di Omar Franini, Antonio Orrico, Cecilia Parini, Arturo Garavaglia e Lorenzo Sartor
NC-275
15.02.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 75ª edizione del Festival di Berlino. Per questo primo appuntamento ci concentreremo sui primi lungometraggi presentati nelle varie sezioni del festival, tra cui Das Licht di Tom Tykwer, opera che ha aperto il festival con protagonista Lars Eidinger, e No Beast. So Fierce di Qurbani, adattamento moderno del Riccardo III di Shakespeare, entrambi presentati fuori concorso. Passeremo poi alla Competizione ufficiale dove vi racconteremo di Living the Land di Huo Meng, opera che esplora i cambiamenti socioeconomici in un paesino rurale della Cina degli anni ‘90. Ed infine chiuderemo con alcuni titoli dalla sezione Panorama, Forum e Generatiom, con Peter Hujar’s Day, la nuova opera di Ira Sachs, Ato Noturno, film a sfondo erotico del duo Marcio Reolon e Filipe Matzembacherz, il documentario Paul di Denis Côté, Home Sweet Home di Frelle Petersen e The Nature of Invisible Things di Rafaela Camelo.
Das Licht, di Tom Tykwer
Ad aprire la settantacinquesima edizione di questa Berlinale è stato Das Licht, nuovo lungometraggio di Tom Tykwer. Al cento della storia, dalle forti connotazioni autobiografiche (come confermato dall'attore protagonista Lars Eidinger), vi è una tipica famiglia disfunzionale tedesca formata da Tim (Lars Eidinger) e Milena (Nicolette Krebitz), marito e moglie il cui astio reciproco e mancanza di comunicazione hanno danneggiato più del dovuto non solo la loro relazione, ma anche quella con i figli Jon, ragazzo fissato con la VR che fatica a socializzare al di fuori del mondo virtuale, e Frieda, teenager ribelle. Le quattro personalità, tanto distinte quanto distaccate, fungono da archetipo per mostrare la quotidianità caotica e anomala berlinese. La loro vita presto inizierà a mutare dopo l'assunzione di Farrah, rifugiata siriana dal passato nascosto, come donna delle pulizie. L’aurea di mistero dietro la donna è risaltata ancor di più dall’utilizzo di una peculiare forma di terapia che, tramite una tecnologia dotata di luci straboscopiche in grado di inibire la secerbazione di alcune sostanze all’interno del nostro encefalo, riescono a connettere la persona con il suo io più interiore. Nonostante l’ambizione massimalista di Tykwer, il film fatica a decollare e crolla man mano che ci si avvicina all’ epilogo. Il montaggio dinamico e fluido di Run Lola Run (1998) che aveva fatto conoscere il cineasta tedesco, risulta laconico in Das Licht, soprattutto nella prima parte dell’opera dove il regista cerca di seguire le diverse linee narrative dei quattro protagonisti, un approccio corale confusionario che invece di trasportare lo spettatore in queste dinamiche, lo estrania completamente sin da subito. L’estro creativo di Tykwer risulta inutilmente borioso, tra cui risaltano diversi stacchi musicali e un uso stucchevole e banale di Bohemian Rhapsody dei Queen per rafforzare il concetto di “escape from reality”. Il tutto contornato da un tono grottesco che mostra di più il colossale fallimento di Tykwer. Basta pensare ad una delle scene cardine dell’opera, dove madre e figlia esprimono la rabbia repressa accumulata da anni, una scena macchiettistica che non aggiunge nulla alle dinamiche della storia, il che è un vero peccato visto che l’anno scorso Matthias Glasner era riuscito in un’operazione simile con Sterben (2024), altro dramma tedesco con al centro una familia disfunzionale. È difficile trovare delle note positive all’interno di Das Licht; si potrebbe risaltare il lavoro di Eidinger, ma visto il grande talento dell’attore tedesco si noterà come questa, anche se buona, risulta lontana dalle sue migliori performance. Il rapporto pasoliniano, alla Teorema (1968), tra Farrah e il nucleo familiare ad un primo impatto affascina, ma appena si capisce l’intento del cineasta, si intuisce l’occasione sprecata. La durata eccessiva che si avvicina alle tre ore e la pretenziosità stilistica e narrativa di Tykwer rendono Das Licht una delle peggiori aperture della Berlinale degli ultimi anni.
Ato Noturno, di Marcio Reolon e Filipe Matzembacher
Marcio Reolon e Filipe Matzembacher sono due registi che hanno cominciato a lavorare insieme dal 2012, quando con i loro due corti, Um Diálogo de Ballet (2012) e Quarto Vazio (2013), esordirono nel cinema brasiliano. Il loro è un cinema legato indissolubilmente all’ambiente della Berlinale, ed è proprio in questo contesto che avviene il loro debutto nel lungometraggio, con il film Beira-Mar (2015), presentato nella sezione Forum e incentrato sulla scoperta intima da parte di due amici alle prese con una relazione turbolenta. Dopo aver vinto il Teddy Award e il CICAE Art Cinema Award con il loro successivo lavoro, Tinta Bruta (2018), quest’anno ritornano alla manifestazione tedesca con Ato Noturno (2025), presente nella sezione Panorama. Ato Noturno è un'opera che pesca a piene mani dalla tradizione del thriller erotico, presentando anche una netta sfumatura socio-politica e artistica, dove il dramma urbano che coinvolge attivamente i due protagonisti del film, Gabriel Faryas e Cirillo Luna, si trasforma, nel corso della narrazione, in un intrigo inevitabilmente figlio del cinema americano di genere degli anni ‘80/’90. Sempre da quella tendenza, Reolon e Matzembacher recuperano inevitabilmente il legame che si crea tra la sessualità (qui assolutamente esplicita ma espressa in modo estremamente elegante, con fuori campo e close-up che si susseguono molto spesso senza soluzione di continuità) e il potere, politico e identitario. I due registi riescono a ravvivare la tensione mediante brillanti espedienti stilistici, ovvero zoom improvvisi per innalzare il tasso adrenalinico, giochi di luce molto particolari e interessanti negli interni e slow-motion (di cui uno memorabile nell’incipit) che rende il dramma ancora più coriaceo e dove l’apparato legato all’immagine porta, inevitabilmente, ad un corto circuito tra immagine pubblica e privata. La differenza tra queste due dimensioni risulta radicalmente annullata, addirittura ribaltata nel momento in cui il destino dei protagonisti si mescola, e la parte recitata (e quindi finzionale) si fonde con il reale e ne prende il suo posto. Ato Noturno è un film che racconta, principalmente, una ribellione nei confronti dei ruoli predeterminati dalla società, in cui i personaggi si sentono oppressi e "incastonati" fino ad evidenziare la loro vera natura animalesca e predominante. Ruoli che vengono sabotati attraverso l’utilizzo della relazione sessuale, in un lungometraggio che inevitabilmente richiama alla mente nomi tutelari quale quello di Bruce LaBruce, sia per il ricorso alla materia LGBTQ+, sia per la voglia di spazzare via le gabbie conformiste del racconto. Un racconto che, però, si dilunga troppo, e che nella parte centrale gira a vuoto, salvo poi riprendersi definitivamente nei venticinque minuti finali.
