Il cinema come specchio di una
società in trasformazione,
di Antonio Orrico
TR-126
10.04.2025
In una specifica sequenza, al centro del meraviglioso Still Life (2006), Jia Zhang-ke riprende un uomo che fa ritorno alla propria città natale e scopre, suo malgrado, che gli edifici in cui aveva vissuto nella città di Chongqing sono stati completamente rasi al suolo, per far spazio al progetto di costruzione della famigerata Diga delle Tre Gole. A questo punto, il regista cinese riprende il Monumento al Progresso e alla Prosperità di Chongqing in campo medio, lasciando che quest’ultimo, improvvisamente, prenda letteralmente il volo in un momento surreale che sfocia in un realismo magico sospeso tra speranza e amarezza. In questa sequenza è contenuto tutto il mondo di Jia Zhang-ke, un autore ormai di caratura internazionale, capace di restituire, attraverso la sua filmografia, una Cina completamente nuova, ripresa in tutte le sue contraddizioni e in tutte le sue bellezze, nelle sue storture (anche burocratiche) e nelle sue meraviglie.
Il cinema di Jia Zhang-ke si muove completamente su una dialettica che punta alla rappresentazione di uno Stato in cui il potere, nonostante l’apparente sguardo autocratico dettato dall’eredità di Mao, non ha altra valenza che quella simulacrale. Mao diventa il passe-partout per spiegare una Cina che è cambiata solamente nella sua facciata principale, esclusivamente nel rapporto che vige tra la formazione di quella che è un’apparente promessa di emancipazione, presente sempre all’interno dei suoi film, e quella che è invece la realtà dei fatti, ovvero una totale sottomissione al persistente rapporto di forza che vige tra l’individuo e l’istituzione cinese, dove il primo è solo apparentemente libero.
Ecco spiegato, in parole povere, anche perché il cineasta cinese sia definito dai più, in modo fuorviante e errato, come un vero e proprio alfiere dello Stato, un cantore della Repubblica Popolare Cinese. Rispetto alle aspettative, in realtà, il lavoro del regista è decisamente più critico, capace anche di sfruttare simboli e icone tipiche di una certa politica filo-comunista per formare, piuttosto, un crocevia polisemico, in cui il lavoro e il processo di modernizzazione del proprio Paese assume dei connotati inevitabilmente negativi. Jia Zhang-ke preferisce, nelle sue narrazioni, concentrarsi con notevole sensibilità e realismo, con un tono che alcune volte lascia spazio anche al fantasticare degli spettatori mentre altre si dirige verso il documentaristico, su coloro che sono stati “lasciati indietro” dal processo di modernizzazione cinese. Si tratta perlopiù di outsiders, tra migranti della Mainland, lavoratori precari, piccoli criminali e individui che sono parte della Storia del Paese solamente in modo figurativo.
Still Life (2006)
La marginalità
Lo si può notare già a partire dalle prime sequenze di Xiao Wu (1998), esordio del cineasta nel lungometraggio, dove il montaggio alternato pone in analogia il furto su un bus di un borseggiatore, emarginato e incapace di adattarsi alla nuova società, e l’immagine del santino di Mao sul cruscotto della vettura. Si tratta di una vera e propria dichiarazione d’intenti, che sembra anche avallare questa nuova forma di “auto-imprenditoria” che diventa palese espressione di una classe giovanile senza prospettive, che cerca di restare rilevante in un mondo che sta inevitabilmente cambiando e che si riscopre molto più esclusivo, al punto tale da negare l’inclusione del protagonista (un outsider in piena regola) nel finale. Una negazione che inevitabilmente investe anche l’ambito relativo alla memoria storica, intesa come tensione che si crea tra passato e presente. Jia racconta una nazione in transizione, con un linguaggio che rifiuta tanto la propaganda quanto la nostalgia, restituendo un ritratto sincero e partecipe dei suoi personaggi. La sua macchina da presa si muove tra le crepe del sistema, raccogliendo frammenti di realtà che diventano universali.
