INT-92
07.04.2025
Ameer Fakher Eldin, giovane cineasta di origini siriane, negli ultimi anni si è fatto conoscere a livello internazionale grazie al suo stile minimalista e contemplativo. Dopo la buona ricezione di The Stranger (2021), la sua opera prima presentata al Festival di Venezia nella sezione Giornate degli Autori e primo capitolo di una trilogia esistenziale, il cineasta ha recentemente presentato Yunan, la seconda parte del trittico. L'opera si focalizza sulla storia di Munir (Georges Khabbaz), che, contemplando l’idea di togliersi la vita, si reca su un’isola deserta per compiere tale atto. Sarà solo dopo l’incontro con Valeska (Hanna Schygulla), l’anziana proprietaria di un ostello che gli mostrerà empatia e gentilezza, che Munir comincerà a nutrire dei dubbi sulla propria decisione.
Dopo la selezione in competizione alla Berlinale, Yunan è stato presentato un paio di settimane fa al FESCAAAL a Milano, prima di essere distribuito nelle nostre sale a giugno grazie a Fandango. Per tale occasione abbiamo avuto il piacere di incontrare Ameer Fakher Eldin, che ci ha raccontato della collaborazione con Hanna Schygulla ed analizzato nel dettaglio determinate scelte narrative, come l’inserimento della storia di un pastore tormentato ed il tono esistenziale del film.
Il team di Yunan (2025) sul red carpet al Festival di Berlino, © Richard Hübner / Berlinale 2025
Yunan è il secondo capitolo di questa trilogia tematica iniziata con The Stranger (2021), quale è stato il punto di partenza del progetto e come si inserisce questo film al suo interno?
Tutto è cominciato dal tema del displacement (rimozione/trasferimento, n.d.r.) e quella costante ricerca della propria “casa”, il luogo di appartenenza. Vengo dalle Alture del Golan, un territorio siriano che è occupato da Israele dal 1967, quindi l’idea di “casa” per me (che è la Siria) rimane soltanto una fantasia. Ho iniziato ad esplorare questo concetto e ciò che è collegato ad esso, il perché abbiamo bisogno di una “casa”, come ciò ci impatta e come ci relazioniamo all’ambiente in cui ci troviamo. Il primo film della trilogia riguardava lo straniamento di una persona tra i suoi simili che rifiuta di abbandonare il proprio territorio nonostante ci sia una crisi nazionale. Yunan, invece, rappresenta l’opposto, in questo caso si ha una persona costretta all’esilio, che non può tornare nella sua terra d’origine. Nel terzo film invece presenterò un personaggio che non si pone il problema dei “confini”, una persona libera, ma che ben presto scoprirà che questi sono comunque presenti, più come una barriera psicologica che fisica.
È interessante come nei primi due film tu abbia approfondito la figura dello “straniero”, possiamo aspettarci qualcosa di simile anche nel prossimo film?
Si, ma sarà concepito diversamente, perché nei primi due film ho rappresentato i due protagonisti come delle vittime e li ho sempre visti sotto una sorta di lente nostalgica. Quello che unisce i tre film è proprio questo; lo sguardo nostalgico nei confronti dei protagonisti. Questo non rappresenta nulla di nuovo, se pensi alla letteratura e a certi personaggi tormentati. Nel terzo film cercherò di rappresentare il protagonista meno come una vittima, la sensazione di nostalgia sarà quindi diversa. A inizio dell’anno prossimo girerò il capitolo conclusivo, tutto è pronto e al centro della storia ci sarà un uomo libero, un cantante lirico che vive in Italia da molto tempo, ma che appena la sua voce inizia a deteriorarsi, decide di tornare nel suo villaggio nativo nelle Alture del Golan. Una volta arrivato, il problema alla voce sarà quello meno importante.
Tornando a Yunan, immagino che il titolo derivi dal profeta Giona.
Esatto, è la versione araba di Giona nei testi sacri. Ho scelto quel titolo per due ragioni. Il film è incentrato sullo stato di alienazione, sia geografico, che individuale e politico. Ho iniziato a riflettere su quale poteva essere il luogo più straniante che ci sia, non solo nella realtà, ma anche nella mitologia o in senso allegorico… e ho subito pensato alla pancia di una balena, non sei sulla terraferma e nemmeno in mare, è una via di mezzo alienante. Poi ovviamente la balena appare nel film, in questo caso è morta ma aiuta lo stesso il protagonista nel suo viaggio salvifico. Quindi si possono trovare connessioni metaforiche e simboliche dietro al titolo Yunan. La seconda ragione riguarda la figura stessa di questo profeta, anche perché è l’unico che chiede a Dio di terminare la sua vita. Se analizzi il contesto del suo stato di miseria, noterai come Giona fosse una persona davvero introspettiva e consapevole di ciò che lo stava turbando. Quindi chiese diverse volte a Dio di mettere fine ai suoi giorni, ma questi invece gli diede l'occasione di intraprendere un viaggio di trasformazione e rinascita. Nel film vediamo il protagonista compiere un percorso di mutamento simile. Inoltre è presente questo grande acquazzone, quindi Yunan non poteva che essere il titolo perfetto.