Home Sweet Home, di Frelle Petersen
Dopo aver presentato per anni i propri film ai festival di San Sebastián e Tokyo, il regista danese René Frelle Petersen arriva a Berlino con la sua quarta opera, con cui prosegue il suo percorso di impegno sociale nei confronti delle categorie più svantaggiate. Il cinema di questo autore indipendente ha sempre trattato temi come la disabilità e l’impegno delle persone che aiutano i soggetti più a rischio, e, proprio nella sua ultima pellicola, Petersen amplia ulteriormente questo discorso, raccontando la storia di Sofie (Jette Søndergaard), un’infermiera che decide di diventare una badante a domicilio affrontando, contemporaneamente, tutte le difficoltà dovute al crescere da sola una figlia. Il regista non crea alcuna progressione nel susseguirsi delle giornate della protagonista, ma sceglie invece di insistere sulla ripetizione, rendendo centrali i corpi degli anziani, la lentezza di ogni movimento, la ridondanza delle procedure che Sofie deve eseguire sempre nello stesso modo. Per evitare di cadere nella facile retorica della vecchiaia vista come una fase della vita degradante, Petersen sceglie di mantenere uno sguardo oggettivo, scevro di ogni tentativo di commozione o pietismo. I pazienti non vengono mai rappresentati esclusivamente come tali, ma il cineasta dona ad ognuno di essi lo spazio per emergere come esseri umani sfaccettati, la cui dignità non viene mai svilita. Laddove i pazienti vengono caratterizzati attraverso un'accettazione del lento avvicinarsi della fine, il personaggio di Sofie si fonda invece sul concetto di resistenza, accumulando un peso fisico ed emotivo dovuto al suo inevitabile affezionarsi alle persone di cui dovrebbe solo occuparsi. L’opera insiste infatti sui parallelismi tra gli sforzi della protagonista come badante, come madre e come insegnante, mostrando la sofferenza di una figura sociale che al cinema viene sempre poco valorizzata. L'attrice principale regge così sulle proprie spalle il peso di un film che parla della morte come di un evento uguale a tutti gli altri, che non ricerca il sensazionalismo, ma tenta di aderire quanto più possibile alla realtà dei fatti. L’analisi fredda e distaccata di questa problematica sociale alla lunga può sembrare fin troppo dilatata e non sempre la regia di Petersen riesce a mantenere il peso del tema, forse per paura dell’autore stesso di mancare di rispetto al contenuto trattato, laddove invece lo sguardo finale della protagonista commuove e rimane impresso ben oltre i titoli di coda.
Peter Hujar’s Day, di Ira Sachs
Nel 1974, l’autrice Linda Rosenkratz intraprese un progetto letterario nel quale volle indagare la quotidianità di alcuni degli artisti della scena newyorkese degli anni ‘70. Il progetto naufragò in breve tempo poiché la maggior parte delle registrazioni furono perdute, ma qualche anno fa, in un archivio del fotografo Peter Hujar, fu ritrovatauna registrazione risalente al 18 dicembre, giorno dove Rosenkratz intervistò l’amico. La registrazione fu poi trascritta, e qualche anno fa Ira Sachs decise di adattare cinematografico il manoscritto. Nel corso di questa conversazione, Peter (interpretato superbamente da Ben Whishaw) inizia a dare una panoramica intrigante sul circolo culturale di quell’epoca, composto da nomi come William Burroughs e Allen Ginsberg, dal quale si evince anche una personalità piuttosto oscurata dall’intera scena artistica che gli stava attorno, soprattutto dal punto di vista economico, come si evince da un breve estratto nel quale il fotografo spiegava come spesso i suoi lavori venivano “rubati” e non retribuiti. Quello che segue è un film raffinato ed estremamente emotivo per gli standard di Ira Sachs. Non solo le due interpretazioni centrali di Whishaw e Rebecca Hall (interprete di Rosenkratz) riescono a incapsulare le difficoltà quotidiane di questo mondo e quel senso di cameratismo, ma la stessa mise en scene del cineasta mostra una ricercatezza stilistica caratterizzata da continue ellissi all’interno della giornata a cui seguono cambi di location nell’abitazione che rispecchiano il continuo switch di tono ed argomenti. Introspettivo e delicato, Peter Hujar’s Day ha superato di gran lunga le nostre aspettative e aggiunge un altro capitolo interessante nel sodalizio Whishaw/Sachs.
The Good Sister, di Sarah Miro Fisher
“Sorella io ti credo” è uno degli slogan più sentiti da vari movimenti femministi davanti agli episodi di violenza sessuale, ma cosa succede quando a violentare la “sorella” a cui credere è tuo fratello? Sarah Miro Fischer firma il suo primo lungometraggio, The Good sister, presentato nella categoria Panorama, dove il tema della violenza di genere non tocca la vittima in prima persona, ma vuole analizzare il punto di vista di una delle persone più vicine al carnefice. Rose (Marie Bluching), dopo una rottura burrascosa con la sua ex, si trasferisce a casa di suo fratello Sami (Anton Weil), al quale è molto legata. Vivendo con lui, però, Rose non sa che diventerà inconsapevolmente la testimone chiave di una violenza sessuale compiuta proprio da suo fratello ai danni di una ragazza. Miro Fischer tratteggia perfettamente la psicologia di Rose e i suoi vari stati d’animo davanti alla notizia che incrinerà non solo la sua quiete, ma anche la fiducia nei confronti di suo fratello Sami. La regista, infatti, mostra come prima Rose tenti di difendere il fratello e a sostenere con lui che, forse, la ragazza si è solo confusa e ci deve essere stato un malinteso, ma più il film va avanti e maggiore diventa la consapevolezza che la vittima non è colui che le sta accanto. Sarah Miro Fischer, sfila a Berlino con un film dalla forte tematica e un eccellente caratterizzazione dei personaggi. The good sister, nonostante si un buon film che fa riflettere e che presenta una protagonista che attraverso la sua semplicità permette allo spettatore di immedesimarsi, pecca però di una certa inesperienza e immaturità filmica da parte della regista. Le sequenze sono per la maggior parte accademiche e non aggiungono nulla di più al lungometraggio. Inoltre, vi sono delle sequenze al suo interno che vorrebbero nascondere dei significati profondi, ma che celano solo una grande confusione.