Il secondo lungometraggio Zhantai (Platform, 2000) rappresenta la massima espressione di questa tensione, fondendo individualità e collettività. Restituendo allo spettatore un periodo cruciale della Storia del Paese (dal 1979 al 1989) attraverso la prospettiva di un gruppo teatrale itinerante, Jia Zhang-ke immortala l'identità reale della propria Nazione, portandola alla formazione di quei dilemmi esistenziali e sociali che rappresentano un sistema di classi e di valori che è costantemente messo in discussione, in grado di far smarrire i suoi abitanti e sovrastarli.
Quella di Zhantai è una Cina che inizialmente si oppone in maniera ostinata alla voglia di progresso, ma che poi è praticamente costretta a condividere ed assorbire tutti questi cambiamenti, a partire dalla privatizzazione dell’area economica per giungere all’implosione del settore culturale. Un mondo diviso in due, che il regista rappresenta in modo ambivalente tramite ellissi temporali e inquadrature statiche, tutte presenti in scene chiave del film, come quella della rappresentazione teatrale. Proprio tramite quest’ultima, si comprende meglio il senso dell’opera: l’adesione ad un credo sempre più inesistente e che crea un senso di perdita generazionale, così accentuato da far comprendere allo spettatore che la percezione della modernità non è omogenea, ma appare quasi forzata agli stessi abitanti cinesi.
Zhantai (Platform, 2000)
Perdita e dislocazione
C’è dunque il desiderio di una vita diversa, di voler uscire al di fuori dei binari prestabiliti. Unknown Pleasures (2002) segna una svolta nel linguaggio e nella forma, più cruda e sporca, dove ad esaltarsi sono le insegne al neon e gli spazi vuoti di Datong, segno di una dislocazione permanente ed esempio fulgido e notevole di una Cina ormai alle prese con la vita frenetica dettata dalla globalizzazione, con una realtà che ormai ha cancellato ogni minimo cenno d’identità nazionale e personale. I due protagonisti, Wei Wei Zhao e Zhao Tao, si riscoprono così emuli di un tipo di cinema, ovvero quello di Hong Kong, che non fa altro che acuire le contraddizioni di una generazione allo sbando, che vuole sfuggire all’anonimato della vita (rappresentata anche dalle scene in discoteca, in cui l’uso del digitale non fa altro che illustrare il “caos giovanile”). Il progresso è sì un obiettivo raggiunto, ma appare come qualcosa di sofferto e forzato, dove le trasformazioni urbane sono simbolo palese di una crescita economica che lascia con sé molti strascichi, come la perdita delle radici.
A dimostrarlo, oltre alla sequenza di Still Life descritta in precedenza, simbolo dell’ascesa dell’economia cinese e del contemporaneo abbandono dei protagonisti “attivi” di questa scalata, è un’altra sequenza chiave di un film, The World (2004), che mostra ancora una volta l’intento, da parte di Jia Zhang-ke, di profanare i miracoli del progresso economico e di sconfiggere l’ideologia dominante in Cina. In questa sequenza, formata da un piano sequenza in cui la macchina da presa si libra in alto con un plongée, svelando il parco quale simulacro post-moderno dove i visitatori preferiscono gli involucri al contenuto, è contenuto l’intero concetto su cui si basa la Cina odierna: l'ibrido ormai irreversibile tra la cultura asiatica e quella globalizzata ha portato ad una radicale falsificazione della stessa Nazione, ormai svuotata di significato e addetta solamente al culto del suo significante.
