di Mario Vannoni
NC-293
06.04.2025
L’uscita della serie britannica Adolescence (Jack Thorne e Stephen Graham, 2025) su Netflix si sta rivelando un successo planetario, non solo sul versante del responso (unanime) di pubblico e critica, ma soprattutto per il merito di aver rinfocolato il dibattito attorno a temi attualissimi e di interesse sempre maggiore nella quotidianità odierna. La serie è stata prima nelle classifiche di visualizzazione di Netflix in oltre 70 paesi, arrivando, tramite un fitto passaparola, nelle aule del parlamento britannico, dove ne ha preso visione anche il primo ministro Keir Starmer, il quale ha sottolineato l’importanza nel diffondere consapevolezza sui temi trattati dall’opera suscitando un interesse critico che possa ridiscuterli.
Inizialmente Adolescence aveva attirato l’attenzione per il fatto che ognuno dei suoi 4 episodi è risolto registicamente attraverso un unico piano sequenza, dettaglio rivelatosi indirettamente una performante strategia di marketing, rintuzzata dalla diffusione di una sequenza di contenuti in cui viene mostrato il dietro le quinte della realizzazione che ha alimentato interesse negli spettatori. Ma la vera ragione per cui la serie è diventata a tutti gli effetti un fenomeno culturale senza precedenti nel breve termine - esempi recenti in tal senso erano stati la prima stagione di Squid Game (Hwang Dong-hyuk, 2021) e Baby Reindeer (Richard Gadd, 2024), pur senza la stessa forza di penetrazione - sta nell’abilità degli autori di toccare in profondità una serie di rimossi psicologici che, ci viene suggerito, stanno tornando a galla con conseguenze potenzialmente devastanti sulle future generazioni.
Il regista Philip Barantini (sulla sinistra) con gli attori Owen Cooper, Stephen Graham e Ashley Walters
Dietro le quinte di Adolescence (2025)
Un’emotività sommersa
La tecnica del piano sequenza, lungi dall’essere un virtuosistico esercizio di stile, ha richiesto una lunga fase di preparazione, sia dal punto di vista tecnico - la costruzione dei set, l’entrata e l’uscita degli attori dall’inquadratura, la pianificazione al millimetro dei movimenti di macchina e del passaggio della MDP tra le mani dei vari operatori o, talvolta, all’ancoraggio di un drone - ma soprattutto sulla costruzione del profilo psicologico dei personaggi. Il piano sequenza, costruendo l’azione in un’unità di spazio e di tempo e perciò conferendo un’impalcatura più teatrale alla messa in scena, in questo caso viene sfruttato come strategia di coesione e rafforzamento emotivo. Al centro di questa modalità rappresentativa stanno ovviamente gli interpreti – tutti meravigliosi, da Stephen Graham, anche co-autore, a Owen Cooper, al suo esordio assoluto in ambito recitativo – che esaltano un’espressività trasmessa per sottrazione o con improvvisi accenti, attorno ai quali si snodano le scelte registiche.
Nel primo episodio, durante la perquisizione di Jamie (Cooper), il protagonista, l’operatore va a stringere su un primo piano stretto del padre (Graham), che guarda il figlio mentre viene fatto spogliare per verificare se non porti addosso oggetti pericolosi. Questo tipo di scelte, frequenti nella serie, ottengono due effetti differenti. Da un lato le inquadrature strette in piano sequenza costringono a focalizzarsi su un dettaglio relegando al fuori campo il resto dell’azione, generando un’impossibilità di sguardo reciproco tra i personaggi, il cui volto diventa il centro dell’azione, pena l’esclusione del volto dell’altro. Da un lato, quindi, il piano sequenza produce separazione, nega il controcampo. Dall’altro, però, la focalizzazione sui volti crea lo spazio per una messa a fuoco dei tumulti emotivi che scorrono come lettere sulla carta negli sguardi e nelle microespressioni degli attori, restituendo, tramite il silenzio, allo spettatore un caleidoscopio emozionale altrimenti inaccessibile.