Quindi possiamo vedere i vari personaggi più come dei simboli che delle persone reali? Soprattutto se penso a Valeska e al figlio, o anche al protagonista Munir, emblema universale dell’esperienza dell’esilio.
Non userei la parola “simbolo” per descrivere i miei personaggi, più che altro perché credo che il “simbolismo” sia qualcosa di specifico, legato all’immagine, ben definito, quindi li vedo più come delle metafore. Durante la fase di montaggio ho provato a guardare il film da un punto di vista politico e ho trovato diverse metafore, soprattutto legate a quel pezzo di terra ai confini del mondo dove è presente una società riservata che verrà condizionata dall’arrivo di questo “straniero”. È un microcosmo del nostro mondo. Lo “straniero” non vuole stravolgere questo sistema, vuole soltanto ricevere qualche gentilezza che lo faccia sentire accettato. Lui non si reca in quel luogo perché vuole essere salvato dagli altri ed il suo timore più grande è quello di essere dimenticato. Ho cercato di scrivere un personaggio che non avesse un background ben definito, non volevo che la sua condizione facesse scaturire delle emozioni in base al suo passato, volevo un personaggio senza tempo, la cui connotazione psicologica riflettesse la narrazione del film. Qualche settimana fa ho presentato il film a Bari e, terminata la proiezione, si è avvicinato questo ragazzo sulla trentina che era visibilmente commosso poiché si era rivisto in Munir e nella sua condizione di alienazione. Questo mi ha emozionato perché vuol dire che persone diverse possono connettersi con un personaggio come Munir nonostante non si abbia una vera e propria conoscenza della sua storia pregressa. L’approccio ambiguo dietro ad esso può avere anche un effetto negativo nello spettatore, perché magari all’inizio si aspetta un personaggio ben definito. Le classiche regole dello storytelling insegnano che dopo cinque minuti tu dovresti conoscere a grandi linee il protagonista. Ma allo stesso tempo, quando si pensa a persone che soffrono di depressione, c’è sempre una certa distanza da esse, non riescono a condividere o a dire come stiano veramente. Inoltre, come dicevo prima, Yunan è incentrato su uno straniero che si sente estraniato in mezzo ad altri e credo che lo spettatore debba fare un passo successivo anche nei confronti dei personaggi secondari, perché uno dei miei intenti era quello di mostrare e far capire come a volte siamo noi che dobbiamo fare quel passo successivo, capire ed accogliere il prossimo, qualunque situazione stia vivendo.
Munir (Georges Khabbaz) e Valeska (Hanna Schygulla) in Yunan (2025)
Davvero interessante, di questo se ne ha la prova nel film in diverse sequenze, dove possiamo vedere questa gentilezza e comprensione reciproca tra Valeska e Munir. Come nella scena dove la prima dice all’uomo una frase del tipo “sei alla ricerca continua di aria, ma forse non hai bisogno di tutta quest'aria”. È davvero un momento toccante, cosa puoi dirmi a riguardo?
Questa è la prima volta che racconto questa storia. Ho sempre avuto problemi respiratori, i dottori mi hanno detto che sto bene e che non c’è nessun problema con i polmoni. Forse è dovuto alla depressione, all’ansia e allo stress… e ho deciso di inserire tutto ciò nella sceneggiatura. Quando ho incontrato Hanna Schygulla la seconda volta in questo caffè parigino per parlare del film, ad un certo punto è come se avessi avuto un attacco di panico, faticavo a respirare in poche parole. Lei l’aveva notato e mi chiese cosa stesse succedendo, non sapevo rispondere, quindi pose le sue mani sopra le mie e mi disse proprio la frase “forse non hai bisogno di tutta quest’aria”. Era solo il nostro secondo incontro faccia a faccia, ma avevo avuto la sensazione che questa persona mi conoscesse già bene. In quel momento ho capito che era perfetta per il ruolo, non perché è una leggenda del cinema europeo, ma per la sua attitudine così umana e gentile. Ripensando alla situazione, non ho potuto non inserirla all’interno del film. La seconda motivazione riguarda il messaggio esistenzialista dell’opera, come se fosse un’elegia dove Munir vive conteso tra la realtà e la sua fantasia tramite la storia della madre. Continua a domandarsi certe cose e queste lo fanno sentire giù di morale, quindi Valeska gli dice che forse non ha bisogno di tutta quest’aria, e quindi di non pensare a ciò che lo tormenta. Ed è lo stesso nel finale quando la madre gli dice di seguire la sua immaginazione, ma senza abbandonarsi completamente ad essa.