Unknown Pleasures (2002)
The World è un vero e proprio film-dispositivo, che mette in pratica le teorie di controllo di Agamben e di Foucault. Tutto è osservabile e, soprattutto, tutto è riproducibile. Ma il regista utilizza la sua regia e la sua visualità anche per “profanare” quella che è l’ideologia dominante cinese, un Cavallo di Troia strategico che ha il compito di mostrare la complessità e le contraddizioni della modernizzazione e l’alienazione derivante da una Cina completamente globalizzata e geolocalizzata. Il vero e il falso si confondono, e il rapporto tra Zhao Tao e Chen Taisheng rappresenta l’unico spazio di autenticità, sebbene minacciato dalle leve sociali. La Cina di Jia Zhang-ke è, infatti, un Paese in preda all’incertezza, in preda ai traumi del cambiamento e che permette, a chiunque la abiti, solamente di restare disconnesso nei confronti del tempo che scorre in modo inesorabile. Lo stesso film del 2004, tra coreografie ripetute e alienanti, costumi sintetici e relazioni inter-personali ridotte a semplici scambi, ci guida attraverso uno spazio artificiale, dove il sogno globalizzato si consuma falsamente in forma di spettacolo.
A rincarare la dose ci pensa anche la sequenza finale di Still Life, dove l’equilibrista, simbolo effettivo del cinese medio, cammina su una fune ancorata tra due ruderi, raffiguranti capitalismo e comunismo ma anche passato e presente, tradizione e progresso. Un dualismo che rende conto della situazione sociale cinese e che restituisce allo spettatore l’immagine di una Nazione che sta crollando sotto il peso della sua stessa ambiguità.
Anche l’immagine del racconto diventa, dunque, ambigua. Quella che il regista cinese racconta è una mutazione antropologica inesorabile, dove la Storia stessa è inondata di non-luoghi irriconoscibili -come quelli attraversati da Zhao Tao in 24 City (2008), Cry Me A River (2008) e in I Wish I Knew (2010), tentativo di riprendere contatto con la “Shanghai che fù” attraverso il cinema di Fei Mu - perché ormai la stessa Cina è diventata irriconoscibile.
24 City (2008)
Una prova di resistenza
Se il gigante cinese è diventato qualcosa di profondamente indescrivibile e incatalogabile, anche le vite quotidiane dei personaggi di Jia Zhang-ke, di riflesso, lo sono. La sua è una profonda riflessione sullo stato di uno Stato, imbrigliato in un oceano di male, di malesseri striscianti, di un'umanità al collasso che fatica a ritrovare sé stessa e quindi cede ogni speranza, sopraffatta dalla violenza e dal dramma che non fa praticamente alcuno sconto. La prova più inconfutabile, in tal senso, la si ha soprattutto con la svolta noir di un film apparentemente di genere come A Touch Of Sin (2013), dietro cui si nasconde, piuttosto, una voglia di ribellione nei confronti di una macchina statale oppressiva e spersonalizzante.
Fin dalla scena iniziale del film, dove osserviamo in campo lungo laterale un lavoratore uccidere a colpi di fucile un funzionario statale corrotto, ci accorgiamo che, nonostante le forme siano ormai quelle del cinema occidentale e Jia Zhang-ke stesso sia caduto preda di una non-tradizione (anche la struttura da revenge-movie ricalca molto altre sortite occidentali quali quelle di Clint Eastwood), il regista dia corpo, finalmente, alla frustrazione accumulata dagli abitanti del suo Paese. Una frustrazione che può essere sfogata solamente con il sangue, palesando i sentimenti di resistenza, di amor proprio e di rimpianti che gli abitanti della Cina nutrono nei confronti di una terra che non sentono più come propria.
Dopo la perdita e le illusioni, c’è bisogno di tempo però per ricostruire daccapo la propria identità. E uno dei punti fondamentali per realizzare questa ripartenza è proprio la presa di coscienza nei confronti di una realtà che è inevitabilmente connessa con la modernità. In Mountains May Depart (2015), quello che probabilmente rappresenta l’apice del discorso di Jia, anche il dispositivo cinematografico comincia ad essere influenzato da questa presa di coscienza. Il film comincia con un formato in 4:3 e finisce con un formato in 16:9, dando conto della trasformazione di una realtà sempre più asservita alle logiche del capitale e a quella "terra dei sogni" tanto bistrattata chiamata America.