Il piano sequenza, dunque, funge anche da microscopio, o meglio da termometro emotivo, che è altresì la regola d’ingaggio principale con la quale si cerca una connessione umana con chi sta dall’altra parte dello schermo. In questo modo si riesce, pur tramite un piano sequenza, a scandire un montaggio interno che è lo strumento con cui misurare la portata psicologica della serie: in quanto spettatori accediamo al mondo interiore dei personaggi, il cui accesso è tuttavia negato agli altri protagonisti. È in questo spazio tecnico, o forse sarebbe più corretto definirlo artistico, che si palesa la portata sociale di Adolescence: la modalità rappresentativa diventa uno scandaglio emotivo per scoprire le nevrosi generazionali e della società tutta.
Owen Cooper, lo straordinario protagonista di Adolescence (2025)
False piste
Questo modus operandi è portato avanti coerentemente anche sul versante narrativo. La serie inizia - e prosegue lungo tutto il primo episodio - come un poliziesco investigativo, che, vista l’accusa di omicidio mossa nei confronti del ragazzo tredicenne, si presume proseguirà nella direzione del procedural e del courtroom drama. Alla fine dell’episodio, tuttavia, alla conclusione del primo interrogatorio nei confronti di Jamie l’ispettore Luke Bascombe (Ashley Walters) mostra la prova definitiva che lo incastra: un video che lo ritrae nell’atto di aggredire Katie (Emilia Holliday), la ragazza morta la sera prima. Una svolta spiazzante, che pone un dilemma etico fondamentale. Sino a questo punto, infatti, lo spettatore, per mezzo dei procedimenti descritti in precedenza, era stato portato a empatizzare incondizionatamente con il protagonista e la sua famiglia. Un gioco facile, a dire il vero, in quanto è immediato provare compassione nei confronti di un ragazzo minorenne accusato di omicidio, che per bontà si presume innocente. La prova, perciò, più che ribaltare la sorte dei personaggi la definisce; il vero plot twist si imprime invece alla nostra percezione: ancora una volta il piano sequenza si rivela decisivo, inquadrando un piano a due del ragazzo accanto al padre, quest’ultimo incredulo e disperato. Al termine del primo episodio siamo come lui, impossibilitati ad accettare la realtà.
L’esito (morale più che giudiziario) sembra rimandato, ma è a questo punto che Adolescence cambia pelle. Dopo aver visto il primo atto ero restio a riconoscere la prova portata dall’ispettore come una verità definitiva; e per certi versi avevo ragione, ma non nel senso che mi ero immaginato. Il secondo episodio è ambientato tre giorni dopo l’incriminazione di Jamie e vede proseguire le indagini all’interno della scuola che sia lui che Katie frequentavano. Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, la ricerca di informazioni non precisa il caso da un punto di vista forense, ma scava ancora di più il dissidio etico e morale alla base dell’operazione. La scuola è presentata in maniera non dissimile da un istituto penitenziario, con corridoi stretti e classi-gabbie che, a detta dello stesso detective, ricordano celle carcerarie; gli scontri tra studenti e il bullismo dilagante sono evidenti in ogni angolo; l’omertà degli insegnanti non si limita al silenzio, sfocia nel disinteresse o nell’incapacità di comprendere: il luogo dove dovrebbe avvenire la formazione delle generazioni a venire sembra invece un coacervo di rimossi, uno spazio in cui la coscienza individuale permane ineducata e vulnerabile.
L’indagine, allora, fa emergere il dramma del contemporaneo. Una generazione, che è quella delle classi dirigenti e degli adulti di oggi, si mostra del tutto inadeguata nell’intercettare le esigenze dei figli, in un silenzio generalizzato che viene confuso con la quiete. Quando Bascombe parla con il proprio figlio, Adam (Amari Bacchus), durante le ricerche a scuola, quest’ultimo, all’imbeccata del padre che gli comunica che non può rivelargli che cosa ha fatto Jamie, risponde che tutti sanno cosa ha fatto. E non lo sanno in virtù di qualche ricerca effettuata a posteriori, ma grazie a una conoscenza pregressa del contesto. Il terzo episodio, collocato sette mesi dopo l’omicidio, scoperchia il vaso di Pandora. Nel centro d’istruzione dove è rinchiuso Jamie in attesa del processo ha luogo il confronto verbale, emotivo, psicologico e al limite del fisico tra lui e la psicologa incaricata del suo caso.