The Nature of Invisible Things, di Rafaela Camelo
Fin dal titolo, la regista brasiliana Rafaela Camelo esplicita l’intento artistico della propria opera prima, ossia cercare di definire la forma di un oggetto invisibile, tentare di esprimere una mancanza attraverso le immagini. I personaggi stessi all’interno di The Nature of Invisible Things vivono di mancanze: l’assenza di un figlio venuto a mancare prematuramente, di un cuore rimosso chirurgicamente per via di una malattia o di un lutto in senso più generale. La mancanza diviene l’elemento che interconnette le vite dei personaggi - i quali trascorrono la propria estate all’interno di un ospedale brasiliano - e in particolar modo segna l’esistenza delle due bambine protagoniste, che affronteranno assieme un percorso di crescita, nonché di scoperta della propria identità, dove il raggiungimento della maturità passa anche attraverso la perdita di una persona cara. Il più grande merito del film è sicuramente il modo in cui l’elemento queer della storia che racconta rimane in sottotraccia, in quanto costituisce solamente uno dei tasselli che compongono la personalità dei personaggi e non abbandona mai la dimensione di scoperta e mistero irrisolvibile tipica del coming of age. La diversità dei protagonisti diventa quindi una forma con cui rappresentare l’innocenza infantile e l’idea che un bambino nasca puro, curioso, lontano da ogni tipo di pregiudizio, pronto molto più dell’adulto ad accogliere favorevolmente ciò che non gli assomiglia. La figura del bambino nell’opera, però, non rimane solo ottimista nei confronti della vita, perché le ragazzine protagoniste si interrogano sulla morte, e sembrano pian piano prepararsi alla sua inevitabilità. I vetri oltre cui i personaggi vedono spegnersi gli anziani che avevano conosciuto diventano così la barriera tra due mondi, permettendo a vita e morte di convivere nella stessa inquadratura. Ma come un sentimento universale, se ripetuto, rischia di diventare un cliché, anche una rappresentazione così diretta ed esplicita della morte rischia, per lo spettatore, di mutare in un ricatto morale.Ciò che nella prima parte del film poteva essere una genuina messa in scena del primo incontro giovanile con il lutto, lascia presto spazio a una continua reiterazione di pietà e autocommiserazione, dove lo spettatore si sente costretto a commuoversi perché assiste a una serie di eventi tragici che percepisce come tristi per convenzione e non per una reale costruzione narrativa. In tal senso, l’esordio di Rafaela Camelo viene meno al proprio obiettivo di raccontare l’invisibile, perché indugia sui tratti più commoventi e tragici della storia raccontata, non lasciando quindi reale spazio alla suggestione o al non detto. Di The Nature of Invisible Things rimangono però impresse le interpretazioni delle giovani protagoniste e la capacità di definire i loro caratteri con dialoghi che vanno oltre lo stereotipo e che trovano nella sottrazione una qualità che manca al resto dell’opera.
No Beast. So Fierce, di Buran Qurbani
In passato Burhan Qurbani ha già dato prova di saper rileggere con grande personalità capolavori come Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fassbinder. Con No Beast. So Fierce il regista tedesco di origine afgana riadatta la tragedia Enrico III nella contemporaneità raccontando di uno scontro fra clan di origine medio orientale nell'odierna Germania. Qurbani prende di petto la materia shakespeariana, esplicitandone le strutture e le forme, e arrivando fino a dei veri e propri calchi dal testo originario. Riscrive la tragedia in chiave femminile, sorretto da due prove molto convincente di Kenda Hmeidan e di Hiam Abbas, e la mette in scena con uno stile estremamente contemporaneo che passa da suggestioni refniane e atmosfere underground a un'improvvisa astrazione degli elementi scenici e del colore che esalta ancora di più i corpi e le azioni delle attrici. Fra musica techno, cambi di formato, tableaux vivant e un montaggio che gioca a contrarre i tempi tendendo al videoclip per poi dilatarli, No Beast. So Fierce segue diverse direzioni con una inaspettata coerenza interna per tutta la sua durata. Strabordante, ma non dispersivo, esplicito e grottesco ma mai volgare, il film di Qurbani scava nella radice tragica da "gangster movie" che si ritrova nel testo Shakespeariano e offre allo spettatore un'esperienza cinematografica intensa e coinvolgente. Un peccato che un'opera del genere, che avrebbe avuto tutte le carte in regola per competere per l'Orso d'Oro, sia stata presentata fuori concorso.
The Long Road to the Director’s Chair, di Vibeke Løkkeberg
Era il 1973, c’era stato il ’68, e oltre agli studenti, anche le donne lottavano per cambiare la società e scardinare il patriarcato. Sempre in quell’anno le filmmaker Claudia von Alemann e Helke Sandee organizzarrono il "The Interlational Women’s Film Seminar”. Un seminario a cui parteciparono molte donne da tutto il mondo del settore cinematografico, per confrontarsi, capire come poter cambiare la televisione e il cinema e creare nuovi modelli per la società maschilista e patriarcale. A questo incontro partecipò una giovane Vibeke Løkkeberg, che decise di filmare tutto l'evento e intervistare le varie donne che vi parteciparono. Purtroppo Løkkeberg perse il girato e lo ritrovò solo 50 anni dopo. Montato e presentato nella sezione Forum Special a Berlino, il documentario della regista norvegese mostra come, nonostante tutte le battaglie e i (pochi) passi in avanti fatto nel tempo, ci ritroviamo sempre a combattere per le stesse cose: una rappresentazione migliore del femminile nel cinema (e nella società). Come in Comizi d’Amore (Pier Paolo Pasolini, 1964) le protagoniste del film sono le voci delle donne, che queste fossero in sala, alla conferenza o anche solo per strada. Tutte a chiedere un maggiore coinvolgimento nel settore cinematografico o anche solo di riuscire a raccontare con il cinema temi importanti come l’aborto o la violenza di genere. Il documentario di Løkkeberg risulta un prodotto così attuale che sembra essere girato ai nostri giorni, un aspetto che, purtroppo, lascia l’amaro in bocca e fa pensare a quanti passi ci siano ancora da fare.