Parlando di Hanna Schygulla, com'è stato lavorare con lei? Come l’hai convinta a recitare nel film?
Avevo in mente lei per il ruolo di Valeska fin dall’inizio e avevo chiesto alla mia produttrice di procurarmi il suo indirizzo, non la sua mail, ma proprio l’indirizzo di casa. Una volta ottenuto, le ho scritto una lettera in cui mi presentavo, spiegavo quello che volevo fare con Yunan e con il suo personaggio. Le avevo inviato anche il DVD del mio primo film. Solo dopo tre giorni ho ricevuto la lettera di risposta. È stato un gesto bellissimo, perché immagino che funzionasse così ai suoi tempi. Abbiamo continuato a inviarci lettere e si è creata una buona intesa ed in seguito mi ha invitato a Parigi per conoscerci di persona, è molto importante per me creare un’intesa con gli attori, tutto ciò è avvenuto circa un anno e mezzo prima delle riprese. È stato fondamentale conoscere bene Hanna anche per creare quella relazione di fiducia, capire cosa pensasse del personaggio e i suoi dubbi. Che sensazioni ha provato leggendo la sceneggiatura? Cosa non le è piaciuto? È sempre un investimento emotivo per me, ma mi sento davvero fortunato ad avere avuto l’occasione di conoscerla e condividere uno sprazzo di vita con lei. Poi non mi sembra il caso di dirlo, ma è una leggenda del cinema. Conosce così bene questo medium e ha collaborato con tantissimi cineasti, come Fassbinder, Godard e Marco Ferreri, giusto per citare qualche nome. Ha acquisito una saggezza che mi ha aiutato durante tutte le riprese. Quando si lavora con lei, si ha quella sensazione di avere a che fare con una vera leggenda del cinema.
Ho avuto questa stessa sensazione durante la conferenza stampa del film a Berlino con quel lungo discorso che ha fatto.
Esatto, le piace avere quel tipo di attenzione (il regista ride, n.d.r.), è pur sempre una grande diva e la adoro per questo.
Vista la sua carriera, possiamo dire che può permettersi di avere questo atteggiamento. Ritornando al film, diverse volte sentiamo la parabola di questo “pastore perseguitato” (cursed shepherd, n.d.r.), cosa può dirmi a riguardo?
Mi ha stupito il fatto che molte persone abbiano interpretato la storia del pastore come se fosse quella di Munir o il suo passato. Non l’ho mai pensata in questo modo. La storia viene raccontata dalla madre che soffre di Alzheimer e, avendo avuto una nonna con la stessa malattia, so che queste persone dimenticano quasi tutto, ma in qualche modo ricordano qualcosa di assurdo, che non ha senso e continuano a ripeterlo. Munir sa che la madre si sente meglio quando le concede lo spazio di raccontare la storia, ma questa non è correlata con la realtà o il passato del personaggio. Questo racconto è completamente inventato e non ha senso, è pieno di contraddizioni, come il fatto che lui voglia ritornare in questo luogo che non ha mai lasciato. L‘assurdità di questa situazione mi ha fatto ragionare, come potevo rappresentarla all’interno del film? Ho dovuto dimenticare la narrativa convenzionale e lineare per creare una dimensione paradossale nella quale Munir vuole andare a cercare sua madre, perché pensa di averla persa. Questa storia è anche una sorta di “via di fuga” per le persone esiliate, che si sentono perse in un paese lontano dalla propria casa. La maggior parte di queste non riescono ad adattarsi alla nuova cultura e lo spaesamento prende il sopravvento. Alcune volte queste persone sono fortunate, sanno che in futuro potranno tornare nella propria terra d’origine, ma si sentono comunque degli “stranieri”. E una condizione piuttosto miserabile e il loro senso di perdita è quasi irreversibile, è come se fossero sospesi nel tempo. Hanno solo i loro sogni, la loro immaginazione per trovare un po’ di pace e serenità. È tragico perché sembra che questa dimensione assurda sia l’unico sollievo per le persone esiliate. Ma dall’altra parte, guarda quello che sta accadendo ora in Siria, conosco amici che sono tornati dopo l’esilio, ma non è come prima, vengono considerati dei forestieri in qualche modo. In Yunan, Munir non viene “salvato” da Valeska o da altre persone, ma da questa dimensione immaginaria, più nello specifico nel momento in cui riesce a ritrovare la madre. Il mio intento era quello di sviluppare queste due linee narrative, dove il protagonista sceglie di vivere nell’immaginazione piuttosto che nella realtà. Questa in qualche modo è la mia visione sul tema dell’esilio.