Mountains May Depart (2015)
Jia Zhang-ke ci dice che la prova di resistenza è definitivamente fallita. La globalizzazione ha scardinato la concezione feudale di un Paese che è ormai trasformato, e non bastano più storie nostalgiche come Ash Is Purest White (2018) o recuperi mnemonici/storici come Swimming Out Till The Sea Turns Blue (2020) per rinverdire la tradizione e tornare a far fiorire l’identità. Nonostante il regista si chieda se esiste ancora uno spazio possibile per il sentimento e l’autenticità, la Cina ormai procede avanti, verso il progresso, verso l’ibridazione con la tecnologia e verso un futuro che parla di una modernità.
Per comprendere ancora meglio la metamorfosi della Cina da immobile a mobile, occorre dunque rapportarsi anche con l’ultima fatica del regista, Caught By The Tides (2024). Nonostante l’ineluttabile solitudine esistenziale che coinvolge tutti i protagonisti del film, c’è un’accettazione di fondo della situazione, un’esplorazione delle possibilità che la vita (e le immagini) offrono nel presente, una constatazione che l’unico modo in cui si può sopravvivere è attraversare il tempo (storico, ma anche cinematografico) in modo tale da tendere lo sguardo oltre e reinventarsi, senza dimenticare quanto si è realizzato in precedenza.
Secondo il cineasta, la Cina può protrarsi verso il futuro solamente correndo in avanti, senza però dimenticare il passato, come nello splendido montaggio alternato nella corsa di Zhao Tao che chiude il magnifico film del 2024. Il cinema di Jia Zhang-ke non è dunque solamente testimonianza, ma anche gesto politico e poetico: una ricerca ostinata di senso in un mondo che cambia troppo in fretta per essere compreso.
Caught By The Tides (2024)
Il cinema come specchio di una
società in trasformazione,
di Antonio Orrico
TR-126
10.04.2025
In una specifica sequenza, al centro del meraviglioso Still Life (2006), Jia Zhang-ke riprende un uomo che fa ritorno alla propria città natale e scopre, suo malgrado, che gli edifici in cui aveva vissuto nella città di Chongqing sono stati completamente rasi al suolo, per far spazio al progetto di costruzione della famigerata Diga delle Tre Gole. A questo punto, il regista cinese riprende il Monumento al Progresso e alla Prosperità di Chongqing in campo medio, lasciando che quest’ultimo, improvvisamente, prenda letteralmente il volo in un momento surreale che sfocia in un realismo magico sospeso tra speranza e amarezza. In questa sequenza è contenuto tutto il mondo di Jia Zhang-ke, un autore ormai di caratura internazionale, capace di restituire, attraverso la sua filmografia, una Cina completamente nuova, ripresa in tutte le sue contraddizioni e in tutte le sue bellezze, nelle sue storture (anche burocratiche) e nelle sue meraviglie.
Il cinema di Jia Zhang-ke si muove completamente su una dialettica che punta alla rappresentazione di uno Stato in cui il potere, nonostante l’apparente sguardo autocratico dettato dall’eredità di Mao, non ha altra valenza che quella simulacrale. Mao diventa il passe-partout per spiegare una Cina che è cambiata solamente nella sua facciata principale, esclusivamente nel rapporto che vige tra la formazione di quella che è un’apparente promessa di emancipazione, presente sempre all’interno dei suoi film, e quella che è invece la realtà dei fatti, ovvero una totale sottomissione al persistente rapporto di forza che vige tra l’individuo e l’istituzione cinese, dove il primo è solo apparentemente libero.