Un episodio che è quasi un saggio di recitazione da parte di Owen Cooper, che si esibisce qui nella sua prima scena in assoluto davanti a una macchina da presa, e che è soprattutto il fulcro nevralgico della serie, vista la portata emotiva e il clima da psicosi collettiva che fa emergere. È qui che l’indagine cessa di essere forense e si scopre psicologica: la domanda non è più chi è stato ma perché lo ha fatto. Forse è in questo momento che ho compreso che stavo sbagliando a domandarmi ancora se Jamie fosse innocente o meno. La serie me lo aveva già detto chiaramente nel primo episodio, in maniera incontrovertibile: ero io che non ero stato in grado di accettarlo.
Owen Cooper e Erin Doherty
Grazie allo slittamento progressivo dal poliziesco al dramma (familiare e collettivo) Adolescence ci costringe a un ripensamento totale delle nostre aspettative, non solo di quelle diegetiche ma anche extradiegetiche. In altre parole la mia percezione non si rifletteva unicamente sullo svolgersi narrativo, ma mi aveva portato al tentativo di comprensione di una realtà. Grazie a un atteggiamento ferreo ma al contempo dialogante, pur minato dal comportamento aggressivo di Jamie, la psicologa è l’unica che riesce davvero a strappare una confessione al ragazzo, che a questo punto non ammette la verità per dovere nei confronti della legge ma perché la riconosce come tale, la sente.
La galleria di problematiche che emergono è a dir poco enorme: il fascino mostruoso esercitato da personalità come Andrew Tate sui giovani ragazzi, il consolidarsi in loro di concetti quali manosfera e cultura incel come verità incontrovertibili senza che siano in grado di comprendere che ciò è il residuo della mancata espressione di un disagio, la dualità oppositiva conseguente che viene a formarsi tra maschi e femmine, un’inevitabile esplosione di violenza rabbiosa e perciò pericolosissima, a maggior ragione se non vista e non riconosciuta nella sua complessità. Tutto questo, infatti, avviene a fronte della totale cecità degli adulti, che sono coloro che dovrebbero possedere la consapevolezza da trasmettere ai figli per affrontare certi temi.
Adolescence è nata perché Stephen Graham si è accorto di un aumento di crimini violenti in Gran Bretagna, ed è curioso che il suo titolo significhi proprio “adolescenza”. Il protagonista, infatti, ha tredici anni, che canonicamente è l’età in cui si fa iniziare questa fase della vita, quasi a segnalare, dunque, che il problema sorge in una fase di transizione, quando il corpo, i sentimenti, gli istinti e la generale predisposizione nei confronti del mondo cambiano. Nel quarto episodio, che segna la definitiva trasformazione del poliziesco in dramma familiare, il padre di Jamie ha uno scambio con la madre in cui afferma che era convinto che dietro la porta della camera di suo figlio quest’ultimo fosse al sicuro: ancora una volta il silenzio viene scambiato per quiete, l’assenza di dialogo fa credere che non esistano problemi, e intanto i ragazzi cercano risposte altrove e le trovano nelle soluzioni facili, che sono sempre estreme, che non guardano alla complessità e spesso hanno un carattere di brutalità. La serie sembra dirci che la cultura incel e la violenza ad essa connessa non sono il problema, ma soltanto il risultato di un problema; e che per scoprire il vero problema dobbiamo guardare dentro noi stessi. I should have done better.
Padri e figli a confronto
Uno sguardo ulteriore
Credo che in fondo la scelta del piano sequenza serva anche a questo. Nel suo La condizione postmediale Ruggero Eugeni descrive una modalità di ripresa che si differenzia sia dalla soggettiva classica che dall’inquadratura slegata dallo sguardo del personaggio e la chiama first person shot:
Il first person shot viene caratterizzato da due aspetti: il costituire una trascrizione immediata di una esperienza soggettiva di prensione incorporata del mondo, e l’implicare una relazione di simbiosi e ibridazione tra un soggetto umano e una macchina da ripresa. […] il first person shot non è una “antisoggettiva”, ma piuttosto una “iper-soggettiva”: esso realizza l’utopia di una soggettiva infinita e in grado di trascrivere perfettamente l’esperienza personale del mondo e del racconto […].
(R. Eugeni, La condizione postmediale, Editrice La Scuola, Milano, 2015, p.52.)