Munir (Georges Khabbaz) in una scena del film
Quindi diresti che il finale sia qualcosa di positivo o ottimista per Munir?
Ho lavorato duramente per cercare di rendere il finale del film il più ambiguo possibile. Potrebbe anche esprimere qualcosa di tragico, questo perché non ci sono delle risposte dietro a certi quesiti esistenziali. Inizi a pensare al significato delle cose e alla fine scopri delle dure verità sulla tua mortalità e su come essa non abbia un significato; è come un fiore che cresce in una landa desolata. Altre persone preferiscono vivere il momento e non pensare a tutto questo. Sempre a Bari questa persona mi ha detto che il finale gli ha regalato una sensazione di speranza, come se il film gli avesse proprio detto “you will be forgotten” e di vivere il momento. Qualcun’altro ha dato una lettura più interessante dietro a quella frase che ho appena citato. Munir ha paura di essere dimenticato, la madre lo sta facendo e quindi lui si chiede “chi sono io se non posso essere ricordato?” O forse nel finale decide di “essere dimenticato” come il pastore, come se le ultime parole che senti siano state scritte proprio da lui.
Cosa puoi dirmi dell’ambiente naturale che si vede nel film? Mi ha colpito molto l’inserimento di quest’isola che rimane in superficie durante le alluvioni. Avevi scoperto il luogo prima di scrivere il soggetto oppure è successo il contrario?
Sono chiamati Hallig e si possono definire delle isole a tutti gli effetti. Il tutto è nato quattro anni fa, mi trovavo ad Amburgo per la post-produzione e ho sentito di questi posti per la prima volta; ricordo ancora di aver trovato i lavori di questo fotografo che mostravano come l'innalzamento del mare avesse sommerso delle linee ferroviarie. Mi ero chiesto come era possibile e se fosse tutto frutto del CGI, invece ho fatto delle ricerche e ho scoperto questo luogo. All’epoca avevo già scritto il soggetto di Yunan, e ho capito come questo luogo rappresentasse il fulcro non solo della storia, ma anche del protagonista. Quando ho approfondito questo fenomeno naturale dove l’acqua fa sparire e ricomparire la terra, ho pensato fosse qualcosa di poetico che riflettesse la condizione delle persone in esilio. La sommersione, la trasformazione, la perdita e il ritorno, tutto sembrava perfetto e correlato con Munir. Il fenomeno naturale è diventato una sorta di personaggio, dovevo costruire la storia attorno a questo. Il vento è stato un punto chiave vista il problema di Munir con la respirazione, come si vede nel primo frame. Cerco sempre di utilizzare la natura per esprimere la condizione del personaggio principale, la sua solitudine, sofferenza e depressione, e come l'ambiente abbia un impatto su di lui.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti cosa ne pensassi dei vari paragoni tra il tuo cinema e quello di registi come il primo Nuri Bilge Ceylan e Andrej Tarkovskij.
Non mi danno fastidio ovviamente, anzi direi che è un onore. Inoltre l’arte è un atto culturale continuo, nel senso che avvengono queste ispirazioni inconsce negli artisti. Sono nato a Kiev, è ho sempre usato come reference la cultura sovietica, quindi è impossibile non essere influenzato da un maestro come Tarkovskij. Apprezzo molto quando i cineasti cercano di realizzare un certo cinema filosofico e spirituale, quindi si, di sicuro ha avuto un impatto sui miei lavori. Però, devo ammettere che spesso le persone vogliono cercare dei collegamenti forzati.
Credi che questo sia riduttivo nei confronti del tuo cinema?
Non proprio, non riguarda solo il mio cinema ma una concezione generica che hanno certe persone. Per farti un esempio, hanno paragonato la scena iniziale di The Stranger a quella di Werckmeister Harmonies (film del 2000 di Béla Tarr che ha nel cast Hanna Schygulla, n.d.r.), e sarò sincero con te, non ho ancora visto quel film, ma ho dato un’occhiata all’inizio per vedere questo "parallelismo". Ad alcuni da fastidio questo continuo citazionismo, altri lo amano, è un discorso complesso. Per dirti, guardo tanti film, non ho mai frequentato una scuola di cinema, mi sono appassionato alla Settima Arte da solo. Anche se noto certe similitudini, tengo a non farci troppo caso, preferisco concentrarmi su altro in modo da rispettare di più l’artista e la sua visione, spesso non è una semplice operazione di copia e incolla, puoi sentire che è differente, anche perché queste similitudini possono anche essere un omaggio. Concludo dicendo che grandi maestri come Tarkovskij o Antonioni sono stati fondamentali nella mia “crescita cinematografica”.