Ecco spiegato, in parole povere, anche perché il cineasta cinese sia definito dai più, in modo fuorviante e errato, come un vero e proprio alfiere dello Stato, un cantore della Repubblica Popolare Cinese. Rispetto alle aspettative, in realtà, il lavoro del regista è decisamente più critico, capace anche di sfruttare simboli e icone tipiche di una certa politica filo-comunista per formare, piuttosto, un crocevia polisemico, in cui il lavoro e il processo di modernizzazione del proprio Paese assume dei connotati inevitabilmente negativi. Jia Zhang-ke preferisce, nelle sue narrazioni, concentrarsi con notevole sensibilità e realismo, con un tono che alcune volte lascia spazio anche al fantasticare degli spettatori mentre altre si dirige verso il documentaristico, su coloro che sono stati “lasciati indietro” dal processo di modernizzazione cinese. Si tratta perlopiù di outsiders, tra migranti della Mainland, lavoratori precari, piccoli criminali e individui che sono parte della Storia del Paese solamente in modo figurativo.
Still Life (2006)
La marginalità
Lo si può notare già a partire dalle prime sequenze di Xiao Wu (1998), esordio del cineasta nel lungometraggio, dove il montaggio alternato pone in analogia il furto su un bus di un borseggiatore, emarginato e incapace di adattarsi alla nuova società, e l’immagine del santino di Mao sul cruscotto della vettura. Si tratta di una vera e propria dichiarazione d’intenti, che sembra anche avallare questa nuova forma di “auto-imprenditoria” che diventa palese espressione di una classe giovanile senza prospettive, che cerca di restare rilevante in un mondo che sta inevitabilmente cambiando e che si riscopre molto più esclusivo, al punto tale da negare l’inclusione del protagonista (un outsider in piena regola) nel finale. Una negazione che inevitabilmente investe anche l’ambito relativo alla memoria storica, intesa come tensione che si crea tra passato e presente. Jia racconta una nazione in transizione, con un linguaggio che rifiuta tanto la propaganda quanto la nostalgia, restituendo un ritratto sincero e partecipe dei suoi personaggi. La sua macchina da presa si muove tra le crepe del sistema, raccogliendo frammenti di realtà che diventano universali.
Il secondo lungometraggio Zhantai (Platform, 2000) rappresenta la massima espressione di questa tensione, fondendo individualità e collettività. Restituendo allo spettatore un periodo cruciale della Storia del Paese (dal 1979 al 1989) attraverso la prospettiva di un gruppo teatrale itinerante, Jia Zhang-ke immortala l'identità reale della propria Nazione, portandola alla formazione di quei dilemmi esistenziali e sociali che rappresentano un sistema di classi e di valori che è costantemente messo in discussione, in grado di far smarrire i suoi abitanti e sovrastarli.
Quella di Zhantai è una Cina che inizialmente si oppone in maniera ostinata alla voglia di progresso, ma che poi è praticamente costretta a condividere ed assorbire tutti questi cambiamenti, a partire dalla privatizzazione dell’area economica per giungere all’implosione del settore culturale. Un mondo diviso in due, che il regista rappresenta in modo ambivalente tramite ellissi temporali e inquadrature statiche, tutte presenti in scene chiave del film, come quella della rappresentazione teatrale. Proprio tramite quest’ultima, si comprende meglio il senso dell’opera: l’adesione ad un credo sempre più inesistente e che crea un senso di perdita generazionale, così accentuato da far comprendere allo spettatore che la percezione della modernità non è omogenea, ma appare quasi forzata agli stessi abitanti cinesi.