Il first person shot, allora, più che come una modalità di ripresa si classifica come un vero e proprio dispositivo di visione capace di ridefinire le coordinate della messa in scena e di dar luogo ad uno sguardo che a primo impatto potrebbe apparire disincarnato, come se si trattasse di un narratore onnisciente extradiegetico. In realtà, come ben spiega Eugeni, il first person shot non nega la visione soggettiva, semmai la amplifica trasformandola in uno sguardo potenziato e “impossibile”, che tutto vede e tutto registra. A questo punto c’è da chiedersi a chi appartenga questo sguardo in Adolescence. Perché se i personaggi sono pedinati dalla macchina da presa che, grazie alle strategie di inclusione ed esclusione, instaura una dialogicità emotiva “per procura”, accessibile allo spettatore ma interdetta ai soggetti dell’azione, lo sguardo che ne deriva deve essere ricondotto a un soggetto, emotivo a sua volta, che lo ordina. Il nostro sguardo. Che a distanza (ma quanto mai partecipi) pensiamo di assistere agli eventi, portando in essi i nostri valori, le nostre convinzioni e i nostri pregiudizi, quando in realtà li stiamo vivendo in prima persona.
Adolescence (2025)
La potenza dell’utilizzo del piano sequenza nella serie, perciò, sta nella determinazione nello spettatore di un’agentività inedita: non osservatore passivo ma coordinatore attivo di uno sguardo morale. L’indagine non si incentra sulla tenuta dell’ordinamento giudiziario, sul modello di opere quali Juror #2 (Giurato numero 2, Clint Eastwood, 2024) o del suo modello 12 Angry Men (La parola ai giurati, Sidney Lumet, 1957), in cui lo sguardo etico si rivolge dal soggetto all’esterno; siamo più dalle parti di Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti, Woody Allen, 1989), dove l’agire del soggetto sulla realtà lo rimanda a una responsabilità morale che, in un mondo senza Dio, lo rende unico giudice dei propri atti. L’azione etica in Adolescence diviene allora, pasolinianamente, estetica.
Una strategia rappresentativa che unisce mentre separa, che scopre la vista nella cecità e che cerca una presa di responsabilità etica nelle immagini. Ciò che vediamo (e che dovremmo guardare) ci ri-guarda. Penso sia questo il più grande pregio di Adolescence: chiederci se quello che guardiamo ci piace, e cosa fare a riguardo. Siamo noi a possedere lo sguardo o ci facciamo possedere da esso?
di Mario Vannoni
NC-293
06.04.2025
Il regista Philip Barantini (sulla sinistra) con gli attori Owen Cooper, Stephen Graham e Ashley Walters
L’uscita della serie britannica Adolescence (Jack Thorne e Stephen Graham, 2025) su Netflix si sta rivelando un successo planetario, non solo sul versante del responso (unanime) di pubblico e critica, ma soprattutto per il merito di aver rinfocolato il dibattito attorno a temi attualissimi e di interesse sempre maggiore nella quotidianità odierna. La serie è stata prima nelle classifiche di visualizzazione di Netflix in oltre 70 paesi, arrivando, tramite un fitto passaparola, nelle aule del parlamento britannico, dove ne ha preso visione anche il primo ministro Keir Starmer, il quale ha sottolineato l’importanza nel diffondere consapevolezza sui temi trattati dall’opera suscitando un interesse critico che possa ridiscuterli.
Inizialmente Adolescence aveva attirato l’attenzione per il fatto che ognuno dei suoi 4 episodi è risolto registicamente attraverso un unico piano sequenza, dettaglio rivelatosi indirettamente una performante strategia di marketing, rintuzzata dalla diffusione di una sequenza di contenuti in cui viene mostrato il dietro le quinte della realizzazione che ha alimentato interesse negli spettatori. Ma la vera ragione per cui la serie è diventata a tutti gli effetti un fenomeno culturale senza precedenti nel breve termine - esempi recenti in tal senso erano stati la prima stagione di Squid Game (Hwang Dong-hyuk, 2021) e Baby Reindeer (Richard Gadd, 2024), pur senza la stessa forza di penetrazione - sta nell’abilità degli autori di toccare in profondità una serie di rimossi psicologici che, ci viene suggerito, stanno tornando a galla con conseguenze potenzialmente devastanti sulle future generazioni.