INT-92
07.04.2025
Ameer Fakher Eldin, giovane cineasta di origini siriane, negli ultimi anni si è fatto conoscere a livello internazionale grazie al suo stile minimalista e contemplativo. Dopo la buona ricezione di The Stranger (2021), la sua opera prima presentata al Festival di Venezia nella sezione Giornate degli Autori e primo capitolo di una trilogia esistenziale, il cineasta ha recentemente presentato Yunan, la seconda parte del trittico. L'opera si focalizza sulla storia di Munir (Georges Khabbaz), che, contemplando l’idea di togliersi la vita, si reca su un’isola deserta per compiere tale atto. Sarà solo dopo l’incontro con Valeska (Hanna Schygulla), l’anziana proprietaria di un ostello che gli mostrerà empatia e gentilezza, che Munir comincerà a nutrire dei dubbi sulla propria decisione.
Dopo la selezione in competizione alla Berlinale, Yunan è stato presentato un paio di settimane fa al FESCAAAL a Milano, prima di essere distribuito nelle nostre sale a giugno grazie a Fandango. Per tale occasione abbiamo avuto il piacere di incontrare Ameer Fakher Eldin, che ci ha raccontato della collaborazione con Hanna Schygulla ed analizzato nel dettaglio determinate scelte narrative, come l’inserimento della storia di un pastore tormentato ed il tono esistenziale del film.
Il team di Yunan (2025) sul red carpet al Festival di Berlino, © Richard Hübner / Berlinale 2025
Yunan è il secondo capitolo di questa trilogia tematica iniziata con The Stranger (2021), quale è stato il punto di partenza del progetto e come si inserisce questo film al suo interno?
Tutto è cominciato dal tema del displacement (rimozione/trasferimento, n.d.r.) e quella costante ricerca della propria “casa”, il luogo di appartenenza. Vengo dalle Alture del Golan, un territorio siriano che è occupato da Israele dal 1967, quindi l’idea di “casa” per me (che è la Siria) rimane soltanto una fantasia. Ho iniziato ad esplorare questo concetto e ciò che è collegato ad esso, il perché abbiamo bisogno di una “casa”, come ciò ci impatta e come ci relazioniamo all’ambiente in cui ci troviamo. Il primo film della trilogia riguardava lo straniamento di una persona tra i suoi simili che rifiuta di abbandonare il proprio territorio nonostante ci sia una crisi nazionale. Yunan, invece, rappresenta l’opposto, in questo caso si ha una persona costretta all’esilio, che non può tornare nella sua terra d’origine. Nel terzo film invece presenterò un personaggio che non si pone il problema dei “confini”, una persona libera, ma che ben presto scoprirà che questi sono comunque presenti, più come una barriera psicologica che fisica.
È interessante come nei primi due film tu abbia approfondito la figura dello “straniero”, possiamo aspettarci qualcosa di simile anche nel prossimo film?
Si, ma sarà concepito diversamente, perché nei primi due film ho rappresentato i due protagonisti come delle vittime e li ho sempre visti sotto una sorta di lente nostalgica. Quello che unisce i tre film è proprio questo; lo sguardo nostalgico nei confronti dei protagonisti. Questo non rappresenta nulla di nuovo, se pensi alla letteratura e a certi personaggi tormentati. Nel terzo film cercherò di rappresentare il protagonista meno come una vittima, la sensazione di nostalgia sarà quindi diversa. A inizio dell’anno prossimo girerò il capitolo conclusivo, tutto è pronto e al centro della storia ci sarà un uomo libero, un cantante lirico che vive in Italia da molto tempo, ma che appena la sua voce inizia a deteriorarsi, decide di tornare nel suo villaggio nativo nelle Alture del Golan. Una volta arrivato, il problema alla voce sarà quello meno importante.
Tornando a Yunan, immagino che il titolo derivi dal profeta Giona.
Esatto, è la versione araba di Giona nei testi sacri. Ho scelto quel titolo per due ragioni. Il film è incentrato sullo stato di alienazione, sia geografico, che individuale e politico. Ho iniziato a riflettere su quale poteva essere il luogo più straniante che ci sia, non solo nella realtà, ma anche nella mitologia o in senso allegorico… e ho subito pensato alla pancia di una balena, non sei sulla terraferma e nemmeno in mare, è una via di mezzo alienante. Poi ovviamente la balena appare nel film, in questo caso è morta ma aiuta lo stesso il protagonista nel suo viaggio salvifico. Quindi si possono trovare connessioni metaforiche e simboliche dietro al titolo Yunan. La seconda ragione riguarda la figura stessa di questo profeta, anche perché è l’unico che chiede a Dio di terminare la sua vita. Se analizzi il contesto del suo stato di miseria, noterai come Giona fosse una persona davvero introspettiva e consapevole di ciò che lo stava turbando. Quindi chiese diverse volte a Dio di mettere fine ai suoi giorni, ma questi invece gli diede l'occasione di intraprendere un viaggio di trasformazione e rinascita. Nel film vediamo il protagonista compiere un percorso di mutamento simile. Inoltre è presente questo grande acquazzone, quindi Yunan non poteva che essere il titolo perfetto.