Zhantai (Platform, 2000)
Perdita e dislocazione
C’è dunque il desiderio di una vita diversa, di voler uscire al di fuori dei binari prestabiliti. Unknown Pleasures (2002) segna una svolta nel linguaggio e nella forma, più cruda e sporca, dove ad esaltarsi sono le insegne al neon e gli spazi vuoti di Datong, segno di una dislocazione permanente ed esempio fulgido e notevole di una Cina ormai alle prese con la vita frenetica dettata dalla globalizzazione, con una realtà che ormai ha cancellato ogni minimo cenno d’identità nazionale e personale. I due protagonisti, Wei Wei Zhao e Zhao Tao, si riscoprono così emuli di un tipo di cinema, ovvero quello di Hong Kong, che non fa altro che acuire le contraddizioni di una generazione allo sbando, che vuole sfuggire all’anonimato della vita (rappresentata anche dalle scene in discoteca, in cui l’uso del digitale non fa altro che illustrare il “caos giovanile”). Il progresso è sì un obiettivo raggiunto, ma appare come qualcosa di sofferto e forzato, dove le trasformazioni urbane sono simbolo palese di una crescita economica che lascia con sé molti strascichi, come la perdita delle radici.
A dimostrarlo, oltre alla sequenza di Still Life descritta in precedenza, simbolo dell’ascesa dell’economia cinese e del contemporaneo abbandono dei protagonisti “attivi” di questa scalata, è un’altra sequenza chiave di un film, The World (2004), che mostra ancora una volta l’intento, da parte di Jia Zhang-ke, di profanare i miracoli del progresso economico e di sconfiggere l’ideologia dominante in Cina. In questa sequenza, formata da un piano sequenza in cui la macchina da presa si libra in alto con un plongée, svelando il parco quale simulacro post-moderno dove i visitatori preferiscono gli involucri al contenuto, è contenuto l’intero concetto su cui si basa la Cina odierna: l'ibrido ormai irreversibile tra la cultura asiatica e quella globalizzata ha portato ad una radicale falsificazione della stessa Nazione, ormai svuotata di significato e addetta solamente al culto del suo significante.
Unknown Pleasures (2002)
The World è un vero e proprio film-dispositivo, che mette in pratica le teorie di controllo di Agamben e di Foucault. Tutto è osservabile e, soprattutto, tutto è riproducibile. Ma il regista utilizza la sua regia e la sua visualità anche per “profanare” quella che è l’ideologia dominante cinese, un Cavallo di Troia strategico che ha il compito di mostrare la complessità e le contraddizioni della modernizzazione e l’alienazione derivante da una Cina completamente globalizzata e geolocalizzata. Il vero e il falso si confondono, e il rapporto tra Zhao Tao e Chen Taisheng rappresenta l’unico spazio di autenticità, sebbene minacciato dalle leve sociali. La Cina di Jia Zhang-ke è, infatti, un Paese in preda all’incertezza, in preda ai traumi del cambiamento e che permette, a chiunque la abiti, solamente di restare disconnesso nei confronti del tempo che scorre in modo inesorabile. Lo stesso film del 2004, tra coreografie ripetute e alienanti, costumi sintetici e relazioni inter-personali ridotte a semplici scambi, ci guida attraverso uno spazio artificiale, dove il sogno globalizzato si consuma falsamente in forma di spettacolo.
A rincarare la dose ci pensa anche la sequenza finale di Still Life, dove l’equilibrista, simbolo effettivo del cinese medio, cammina su una fune ancorata tra due ruderi, raffiguranti capitalismo e comunismo ma anche passato e presente, tradizione e progresso. Un dualismo che rende conto della situazione sociale cinese e che restituisce allo spettatore l’immagine di una Nazione che sta crollando sotto il peso della sua stessa ambiguità.
Anche l’immagine del racconto diventa, dunque, ambigua. Quella che il regista cinese racconta è una mutazione antropologica inesorabile, dove la Storia stessa è inondata di non-luoghi irriconoscibili -come quelli attraversati da Zhao Tao in 24 City (2008), Cry Me A River (2008) e in I Wish I Knew (2010), tentativo di riprendere contatto con la “Shanghai che fù” attraverso il cinema di Fei Mu - perché ormai la stessa Cina è diventata irriconoscibile.