Dietro le quinte di Adolescence (2025)
Un’emotività sommersa
La tecnica del piano sequenza, lungi dall’essere un virtuosistico esercizio di stile, ha richiesto una lunga fase di preparazione, sia dal punto di vista tecnico - la costruzione dei set, l’entrata e l’uscita degli attori dall’inquadratura, la pianificazione al millimetro dei movimenti di macchina e del passaggio della MDP tra le mani dei vari operatori o, talvolta, all’ancoraggio di un drone - ma soprattutto sulla costruzione del profilo psicologico dei personaggi. Il piano sequenza, costruendo l’azione in un’unità di spazio e di tempo e perciò conferendo un’impalcatura più teatrale alla messa in scena, in questo caso viene sfruttato come strategia di coesione e rafforzamento emotivo. Al centro di questa modalità rappresentativa stanno ovviamente gli interpreti – tutti meravigliosi, da Stephen Graham, anche co-autore, a Owen Cooper, al suo esordio assoluto in ambito recitativo – che esaltano un’espressività trasmessa per sottrazione o con improvvisi accenti, attorno ai quali si snodano le scelte registiche.
Nel primo episodio, durante la perquisizione di Jamie (Cooper), il protagonista, l’operatore va a stringere su un primo piano stretto del padre (Graham), che guarda il figlio mentre viene fatto spogliare per verificare se non porti addosso oggetti pericolosi. Questo tipo di scelte, frequenti nella serie, ottengono due effetti differenti. Da un lato le inquadrature strette in piano sequenza costringono a focalizzarsi su un dettaglio relegando al fuori campo il resto dell’azione, generando un’impossibilità di sguardo reciproco tra i personaggi, il cui volto diventa il centro dell’azione, pena l’esclusione del volto dell’altro. Da un lato, quindi, il piano sequenza produce separazione, nega il controcampo. Dall’altro, però, la focalizzazione sui volti crea lo spazio per una messa a fuoco dei tumulti emotivi che scorrono come lettere sulla carta negli sguardi e nelle microespressioni degli attori, restituendo, tramite il silenzio, allo spettatore un caleidoscopio emozionale altrimenti inaccessibile.
Il piano sequenza, dunque, funge anche da microscopio, o meglio da termometro emotivo, che è altresì la regola d’ingaggio principale con la quale si cerca una connessione umana con chi sta dall’altra parte dello schermo. In questo modo si riesce, pur tramite un piano sequenza, a scandire un montaggio interno che è lo strumento con cui misurare la portata psicologica della serie: in quanto spettatori accediamo al mondo interiore dei personaggi, il cui accesso è tuttavia negato agli altri protagonisti. È in questo spazio tecnico, o forse sarebbe più corretto definirlo artistico, che si palesa la portata sociale di Adolescence: la modalità rappresentativa diventa uno scandaglio emotivo per scoprire le nevrosi generazionali e della società tutta.
Owen Cooper, lo straordinario protagonista di Adolescence (2025)
False piste
Questo modus operandi è portato avanti coerentemente anche sul versante narrativo. La serie inizia - e prosegue lungo tutto il primo episodio - come un poliziesco investigativo, che, vista l’accusa di omicidio mossa nei confronti del ragazzo tredicenne, si presume proseguirà nella direzione del procedural e del courtroom drama. Alla fine dell’episodio, tuttavia, alla conclusione del primo interrogatorio nei confronti di Jamie l’ispettore Luke Bascombe (Ashley Walters) mostra la prova definitiva che lo incastra: un video che lo ritrae nell’atto di aggredire Katie (Emilia Holliday), la ragazza morta la sera prima. Una svolta spiazzante, che pone un dilemma etico fondamentale. Sino a questo punto, infatti, lo spettatore, per mezzo dei procedimenti descritti in precedenza, era stato portato a empatizzare incondizionatamente con il protagonista e la sua famiglia. Un gioco facile, a dire il vero, in quanto è immediato provare compassione nei confronti di un ragazzo minorenne accusato di omicidio, che per bontà si presume innocente. La prova, perciò, più che ribaltare la sorte dei personaggi la definisce; il vero plot twist si imprime invece alla nostra percezione: ancora una volta il piano sequenza si rivela decisivo, inquadrando un piano a due del ragazzo accanto al padre, quest’ultimo incredulo e disperato. Al termine del primo episodio siamo come lui, impossibilitati ad accettare la realtà.