Living the Land, di Hugo Meng
Huo Meng è uno degli autori più interessanti che la Mainland cinese ha sfornato negli ultimi anni. Il suo cinema è molto legato ad una tradizione che coinvolge, naturalmente, il confronto tra più generazioni. La sua carriera, però, ha subito una svolta quando, nel 2006, ha conseguito ufficialmente un master in regia cinematografica, dopo essersi laureato in legge ed essere diventato ufficialmente avvocato nel 2002. Dopo aver conseguito il titolo, ha realizzato il suo primo cortometraggio, dal titolo Hongguang’s Holidays (2018), che ha ricevuto il premio come Best Narrative Short Award al Beijing College Student Film Festival. Nel 2018 ha poi esordito ufficialmente al Festival di Berlino, nella sezione On Transmission 2020, con il suo primo lungometraggio, dal titolo Guo Zhao Guan (2018). Proprio quest’ultimo film gli ha aperto le porte per il Concorso della Berlinale, dov’è tornato ufficialmente quest’anno con il suo nuovo film, dal titolo Sheng xi zhi di (2025), noto come Living The Land. Un titolo che già evoca e porta con sé una materia ben definita e ben nota al cinema dell’Est asiatico, ovvero quella legata alla tradizione, al proprio territorio e alla sua evoluzione, come anche allo scontro generazionale e al legame indissolubile tra vita e morte. Huo Meng è però molto bravo a non ricadere nella classica trappola che incombe quando i nomi tutelari sono i più grandi del cinema asiatico. Su tutti, si stagliano naturalmente le influenze di Yasujirō Ozu, soprattutto nell'approccio che il regista cinese adopera nella direzione dei più piccoli (con alcuni piani sequenza che lasciano spazio e libera espressione al protagonista Chuang), ma a sorprendere è il richiamo ad un altro nome, legato alla tradizione della New Wave taiwanese, ovvero Hou Hsiao-Hsien. Ad emergere è il rapporto tra passato e presente di un Paese, il contatto continuo tra la Storia e le storie, così come viene sottolineato il legame tra la tradizione, che resta viva nella memoria, e il nuovo che avanza. Colpisce però il tono con cui Huo Meng disattende le aspettative dello spettatore, portandolo sui binari di un ritratto corale che sfrutta un linguaggio molto fresco e ironico, dove il legame tra vita e morte è stigmatizzato in modo del tutto parossistico e anche canzonatorio, nei confronti di una Terra che si riscopre inaccessibile anche per i suoi stessi abitanti (come nella scena nebbiosa che coinvolge il protagonista), in cui sembra impossibile anche provare l’ebbrezza della libertà di sposare chi si vuole e dove il tempo che passa, più che essere un flusso inesorabile, diventa una minaccia per le giovani e per le vecchie generazioni. Living The Land richiama inevitabilmente alla mente il capolavoro di Hou, The Time To Live And The Time To Die (1985), per tutte le sue riflessioni, ma sotto traccia lavora per eliminare il suo tono serafico e garantire, piuttosto, allo spettatore una prospettiva del tutto cupa e ineluttabile, fatta di un’aura mortifera che si respira quasi in ogni inquadratura.
Paul, di Denis Côté
Denis Côté è un regista la cui filmografia ha spesso avuto a che fare con tematiche come l’isolamento, spesso declinato in storie queer. Paul, documentario dedicato alla singolare figura di CleaningSimpPaul, content creator canadese, segue questa tendenza. Protagonista del film è infatti un ragazzo di 30 anni che, dopo un decennio di depressione e di ansia sociale, sta lentamente ricostruendo la propria vita grazie a una strana attività: pulire, gratuitamente, case di mistress e condividere la sua attività sui social. Il documentario di Côté si presenta con una forte impostazione character-driven - specificata sin dal titolo - e, come molti lavori di questo genere, cerca di guardare il suo protagonista con uno sguardo che prescinda dalla maschera con la quale si presenta alla società. La macchina da presa ora si colloca estremamente a ridosso di Paul, ora lo chiude dentro gli spazi con profondi campi totali, ora indaga il lavoro di vera e propria regia che il protagonista compie per i propri video, ora lo immortala nelle sue relazioni con le mistress a cui pulisce casa e da cui si fa sottomettere. Emerge quindi uno sguardo a 360 gradi sul soggetto, uno sguardo empatico, che sembra assecondare le insicurezze di Paul e le sue sicurezze, che lo accompagna dolcemente nelle sue attività e coglie dei grandi momenti di umanità in un mondo, quello del BDSM, che viene spesso raccontato con un certo gusto per l’exploitation. Lo sguardo di Côté coglie Paul nel suo sviluppo, nel suo essere un’identità ancora in definizione. Il film si apre con un campo totale invernale che isola Paul dentro un ambiente e si chiude con un’altro campo totale, primaverile, che libera il protagonista nello spazio. Simbolo di un’identità che sta uscendo dall’"inverno" dell'isolamento per calarsi in una primavera fatta di possibilità.
The Best Mother in the World, di Anna Muylaert
Film dalla messa in scena convincente e ben interpretato, The Best Mother in the World si concentra sulle vicende di Gal (Shirley Cruz), una madre che per mestiere raccoglie i rifiuti nella città di San Paolo, che scappa assieme ai figli da un compagno violento. Dopo un incipit folgorante, stretto sul volto della sua protagonista, il film di Anna Muylaert segue una traiettoria piuttosto classica, episodica, dove prendono luogo due opposti tipi di relazioni: quella di Gal con i figli, impregnata di un amore fatto di azioni semplici e disimpegnate e quella della protagonista con il compagno Leandro (Seu Jorge). Una dinamica tossica ritratta dalla regista con una complessità che in alcune scene lascia stupiti. Nonostante alcune ottime intuizioni, però, il film si apre un po’ troppo a spiragli di retorica. La sensazione è che alcuni passaggi e dialoghi troppo espliciti e artificiosi azzoppino un’opera che, nella sua struttura episodica, vede come unico collante la grande prova della sua attrice protagonista. Shirley Cruz è infatti estremamente abile a farsi carico dei diversi registri del racconto e, grazie a un grande lavoro sulla presenza fisica e sulle azioni sublimate, riesce a dare corpo a un personaggio che si staglia, con la sua tridimensionalità, nella generale piattezza a cui prende parte.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Cecilia Parini, Arturo Garavaglia e Lorenzo Sartor
NC-275
15.02.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 75ª edizione del Festival di Berlino. Per questo primo appuntamento ci concentreremo sui primi lungometraggi presentati nelle varie sezioni del festival, tra cui Das Licht di Tom Tykwer, opera che ha aperto il festival con protagonista Lars Eidinger, e No Beast. So Fierce di Qurbani, adattamento moderno del Riccardo III di Shakespeare, entrambi presentati fuori concorso. Passeremo poi alla Competizione ufficiale dove vi racconteremo di Living the Land di Huo Meng, opera che esplora i cambiamenti socioeconomici in un paesino rurale della Cina degli anni ‘90. Ed infine chiuderemo con alcuni titoli dalla sezione Panorama, Forum e Generatiom, con Peter Hujar’s Day, la nuova opera di Ira Sachs, Ato Noturno, film a sfondo erotico del duo Marcio Reolon e Filipe Matzembacherz, il documentario Paul di Denis Côté, Home Sweet Home di Frelle Petersen e The Nature of Invisible Things di Rafaela Camelo.