24 City (2008)
Una prova di resistenza
Se il gigante cinese è diventato qualcosa di profondamente indescrivibile e incatalogabile, anche le vite quotidiane dei personaggi di Jia Zhang-ke, di riflesso, lo sono. La sua è una profonda riflessione sullo stato di uno Stato, imbrigliato in un oceano di male, di malesseri striscianti, di un'umanità al collasso che fatica a ritrovare sé stessa e quindi cede ogni speranza, sopraffatta dalla violenza e dal dramma che non fa praticamente alcuno sconto. La prova più inconfutabile, in tal senso, la si ha soprattutto con la svolta noir di un film apparentemente di genere come A Touch Of Sin (2013), dietro cui si nasconde, piuttosto, una voglia di ribellione nei confronti di una macchina statale oppressiva e spersonalizzante.
Fin dalla scena iniziale del film, dove osserviamo in campo lungo laterale un lavoratore uccidere a colpi di fucile un funzionario statale corrotto, ci accorgiamo che, nonostante le forme siano ormai quelle del cinema occidentale e Jia Zhang-ke stesso sia caduto preda di una non-tradizione (anche la struttura da revenge-movie ricalca molto altre sortite occidentali quali quelle di Clint Eastwood), il regista dia corpo, finalmente, alla frustrazione accumulata dagli abitanti del suo Paese. Una frustrazione che può essere sfogata solamente con il sangue, palesando i sentimenti di resistenza, di amor proprio e di rimpianti che gli abitanti della Cina nutrono nei confronti di una terra che non sentono più come propria.
Dopo la perdita e le illusioni, c’è bisogno di tempo però per ricostruire daccapo la propria identità. E uno dei punti fondamentali per realizzare questa ripartenza è proprio la presa di coscienza nei confronti di una realtà che è inevitabilmente connessa con la modernità. In Mountains May Depart (2015), quello che probabilmente rappresenta l’apice del discorso di Jia, anche il dispositivo cinematografico comincia ad essere influenzato da questa presa di coscienza. Il film comincia con un formato in 4:3 e finisce con un formato in 16:9, dando conto della trasformazione di una realtà sempre più asservita alle logiche del capitale e a quella "terra dei sogni" tanto bistrattata chiamata America.
Mountains May Depart (2015)
Jia Zhang-ke ci dice che la prova di resistenza è definitivamente fallita. La globalizzazione ha scardinato la concezione feudale di un Paese che è ormai trasformato, e non bastano più storie nostalgiche come Ash Is Purest White (2018) o recuperi mnemonici/storici come Swimming Out Till The Sea Turns Blue (2020) per rinverdire la tradizione e tornare a far fiorire l’identità. Nonostante il regista si chieda se esiste ancora uno spazio possibile per il sentimento e l’autenticità, la Cina ormai procede avanti, verso il progresso, verso l’ibridazione con la tecnologia e verso un futuro che parla di una modernità.
Per comprendere ancora meglio la metamorfosi della Cina da immobile a mobile, occorre dunque rapportarsi anche con l’ultima fatica del regista, Caught By The Tides (2024). Nonostante l’ineluttabile solitudine esistenziale che coinvolge tutti i protagonisti del film, c’è un’accettazione di fondo della situazione, un’esplorazione delle possibilità che la vita (e le immagini) offrono nel presente, una constatazione che l’unico modo in cui si può sopravvivere è attraversare il tempo (storico, ma anche cinematografico) in modo tale da tendere lo sguardo oltre e reinventarsi, senza dimenticare quanto si è realizzato in precedenza.
Secondo il cineasta, la Cina può protrarsi verso il futuro solamente correndo in avanti, senza però dimenticare il passato, come nello splendido montaggio alternato nella corsa di Zhao Tao che chiude il magnifico film del 2024. Il cinema di Jia Zhang-ke non è dunque solamente testimonianza, ma anche gesto politico e poetico: una ricerca ostinata di senso in un mondo che cambia troppo in fretta per essere compreso.
Caught By The Tides (2024)