L’esito (morale più che giudiziario) sembra rimandato, ma è a questo punto che Adolescence cambia pelle. Dopo aver visto il primo atto ero restio a riconoscere la prova portata dall’ispettore come una verità definitiva; e per certi versi avevo ragione, ma non nel senso che mi ero immaginato. Il secondo episodio è ambientato tre giorni dopo l’incriminazione di Jamie e vede proseguire le indagini all’interno della scuola che sia lui che Katie frequentavano. Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, la ricerca di informazioni non precisa il caso da un punto di vista forense, ma scava ancora di più il dissidio etico e morale alla base dell’operazione. La scuola è presentata in maniera non dissimile da un istituto penitenziario, con corridoi stretti e classi-gabbie che, a detta dello stesso detective, ricordano celle carcerarie; gli scontri tra studenti e il bullismo dilagante sono evidenti in ogni angolo; l’omertà degli insegnanti non si limita al silenzio, sfocia nel disinteresse o nell’incapacità di comprendere: il luogo dove dovrebbe avvenire la formazione delle generazioni a venire sembra invece un coacervo di rimossi, uno spazio in cui la coscienza individuale permane ineducata e vulnerabile.
L’indagine, allora, fa emergere il dramma del contemporaneo. Una generazione, che è quella delle classi dirigenti e degli adulti di oggi, si mostra del tutto inadeguata nell’intercettare le esigenze dei figli, in un silenzio generalizzato che viene confuso con la quiete. Quando Bascombe parla con il proprio figlio, Adam (Amari Bacchus), durante le ricerche a scuola, quest’ultimo, all’imbeccata del padre che gli comunica che non può rivelargli che cosa ha fatto Jamie, risponde che tutti sanno cosa ha fatto. E non lo sanno in virtù di qualche ricerca effettuata a posteriori, ma grazie a una conoscenza pregressa del contesto. Il terzo episodio, collocato sette mesi dopo l’omicidio, scoperchia il vaso di Pandora. Nel centro d’istruzione dove è rinchiuso Jamie in attesa del processo ha luogo il confronto verbale, emotivo, psicologico e al limite del fisico tra lui e la psicologa incaricata del suo caso.
Un episodio che è quasi un saggio di recitazione da parte di Owen Cooper, che si esibisce qui nella sua prima scena in assoluto davanti a una macchina da presa, e che è soprattutto il fulcro nevralgico della serie, vista la portata emotiva e il clima da psicosi collettiva che fa emergere. È qui che l’indagine cessa di essere forense e si scopre psicologica: la domanda non è più chi è stato ma perché lo ha fatto. Forse è in questo momento che ho compreso che stavo sbagliando a domandarmi ancora se Jamie fosse innocente o meno. La serie me lo aveva già detto chiaramente nel primo episodio, in maniera incontrovertibile: ero io che non ero stato in grado di accettarlo.
Owen Cooper e Erin Doherty
Grazie allo slittamento progressivo dal poliziesco al dramma (familiare e collettivo) Adolescence ci costringe a un ripensamento totale delle nostre aspettative, non solo di quelle diegetiche ma anche extradiegetiche. In altre parole la mia percezione non si rifletteva unicamente sullo svolgersi narrativo, ma mi aveva portato al tentativo di comprensione di una realtà. Grazie a un atteggiamento ferreo ma al contempo dialogante, pur minato dal comportamento aggressivo di Jamie, la psicologa è l’unica che riesce davvero a strappare una confessione al ragazzo, che a questo punto non ammette la verità per dovere nei confronti della legge ma perché la riconosce come tale, la sente.
La galleria di problematiche che emergono è a dir poco enorme: il fascino mostruoso esercitato da personalità come Andrew Tate sui giovani ragazzi, il consolidarsi in loro di concetti quali manosfera e cultura incel come verità incontrovertibili senza che siano in grado di comprendere che ciò è il residuo della mancata espressione di un disagio, la dualità oppositiva conseguente che viene a formarsi tra maschi e femmine, un’inevitabile esplosione di violenza rabbiosa e perciò pericolosissima, a maggior ragione se non vista e non riconosciuta nella sua complessità. Tutto questo, infatti, avviene a fronte della totale cecità degli adulti, che sono coloro che dovrebbero possedere la consapevolezza da trasmettere ai figli per affrontare certi temi.
