watkins, porta all’estremo questo stile. È un film di circa cinque ore che racconta le vicende della rivoluzione più in voga negli ambienti alternativi, le rivolte che portarono alla proclamazione di indipendenza di Parigi nel 1871. Le riprese iniziano mostrando il teatro di posa all’interno del quale è girato tutto il film. Subito dopo, inizia un lungo reportage di guerra, con i due cronisti che seguono tutta la vicenda. A volte gli attori, sempre non professionisti, escono dal personaggio senza soluzione di continuità e iniziano a parlare di problemi contemporanei, come già avveniva in parte in Evening Land. Sono le loro opinioni, e non quelle del regista, che sentiamo.
Avendo egli più di tutti incarnato la critica di sinistra ai media, è singolare che la carriera di Watkins abbia subìto un picco negativo proprio negli anni della contestazione, quando quella critica divenne corrente. Molti temi ricorrono ancora oggi (oltre a quelli citati, si parla di antieuropeismo e di ambientalismo). Quanto quei temi siano legati all’agenda setting dell’informazione contemporanea e quanto i media incidano sul modo in cui si discute e si risolvono, è ancora questione attuale. Per Watkins il modo in cui un messaggio è costruito e distribuito (la programmazione televisiva) influisce sul modo in cui è recepito. Non è un’autoreferenzialità ‘d’autore’. Il contenuto stesso dei suoi film è la forma audiovisiva, di cui non si può ignorare la standardizzazione (quella che lui chiama la “monoforma”). In ogni caso, il solo esplorare i media con il cinema si rivela estremamente creativo, anticipando film intermediali come Redacted o Le cinque variazioni, come si è visto con il falso reportage storico e il telegiornale ucronico. Dai primi problemi con la BBC, Watkins si trova in esilio permanente dall’UK e ormai da molti anni si è stabilito in Lituania.