Quindi possiamo vedere i vari personaggi più come dei simboli che delle persone reali? Soprattutto se penso a Valeska e al figlio, o anche al protagonista Munir, emblema universale dell’esperienza dell’esilio.
Non userei la parola “simbolo” per descrivere i miei personaggi, più che altro perché credo che il “simbolismo” sia qualcosa di specifico, legato all’immagine, ben definito, quindi li vedo più come delle metafore. Durante la fase di montaggio ho provato a guardare il film da un punto di vista politico e ho trovato diverse metafore, soprattutto legate a quel pezzo di terra ai confini del mondo dove è presente una società riservata che verrà condizionata dall’arrivo di questo “straniero”. È un microcosmo del nostro mondo. Lo “straniero” non vuole stravolgere questo sistema, vuole soltanto ricevere qualche gentilezza che lo faccia sentire accettato. Lui non si reca in quel luogo perché vuole essere salvato dagli altri ed il suo timore più grande è quello di essere dimenticato. Ho cercato di scrivere un personaggio che non avesse un background ben definito, non volevo che la sua condizione facesse scaturire delle emozioni in base al suo passato, volevo un personaggio senza tempo, la cui connotazione psicologica riflettesse la narrazione del film. Qualche settimana fa ho presentato il film a Bari e, terminata la proiezione, si è avvicinato questo ragazzo sulla trentina che era visibilmente commosso poiché si era rivisto in Munir e nella sua condizione di alienazione. Questo mi ha emozionato perché vuol dire che persone diverse possono connettersi con un personaggio come Munir nonostante non si abbia una vera e propria conoscenza della sua storia pregressa. L’approccio ambiguo dietro ad esso può avere anche un effetto negativo nello spettatore, perché magari all’inizio si aspetta un personaggio ben definito. Le classiche regole dello storytelling insegnano che dopo cinque minuti tu dovresti conoscere a grandi linee il protagonista. Ma allo stesso tempo, quando si pensa a persone che soffrono di depressione, c’è sempre una certa distanza da esse, non riescono a condividere o a dire come stiano veramente. Inoltre, come dicevo prima, Yunan è incentrato su uno straniero che si sente estraniato in mezzo ad altri e credo che lo spettatore debba fare un passo successivo anche nei confronti dei personaggi secondari, perché uno dei miei intenti era quello di mostrare e far capire come a volte siamo noi che dobbiamo fare quel passo successivo, capire ed accogliere il prossimo, qualunque situazione stia vivendo.
Munir (Georges Khabbaz) e Valeska (Hanna Schygulla) in Yunan (2025)
Davvero interessante, di questo se ne ha la prova nel film in diverse sequenze, dove possiamo vedere questa gentilezza e comprensione reciproca tra Valeska e Munir. Come nella scena dove la prima dice all’uomo una frase del tipo “sei alla ricerca continua di aria, ma forse non hai bisogno di tutta quest'aria”. È davvero un momento toccante, cosa puoi dirmi a riguardo?
Questa è la prima volta che racconto questa storia. Ho sempre avuto problemi respiratori, i dottori mi hanno detto che sto bene e che non c’è nessun problema con i polmoni. Forse è dovuto alla depressione, all’ansia e allo stress… e ho deciso di inserire tutto ciò nella sceneggiatura. Quando ho incontrato Hanna Schygulla la seconda volta in questo caffè parigino per parlare del film, ad un certo punto è come se avessi avuto un attacco di panico, faticavo a respirare in poche parole. Lei l’aveva notato e mi chiese cosa stesse succedendo, non sapevo rispondere, quindi pose le sue mani sopra le mie e mi disse proprio la frase “forse non hai bisogno di tutta quest’aria”. Era solo il nostro secondo incontro faccia a faccia, ma avevo avuto la sensazione che questa persona mi conoscesse già bene. In quel momento ho capito che era perfetta per il ruolo, non perché è una leggenda del cinema europeo, ma per la sua attitudine così umana e gentile. Ripensando alla situazione, non ho potuto non inserirla all’interno del film. La seconda motivazione riguarda il messaggio esistenzialista dell’opera, come se fosse un’elegia dove Munir vive conteso tra la realtà e la sua fantasia tramite la storia della madre. Continua a domandarsi certe cose e queste lo fanno sentire giù di morale, quindi Valeska gli dice che forse non ha bisogno di tutta quest’aria, e quindi di non pensare a ciò che lo tormenta. Ed è lo stesso nel finale quando la madre gli dice di seguire la sua immaginazione, ma senza abbandonarsi completamente ad essa.