Das Licht, di Tom Tykwer
Ad aprire la settantacinquesima edizione di questa Berlinale è stato Das Licht, nuovo lungometraggio di Tom Tykwer. Al cento della storia, dalle forti connotazioni autobiografiche (come confermato dall'attore protagonista Lars Eidinger), vi è una tipica famiglia disfunzionale tedesca formata da Tim (Lars Eidinger) e Milena (Nicolette Krebitz), marito e moglie il cui astio reciproco e mancanza di comunicazione hanno danneggiato più del dovuto non solo la loro relazione, ma anche quella con i figli Jon, ragazzo fissato con la VR che fatica a socializzare al di fuori del mondo virtuale, e Frieda, teenager ribelle. Le quattro personalità, tanto distinte quanto distaccate, fungono da archetipo per mostrare la quotidianità caotica e anomala berlinese. La loro vita presto inizierà a mutare dopo l'assunzione di Farrah, rifugiata siriana dal passato nascosto, come donna delle pulizie. L’aurea di mistero dietro la donna è risaltata ancor di più dall’utilizzo di una peculiare forma di terapia che, tramite una tecnologia dotata di luci straboscopiche in grado di inibire la secerbazione di alcune sostanze all’interno del nostro encefalo, riescono a connettere la persona con il suo io più interiore. Nonostante l’ambizione massimalista di Tykwer, il film fatica a decollare e crolla man mano che ci si avvicina all’ epilogo. Il montaggio dinamico e fluido di Run Lola Run (1998) che aveva fatto conoscere il cineasta tedesco, risulta laconico in Das Licht, soprattutto nella prima parte dell’opera dove il regista cerca di seguire le diverse linee narrative dei quattro protagonisti, un approccio corale confusionario che invece di trasportare lo spettatore in queste dinamiche, lo estrania completamente sin da subito. L’estro creativo di Tykwer risulta inutilmente borioso, tra cui risaltano diversi stacchi musicali e un uso stucchevole e banale di Bohemian Rhapsody dei Queen per rafforzare il concetto di “escape from reality”. Il tutto contornato da un tono grottesco che mostra di più il colossale fallimento di Tykwer. Basta pensare ad una delle scene cardine dell’opera, dove madre e figlia esprimono la rabbia repressa accumulata da anni, una scena macchiettistica che non aggiunge nulla alle dinamiche della storia, il che è un vero peccato visto che l’anno scorso Matthias Glasner era riuscito in un’operazione simile con Sterben (2024), altro dramma tedesco con al centro una familia disfunzionale. È difficile trovare delle note positive all’interno di Das Licht; si potrebbe risaltare il lavoro di Eidinger, ma visto il grande talento dell’attore tedesco si noterà come questa, anche se buona, risulta lontana dalle sue migliori performance. Il rapporto pasoliniano, alla Teorema (1968), tra Farrah e il nucleo familiare ad un primo impatto affascina, ma appena si capisce l’intento del cineasta, si intuisce l’occasione sprecata. La durata eccessiva che si avvicina alle tre ore e la pretenziosità stilistica e narrativa di Tykwer rendono Das Licht una delle peggiori aperture della Berlinale degli ultimi anni.
Ato Noturno, di Marcio Reolon e Filipe Matzembacher
Marcio Reolon e Filipe Matzembacher sono due registi che hanno cominciato a lavorare insieme dal 2012, quando con i loro due corti, Um Diálogo de Ballet (2012) e Quarto Vazio (2013), esordirono nel cinema brasiliano. Il loro è un cinema legato indissolubilmente all’ambiente della Berlinale, ed è proprio in questo contesto che avviene il loro debutto nel lungometraggio, con il film Beira-Mar (2015), presentato nella sezione Forum e incentrato sulla scoperta intima da parte di due amici alle prese con una relazione turbolenta. Dopo aver vinto il Teddy Award e il CICAE Art Cinema Award con il loro successivo lavoro, Tinta Bruta (2018), quest’anno ritornano alla manifestazione tedesca con Ato Noturno (2025), presente nella sezione Panorama. Ato Noturno è un'opera che pesca a piene mani dalla tradizione del thriller erotico, presentando anche una netta sfumatura socio-politica e artistica, dove il dramma urbano che coinvolge attivamente i due protagonisti del film, Gabriel Faryas e Cirillo Luna, si trasforma, nel corso della narrazione, in un intrigo inevitabilmente figlio del cinema americano di genere degli anni ‘80/’90. Sempre da quella tendenza, Reolon e Matzembacher recuperano inevitabilmente il legame che si crea tra la sessualità (qui assolutamente esplicita ma espressa in modo estremamente elegante, con fuori campo e close-up che si susseguono molto spesso senza soluzione di continuità) e il potere, politico e identitario. I due registi riescono a ravvivare la tensione mediante brillanti espedienti stilistici, ovvero zoom improvvisi per innalzare il tasso adrenalinico, giochi di luce molto particolari e interessanti negli interni e slow-motion (di cui uno memorabile nell’incipit) che rende il dramma ancora più coriaceo e dove l’apparato legato all’immagine porta, inevitabilmente, ad un corto circuito tra immagine pubblica e privata. La differenza tra queste due dimensioni risulta radicalmente annullata, addirittura ribaltata nel momento in cui il destino dei protagonisti si mescola, e la parte recitata (e quindi finzionale) si fonde con il reale e ne prende il suo posto. Ato Noturno è un film che racconta, principalmente, una ribellione nei confronti dei ruoli predeterminati dalla società, in cui i personaggi si sentono oppressi e "incastonati" fino ad evidenziare la loro vera natura animalesca e predominante. Ruoli che vengono sabotati attraverso l’utilizzo della relazione sessuale, in un lungometraggio che inevitabilmente richiama alla mente nomi tutelari quale quello di Bruce LaBruce, sia per il ricorso alla materia LGBTQ+, sia per la voglia di spazzare via le gabbie conformiste del racconto. Un racconto che, però, si dilunga troppo, e che nella parte centrale gira a vuoto, salvo poi riprendersi definitivamente nei venticinque minuti finali.