Adolescence è nata perché Stephen Graham si è accorto di un aumento di crimini violenti in Gran Bretagna, ed è curioso che il suo titolo significhi proprio “adolescenza”. Il protagonista, infatti, ha tredici anni, che canonicamente è l’età in cui si fa iniziare questa fase della vita, quasi a segnalare, dunque, che il problema sorge in una fase di transizione, quando il corpo, i sentimenti, gli istinti e la generale predisposizione nei confronti del mondo cambiano. Nel quarto episodio, che segna la definitiva trasformazione del poliziesco in dramma familiare, il padre di Jamie ha uno scambio con la madre in cui afferma che era convinto che dietro la porta della camera di suo figlio quest’ultimo fosse al sicuro: ancora una volta il silenzio viene scambiato per quiete, l’assenza di dialogo fa credere che non esistano problemi, e intanto i ragazzi cercano risposte altrove e le trovano nelle soluzioni facili, che sono sempre estreme, che non guardano alla complessità e spesso hanno un carattere di brutalità. La serie sembra dirci che la cultura incel e la violenza ad essa connessa non sono il problema, ma soltanto il risultato di un problema; e che per scoprire il vero problema dobbiamo guardare dentro noi stessi. I should have done better.
Padri e figli a confronto
Uno sguardo ulteriore
Credo che in fondo la scelta del piano sequenza serva anche a questo. Nel suo La condizione postmediale Ruggero Eugeni descrive una modalità di ripresa che si differenzia sia dalla soggettiva classica che dall’inquadratura slegata dallo sguardo del personaggio e la chiama first person shot:
Il first person shot viene caratterizzato da due aspetti: il costituire una trascrizione immediata di una esperienza soggettiva di prensione incorporata del mondo, e l’implicare una relazione di simbiosi e ibridazione tra un soggetto umano e una macchina da ripresa. […] il first person shot non è una “antisoggettiva”, ma piuttosto una “iper-soggettiva”: esso realizza l’utopia di una soggettiva infinita e in grado di trascrivere perfettamente l’esperienza personale del mondo e del racconto […].
(R. Eugeni, La condizione postmediale, Editrice La Scuola, Milano, 2015, p.52.)
Il first person shot, allora, più che come una modalità di ripresa si classifica come un vero e proprio dispositivo di visione capace di ridefinire le coordinate della messa in scena e di dar luogo ad uno sguardo che a primo impatto potrebbe apparire disincarnato, come se si trattasse di un narratore onnisciente extradiegetico. In realtà, come ben spiega Eugeni, il first person shot non nega la visione soggettiva, semmai la amplifica trasformandola in uno sguardo potenziato e “impossibile”, che tutto vede e tutto registra. A questo punto c’è da chiedersi a chi appartenga questo sguardo in Adolescence. Perché se i personaggi sono pedinati dalla macchina da presa che, grazie alle strategie di inclusione ed esclusione, instaura una dialogicità emotiva “per procura”, accessibile allo spettatore ma interdetta ai soggetti dell’azione, lo sguardo che ne deriva deve essere ricondotto a un soggetto, emotivo a sua volta, che lo ordina. Il nostro sguardo. Che a distanza (ma quanto mai partecipi) pensiamo di assistere agli eventi, portando in essi i nostri valori, le nostre convinzioni e i nostri pregiudizi, quando in realtà li stiamo vivendo in prima persona.
Adolescence (2025)
La potenza dell’utilizzo del piano sequenza nella serie, perciò, sta nella determinazione nello spettatore di un’agentività inedita: non osservatore passivo ma coordinatore attivo di uno sguardo morale. L’indagine non si incentra sulla tenuta dell’ordinamento giudiziario, sul modello di opere quali Juror #2 (Giurato numero 2, Clint Eastwood, 2024) o del suo modello 12 Angry Men (La parola ai giurati, Sidney Lumet, 1957), in cui lo sguardo etico si rivolge dal soggetto all’esterno; siamo più dalle parti di Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti, Woody Allen, 1989), dove l’agire del soggetto sulla realtà lo rimanda a una responsabilità morale che, in un mondo senza Dio, lo rende unico giudice dei propri atti. L’azione etica in Adolescence diviene allora, pasolinianamente, estetica.
Una strategia rappresentativa che unisce mentre separa, che scopre la vista nella cecità e che cerca una presa di responsabilità etica nelle immagini. Ciò che vediamo (e che dovremmo guardare) ci ri-guarda. Penso sia questo il più grande pregio di Adolescence: chiederci se quello che guardiamo ci piace, e cosa fare a riguardo. Siamo noi a possedere lo sguardo o ci facciamo possedere da esso?