Parlando di Hanna Schygulla, com'è stato lavorare con lei? Come l’hai convinta a recitare nel film?
Avevo in mente lei per il ruolo di Valeska fin dall’inizio e avevo chiesto alla mia produttrice di procurarmi il suo indirizzo, non la sua mail, ma proprio l’indirizzo di casa. Una volta ottenuto, le ho scritto una lettera in cui mi presentavo, spiegavo quello che volevo fare con Yunan e con il suo personaggio. Le avevo inviato anche il DVD del mio primo film. Solo dopo tre giorni ho ricevuto la lettera di risposta. È stato un gesto bellissimo, perché immagino che funzionasse così ai suoi tempi. Abbiamo continuato a inviarci lettere e si è creata una buona intesa ed in seguito mi ha invitato a Parigi per conoscerci di persona, è molto importante per me creare un’intesa con gli attori, tutto ciò è avvenuto circa un anno e mezzo prima delle riprese. È stato fondamentale conoscere bene Hanna anche per creare quella relazione di fiducia, capire cosa pensasse del personaggio e i suoi dubbi. Che sensazioni ha provato leggendo la sceneggiatura? Cosa non le è piaciuto? È sempre un investimento emotivo per me, ma mi sento davvero fortunato ad avere avuto l’occasione di conoscerla e condividere uno sprazzo di vita con lei. Poi non mi sembra il caso di dirlo, ma è una leggenda del cinema. Conosce così bene questo medium e ha collaborato con tantissimi cineasti, come Fassbinder, Godard e Marco Ferreri, giusto per citare qualche nome. Ha acquisito una saggezza che mi ha aiutato durante tutte le riprese. Quando si lavora con lei, si ha quella sensazione di avere a che fare con una vera leggenda del cinema.
Ho avuto questa stessa sensazione durante la conferenza stampa del film a Berlino con quel lungo discorso che ha fatto.
Esatto, le piace avere quel tipo di attenzione (il regista ride, n.d.r.), è pur sempre una grande diva e la adoro per questo.
Vista la sua carriera, possiamo dire che può permettersi di avere questo atteggiamento. Ritornando al film, diverse volte sentiamo la parabola di questo “pastore perseguitato” (cursed shepherd, n.d.r.), cosa può dirmi a riguardo?
Mi ha stupito il fatto che molte persone abbiano interpretato la storia del pastore come se fosse quella di Munir o il suo passato. Non l’ho mai pensata in questo modo. La storia viene raccontata dalla madre che soffre di Alzheimer e, avendo avuto una nonna con la stessa malattia, so che queste persone dimenticano quasi tutto, ma in qualche modo ricordano qualcosa di assurdo, che non ha senso e continuano a ripeterlo. Munir sa che la madre si sente meglio quando le concede lo spazio di raccontare la storia, ma questa non è correlata con la realtà o il passato del personaggio. Questo racconto è completamente inventato e non ha senso, è pieno di contraddizioni, come il fatto che lui voglia ritornare in questo luogo che non ha mai lasciato. L‘assurdità di questa situazione mi ha fatto ragionare, come potevo rappresentarla all’interno del film? Ho dovuto dimenticare la narrativa convenzionale e lineare per creare una dimensione paradossale nella quale Munir vuole andare a cercare sua madre, perché pensa di averla persa. Questa storia è anche una sorta di “via di fuga” per le persone esiliate, che si sentono perse in un paese lontano dalla propria casa. La maggior parte di queste non riescono ad adattarsi alla nuova cultura e lo spaesamento prende il sopravvento. Alcune volte queste persone sono fortunate, sanno che in futuro potranno tornare nella propria terra d’origine, ma si sentono comunque degli “stranieri”. E una condizione piuttosto miserabile e il loro senso di perdita è quasi irreversibile, è come se fossero sospesi nel tempo. Hanno solo i loro sogni, la loro immaginazione per trovare un po’ di pace e serenità. È tragico perché sembra che questa dimensione assurda sia l’unico sollievo per le persone esiliate. Ma dall’altra parte, guarda quello che sta accadendo ora in Siria, conosco amici che sono tornati dopo l’esilio, ma non è come prima, vengono considerati dei forestieri in qualche modo. In Yunan, Munir non viene “salvato” da Valeska o da altre persone, ma da questa dimensione immaginaria, più nello specifico nel momento in cui riesce a ritrovare la madre. Il mio intento era quello di sviluppare queste due linee narrative, dove il protagonista sceglie di vivere nell’immaginazione piuttosto che nella realtà. Questa in qualche modo è la mia visione sul tema dell’esilio.