Home Sweet Home, di Frelle Petersen
Dopo aver presentato per anni i propri film ai festival di San Sebastián e Tokyo, il regista danese René Frelle Petersen arriva a Berlino con la sua quarta opera, con cui prosegue il suo percorso di impegno sociale nei confronti delle categorie più svantaggiate. Il cinema di questo autore indipendente ha sempre trattato temi come la disabilità e l’impegno delle persone che aiutano i soggetti più a rischio, e, proprio nella sua ultima pellicola, Petersen amplia ulteriormente questo discorso, raccontando la storia di Sofie (Jette Søndergaard), un’infermiera che decide di diventare una badante a domicilio affrontando, contemporaneamente, tutte le difficoltà dovute al crescere da sola una figlia. Il regista non crea alcuna progressione nel susseguirsi delle giornate della protagonista, ma sceglie invece di insistere sulla ripetizione, rendendo centrali i corpi degli anziani, la lentezza di ogni movimento, la ridondanza delle procedure che Sofie deve eseguire sempre nello stesso modo. Per evitare di cadere nella facile retorica della vecchiaia vista come una fase della vita degradante, Petersen sceglie di mantenere uno sguardo oggettivo, scevro di ogni tentativo di commozione o pietismo. I pazienti non vengono mai rappresentati esclusivamente come tali, ma il cineasta dona ad ognuno di essi lo spazio per emergere come esseri umani sfaccettati, la cui dignità non viene mai svilita. Laddove i pazienti vengono caratterizzati attraverso un'accettazione del lento avvicinarsi della fine, il personaggio di Sofie si fonda invece sul concetto di resistenza, accumulando un peso fisico ed emotivo dovuto al suo inevitabile affezionarsi alle persone di cui dovrebbe solo occuparsi. L’opera insiste infatti sui parallelismi tra gli sforzi della protagonista come badante, come madre e come insegnante, mostrando la sofferenza di una figura sociale che al cinema viene sempre poco valorizzata. L'attrice principale regge così sulle proprie spalle il peso di un film che parla della morte come di un evento uguale a tutti gli altri, che non ricerca il sensazionalismo, ma tenta di aderire quanto più possibile alla realtà dei fatti. L’analisi fredda e distaccata di questa problematica sociale alla lunga può sembrare fin troppo dilatata e non sempre la regia di Petersen riesce a mantenere il peso del tema, forse per paura dell’autore stesso di mancare di rispetto al contenuto trattato, laddove invece lo sguardo finale della protagonista commuove e rimane impresso ben oltre i titoli di coda.
Peter Hujar’s Day, di Ira Sachs
Nel 1974, l’autrice Linda Rosenkratz intraprese un progetto letterario nel quale volle indagare la quotidianità di alcuni degli artisti della scena newyorkese degli anni ‘70. Il progetto naufragò in breve tempo poiché la maggior parte delle registrazioni furono perdute, ma qualche anno fa, in un archivio del fotografo Peter Hujar, fu ritrovatauna registrazione risalente al 18 dicembre, giorno dove Rosenkratz intervistò l’amico. La registrazione fu poi trascritta, e qualche anno fa Ira Sachs decise di adattare cinematografico il manoscritto. Nel corso di questa conversazione, Peter (interpretato superbamente da Ben Whishaw) inizia a dare una panoramica intrigante sul circolo culturale di quell’epoca, composto da nomi come William Burroughs e Allen Ginsberg, dal quale si evince anche una personalità piuttosto oscurata dall’intera scena artistica che gli stava attorno, soprattutto dal punto di vista economico, come si evince da un breve estratto nel quale il fotografo spiegava come spesso i suoi lavori venivano “rubati” e non retribuiti. Quello che segue è un film raffinato ed estremamente emotivo per gli standard di Ira Sachs. Non solo le due interpretazioni centrali di Whishaw e Rebecca Hall (interprete di Rosenkratz) riescono a incapsulare le difficoltà quotidiane di questo mondo e quel senso di cameratismo, ma la stessa mise en scene del cineasta mostra una ricercatezza stilistica caratterizzata da continue ellissi all’interno della giornata a cui seguono cambi di location nell’abitazione che rispecchiano il continuo switch di tono ed argomenti. Introspettivo e delicato, Peter Hujar’s Day ha superato di gran lunga le nostre aspettative e aggiunge un altro capitolo interessante nel sodalizio Whishaw/Sachs.
The Good Sister, di Sarah Miro Fisher
“Sorella io ti credo” è uno degli slogan più sentiti da vari movimenti femministi davanti agli episodi di violenza sessuale, ma cosa succede quando a violentare la “sorella” a cui credere è tuo fratello? Sarah Miro Fischer firma il suo primo lungometraggio, The Good sister, presentato nella categoria Panorama, dove il tema della violenza di genere non tocca la vittima in prima persona, ma vuole analizzare il punto di vista di una delle persone più vicine al carnefice. Rose (Marie Bluching), dopo una rottura burrascosa con la sua ex, si trasferisce a casa di suo fratello Sami (Anton Weil), al quale è molto legata. Vivendo con lui, però, Rose non sa che diventerà inconsapevolmente la testimone chiave di una violenza sessuale compiuta proprio da suo fratello ai danni di una ragazza. Miro Fischer tratteggia perfettamente la psicologia di Rose e i suoi vari stati d’animo davanti alla notizia che incrinerà non solo la sua quiete, ma anche la fiducia nei confronti di suo fratello Sami. La regista, infatti, mostra come prima Rose tenti di difendere il fratello e a sostenere con lui che, forse, la ragazza si è solo confusa e ci deve essere stato un malinteso, ma più il film va avanti e maggiore diventa la consapevolezza che la vittima non è colui che le sta accanto. Sarah Miro Fischer, sfila a Berlino con un film dalla forte tematica e un eccellente caratterizzazione dei personaggi. The good sister, nonostante si un buon film che fa riflettere e che presenta una protagonista che attraverso la sua semplicità permette allo spettatore di immedesimarsi, pecca però di una certa inesperienza e immaturità filmica da parte della regista. Le sequenze sono per la maggior parte accademiche e non aggiungono nulla di più al lungometraggio. Inoltre, vi sono delle sequenze al suo interno che vorrebbero nascondere dei significati profondi, ma che celano solo una grande confusione.
The Nature of Invisible Things, di Rafaela Camelo
Fin dal titolo, la regista brasiliana Rafaela Camelo esplicita l’intento artistico della propria opera prima, ossia cercare di definire la forma di un oggetto invisibile, tentare di esprimere una mancanza attraverso le immagini. I personaggi stessi all’interno di The Nature of Invisible Things vivono di mancanze: l’assenza di un figlio venuto a mancare prematuramente, di un cuore rimosso chirurgicamente per via di una malattia o di un lutto in senso più generale. La mancanza diviene l’elemento che interconnette le vite dei personaggi - i quali trascorrono la propria estate all’interno di un ospedale brasiliano - e in particolar modo segna l’esistenza delle due bambine protagoniste, che affronteranno assieme un percorso di crescita, nonché di scoperta della propria identità, dove il raggiungimento della maturità passa anche attraverso la perdita di una persona cara. Il più grande merito del film è sicuramente il modo in cui l’elemento queer della storia che racconta rimane in sottotraccia, in quanto costituisce solamente uno dei tasselli che compongono la personalità dei personaggi e non abbandona mai la dimensione di scoperta e mistero irrisolvibile tipica del coming of age. La diversità dei protagonisti diventa quindi una forma con cui rappresentare l’innocenza infantile e l’idea che un bambino nasca puro, curioso, lontano da ogni tipo di pregiudizio, pronto molto più dell’adulto ad accogliere favorevolmente ciò che non gli assomiglia. La figura del bambino nell’opera, però, non rimane solo ottimista nei confronti della vita, perché le ragazzine protagoniste si interrogano sulla morte, e sembrano pian piano prepararsi alla sua inevitabilità. I vetri oltre cui i personaggi vedono spegnersi gli anziani che avevano conosciuto diventano così la barriera tra due mondi, permettendo a vita e morte di convivere nella stessa inquadratura. Ma come un sentimento universale, se ripetuto, rischia di diventare un cliché, anche una rappresentazione così diretta ed esplicita della morte rischia, per lo spettatore, di mutare in un ricatto morale.Ciò che nella prima parte del film poteva essere una genuina messa in scena del primo incontro giovanile con il lutto, lascia presto spazio a una continua reiterazione di pietà e autocommiserazione, dove lo spettatore si sente costretto a commuoversi perché assiste a una serie di eventi tragici che percepisce come tristi per convenzione e non per una reale costruzione narrativa. In tal senso, l’esordio di Rafaela Camelo viene meno al proprio obiettivo di raccontare l’invisibile, perché indugia sui tratti più commoventi e tragici della storia raccontata, non lasciando quindi reale spazio alla suggestione o al non detto. Di The Nature of Invisible Things rimangono però impresse le interpretazioni delle giovani protagoniste e la capacità di definire i loro caratteri con dialoghi che vanno oltre lo stereotipo e che trovano nella sottrazione una qualità che manca al resto dell’opera.
No Beast. So Fierce, di Buran Qurbani
In passato Burhan Qurbani ha già dato prova di saper rileggere con grande personalità capolavori come Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fassbinder. Con No Beast. So Fierce il regista tedesco di origine afgana riadatta la tragedia Enrico III nella contemporaneità raccontando di uno scontro fra clan di origine medio orientale nell'odierna Germania. Qurbani prende di petto la materia shakespeariana, esplicitandone le strutture e le forme, e arrivando fino a dei veri e propri calchi dal testo originario. Riscrive la tragedia in chiave femminile, sorretto da due prove molto convincente di Kenda Hmeidan e di Hiam Abbas, e la mette in scena con uno stile estremamente contemporaneo che passa da suggestioni refniane e atmosfere underground a un'improvvisa astrazione degli elementi scenici e del colore che esalta ancora di più i corpi e le azioni delle attrici. Fra musica techno, cambi di formato, tableaux vivant e un montaggio che gioca a contrarre i tempi tendendo al videoclip per poi dilatarli, No Beast. So Fierce segue diverse direzioni con una inaspettata coerenza interna per tutta la sua durata. Strabordante, ma non dispersivo, esplicito e grottesco ma mai volgare, il film di Qurbani scava nella radice tragica da "gangster movie" che si ritrova nel testo Shakespeariano e offre allo spettatore un'esperienza cinematografica intensa e coinvolgente. Un peccato che un'opera del genere, che avrebbe avuto tutte le carte in regola per competere per l'Orso d'Oro, sia stata presentata fuori concorso.
The Long Road to the Director’s Chair, di Vibeke Løkkeberg
Era il 1973, c’era stato il ’68, e oltre agli studenti, anche le donne lottavano per cambiare la società e scardinare il patriarcato. Sempre in quell’anno le filmmaker Claudia von Alemann e Helke Sandee organizzarrono il "The Interlational Women’s Film Seminar”. Un seminario a cui parteciparono molte donne da tutto il mondo del settore cinematografico, per confrontarsi, capire come poter cambiare la televisione e il cinema e creare nuovi modelli per la società maschilista e patriarcale. A questo incontro partecipò una giovane Vibeke Løkkeberg, che decise di filmare tutto l'evento e intervistare le varie donne che vi parteciparono. Purtroppo Løkkeberg perse il girato e lo ritrovò solo 50 anni dopo. Montato e presentato nella sezione Forum Special a Berlino, il documentario della regista norvegese mostra come, nonostante tutte le battaglie e i (pochi) passi in avanti fatto nel tempo, ci ritroviamo sempre a combattere per le stesse cose: una rappresentazione migliore del femminile nel cinema (e nella società). Come in Comizi d’Amore (Pier Paolo Pasolini, 1964) le protagoniste del film sono le voci delle donne, che queste fossero in sala, alla conferenza o anche solo per strada. Tutte a chiedere un maggiore coinvolgimento nel settore cinematografico o anche solo di riuscire a raccontare con il cinema temi importanti come l’aborto o la violenza di genere. Il documentario di Løkkeberg risulta un prodotto così attuale che sembra essere girato ai nostri giorni, un aspetto che, purtroppo, lascia l’amaro in bocca e fa pensare a quanti passi ci siano ancora da fare.