Munir (Georges Khabbaz) in una scena del film
Quindi diresti che il finale sia qualcosa di positivo o ottimista per Munir?
Ho lavorato duramente per cercare di rendere il finale del film il più ambiguo possibile. Potrebbe anche esprimere qualcosa di tragico, questo perché non ci sono delle risposte dietro a certi quesiti esistenziali. Inizi a pensare al significato delle cose e alla fine scopri delle dure verità sulla tua mortalità e su come essa non abbia un significato; è come un fiore che cresce in una landa desolata. Altre persone preferiscono vivere il momento e non pensare a tutto questo. Sempre a Bari questa persona mi ha detto che il finale gli ha regalato una sensazione di speranza, come se il film gli avesse proprio detto “you will be forgotten” e di vivere il momento. Qualcun’altro ha dato una lettura più interessante dietro a quella frase che ho appena citato. Munir ha paura di essere dimenticato, la madre lo sta facendo e quindi lui si chiede “chi sono io se non posso essere ricordato?” O forse nel finale decide di “essere dimenticato” come il pastore, come se le ultime parole che senti siano state scritte proprio da lui.
Cosa puoi dirmi dell’ambiente naturale che si vede nel film? Mi ha colpito molto l’inserimento di quest’isola che rimane in superficie durante le alluvioni. Avevi scoperto il luogo prima di scrivere il soggetto oppure è successo il contrario?
Sono chiamati Hallig e si possono definire delle isole a tutti gli effetti. Il tutto è nato quattro anni fa, mi trovavo ad Amburgo per la post-produzione e ho sentito di questi posti per la prima volta; ricordo ancora di aver trovato i lavori di questo fotografo che mostravano come l'innalzamento del mare avesse sommerso delle linee ferroviarie. Mi ero chiesto come era possibile e se fosse tutto frutto del CGI, invece ho fatto delle ricerche e ho scoperto questo luogo. All’epoca avevo già scritto il soggetto di Yunan, e ho capito come questo luogo rappresentasse il fulcro non solo della storia, ma anche del protagonista. Quando ho approfondito questo fenomeno naturale dove l’acqua fa sparire e ricomparire la terra, ho pensato fosse qualcosa di poetico che riflettesse la condizione delle persone in esilio. La sommersione, la trasformazione, la perdita e il ritorno, tutto sembrava perfetto e correlato con Munir. Il fenomeno naturale è diventato una sorta di personaggio, dovevo costruire la storia attorno a questo. Il vento è stato un punto chiave vista il problema di Munir con la respirazione, come si vede nel primo frame. Cerco sempre di utilizzare la natura per esprimere la condizione del personaggio principale, la sua solitudine, sofferenza e depressione, e come l'ambiente abbia un impatto su di lui.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti cosa ne pensassi dei vari paragoni tra il tuo cinema e quello di registi come il primo Nuri Bilge Ceylan e Andrej Tarkovskij.
Non mi danno fastidio ovviamente, anzi direi che è un onore. Inoltre l’arte è un atto culturale continuo, nel senso che avvengono queste ispirazioni inconsce negli artisti. Sono nato a Kiev, è ho sempre usato come reference la cultura sovietica, quindi è impossibile non essere influenzato da un maestro come Tarkovskij. Apprezzo molto quando i cineasti cercano di realizzare un certo cinema filosofico e spirituale, quindi si, di sicuro ha avuto un impatto sui miei lavori. Però, devo ammettere che spesso le persone vogliono cercare dei collegamenti forzati.
Credi che questo sia riduttivo nei confronti del tuo cinema?
Non proprio, non riguarda solo il mio cinema ma una concezione generica che hanno certe persone. Per farti un esempio, hanno paragonato la scena iniziale di The Stranger a quella di Werckmeister Harmonies (film del 2000 di Béla Tarr che ha nel cast Hanna Schygulla, n.d.r.), e sarò sincero con te, non ho ancora visto quel film, ma ho dato un’occhiata all’inizio per vedere questo "parallelismo". Ad alcuni da fastidio questo continuo citazionismo, altri lo amano, è un discorso complesso. Per dirti, guardo tanti film, non ho mai frequentato una scuola di cinema, mi sono appassionato alla Settima Arte da solo. Anche se noto certe similitudini, tengo a non farci troppo caso, preferisco concentrarmi su altro in modo da rispettare di più l’artista e la sua visione, spesso non è una semplice operazione di copia e incolla, puoi sentire che è differente, anche perché queste similitudini possono anche essere un omaggio. Concludo dicendo che grandi maestri come Tarkovskij o Antonioni sono stati fondamentali nella mia “crescita cinematografica”.