Living the Land, di Hugo Meng
Huo Meng è uno degli autori più interessanti che la Mainland cinese ha sfornato negli ultimi anni. Il suo cinema è molto legato ad una tradizione che coinvolge, naturalmente, il confronto tra più generazioni. La sua carriera, però, ha subito una svolta quando, nel 2006, ha conseguito ufficialmente un master in regia cinematografica, dopo essersi laureato in legge ed essere diventato ufficialmente avvocato nel 2002. Dopo aver conseguito il titolo, ha realizzato il suo primo cortometraggio, dal titolo Hongguang’s Holidays (2018), che ha ricevuto il premio come Best Narrative Short Award al Beijing College Student Film Festival. Nel 2018 ha poi esordito ufficialmente al Festival di Berlino, nella sezione On Transmission 2020, con il suo primo lungometraggio, dal titolo Guo Zhao Guan (2018). Proprio quest’ultimo film gli ha aperto le porte per il Concorso della Berlinale, dov’è tornato ufficialmente quest’anno con il suo nuovo film, dal titolo Sheng xi zhi di (2025), noto come Living The Land. Un titolo che già evoca e porta con sé una materia ben definita e ben nota al cinema dell’Est asiatico, ovvero quella legata alla tradizione, al proprio territorio e alla sua evoluzione, come anche allo scontro generazionale e al legame indissolubile tra vita e morte. Huo Meng è però molto bravo a non ricadere nella classica trappola che incombe quando i nomi tutelari sono i più grandi del cinema asiatico. Su tutti, si stagliano naturalmente le influenze di Yasujirō Ozu, soprattutto nell'approccio che il regista cinese adopera nella direzione dei più piccoli (con alcuni piani sequenza che lasciano spazio e libera espressione al protagonista Chuang), ma a sorprendere è il richiamo ad un altro nome, legato alla tradizione della New Wave taiwanese, ovvero Hou Hsiao-Hsien. Ad emergere è il rapporto tra passato e presente di un Paese, il contatto continuo tra la Storia e le storie, così come viene sottolineato il legame tra la tradizione, che resta viva nella memoria, e il nuovo che avanza. Colpisce però il tono con cui Huo Meng disattende le aspettative dello spettatore, portandolo sui binari di un ritratto corale che sfrutta un linguaggio molto fresco e ironico, dove il legame tra vita e morte è stigmatizzato in modo del tutto parossistico e anche canzonatorio, nei confronti di una Terra che si riscopre inaccessibile anche per i suoi stessi abitanti (come nella scena nebbiosa che coinvolge il protagonista), in cui sembra impossibile anche provare l’ebbrezza della libertà di sposare chi si vuole e dove il tempo che passa, più che essere un flusso inesorabile, diventa una minaccia per le giovani e per le vecchie generazioni. Living The Land richiama inevitabilmente alla mente il capolavoro di Hou, The Time To Live And The Time To Die (1985), per tutte le sue riflessioni, ma sotto traccia lavora per eliminare il suo tono serafico e garantire, piuttosto, allo spettatore una prospettiva del tutto cupa e ineluttabile, fatta di un’aura mortifera che si respira quasi in ogni inquadratura.
Paul, di Denis Côté
Denis Côté è un regista la cui filmografia ha spesso avuto a che fare con tematiche come l’isolamento, spesso declinato in storie queer. Paul, documentario dedicato alla singolare figura di CleaningSimpPaul, content creator canadese, segue questa tendenza. Protagonista del film è infatti un ragazzo di 30 anni che, dopo un decennio di depressione e di ansia sociale, sta lentamente ricostruendo la propria vita grazie a una strana attività: pulire, gratuitamente, case di mistress e condividere la sua attività sui social. Il documentario di Côté si presenta con una forte impostazione character-driven - specificata sin dal titolo - e, come molti lavori di questo genere, cerca di guardare il suo protagonista con uno sguardo che prescinda dalla maschera con la quale si presenta alla società. La macchina da presa ora si colloca estremamente a ridosso di Paul, ora lo chiude dentro gli spazi con profondi campi totali, ora indaga il lavoro di vera e propria regia che il protagonista compie per i propri video, ora lo immortala nelle sue relazioni con le mistress a cui pulisce casa e da cui si fa sottomettere. Emerge quindi uno sguardo a 360 gradi sul soggetto, uno sguardo empatico, che sembra assecondare le insicurezze di Paul e le sue sicurezze, che lo accompagna dolcemente nelle sue attività e coglie dei grandi momenti di umanità in un mondo, quello del BDSM, che viene spesso raccontato con un certo gusto per l’exploitation. Lo sguardo di Côté coglie Paul nel suo sviluppo, nel suo essere un’identità ancora in definizione. Il film si apre con un campo totale invernale che isola Paul dentro un ambiente e si chiude con un’altro campo totale, primaverile, che libera il protagonista nello spazio. Simbolo di un’identità che sta uscendo dall’"inverno" dell'isolamento per calarsi in una primavera fatta di possibilità.
The Best Mother in the World, di Anna Muylaert
Film dalla messa in scena convincente e ben interpretato, The Best Mother in the World si concentra sulle vicende di Gal (Shirley Cruz), una madre che per mestiere raccoglie i rifiuti nella città di San Paolo, che scappa assieme ai figli da un compagno violento. Dopo un incipit folgorante, stretto sul volto della sua protagonista, il film di Anna Muylaert segue una traiettoria piuttosto classica, episodica, dove prendono luogo due opposti tipi di relazioni: quella di Gal con i figli, impregnata di un amore fatto di azioni semplici e disimpegnate e quella della protagonista con il compagno Leandro (Seu Jorge). Una dinamica tossica ritratta dalla regista con una complessità che in alcune scene lascia stupiti. Nonostante alcune ottime intuizioni, però, il film si apre un po’ troppo a spiragli di retorica. La sensazione è che alcuni passaggi e dialoghi troppo espliciti e artificiosi azzoppino un’opera che, nella sua struttura episodica, vede come unico collante la grande prova della sua attrice protagonista. Shirley Cruz è infatti estremamente abile a farsi carico dei diversi registri del racconto e, grazie a un grande lavoro sulla presenza fisica e sulle azioni sublimate, riesce a dare corpo a un personaggio che si staglia, con la sua tridimensionalità, nella generale piattezza a cui prende parte.