di Cosimo Maj
NC-30
09.10.2020
Dal 1991 al 1995, per quattro edizioni in totale, sulle reti Mediaset andò in onda Non è la RAI, programma varietà, diventato culto per quella generazione. La trasmissione è famosa per aver lanciato le carriere di alcune delle giovani protagoniste che animavano lo show, tra cui Ambra Angiolini, conduttrice della terza e quarta stagione. Il cast del programma era caratterizzato dalla presenza di un esercito di ragazzine dai 13 ai 15 anni in costume da bagno, o comunque in abiti succinti. La regia indugiava sulla bellezza dei loro corpi. Almeno fino alla seconda stagione, viste le polemiche che scatenò il programma, inizialmente da parte di Famiglia Cristiana, poi delle femministe. Qualche mese fa il settimanale di cronaca rosa Gente, diretto da Monica Mosca, ha pubblicato, come copertina del numero di agosto, una foto di un servizio dedicato a Francesco Totti e la sua famiglia in vacanza al mare. La foto ritrae Totti insieme alla figlia tredicenne Chanel, a cui hanno pixelato il volto per la legge sui minori ma con il fondoschiena ben in vista e lo strillo che accompagna: “Chanel è uguale alla mamma Ilary”. Ilary Blasi ha denunciato l’accaduto sui social, attaccando la direttrice del periodico, rea di “non essersi curata del problema sempre più evidente della sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti”. Sulla pagina ufficiale di Blob su Facebook ironizzano sull’accaduto con un post dal titolo “In principio fu Non è la RAI”, individuando in quella trasmissione il grande peccato originale. In quel caso la presenza di queste giovanissime protagoniste suggeriva un sottotesto erotico forte, causa delle polemiche che avvolsero il programma. Ciò a cui si riferisce invece Ilary Blasi è un problema, a quanto pare, fortemente attuale. Il problema “sempre più evidente” della sessualizzazione del corpo delle adolescenti, prima nella televisione come nella cronaca rosa, oggi sui social.
Il 9 Settembre scorso Netflix pubblica sulla sua piattaforma il film Cuties, (diretto da Maȉmouna Doucouré) tradotto brillantemente in Italiano in Donne ai primi passi, dall’originale Mignonnes. Cos’era successo poche settimane prima? Netflix per promuovere il film rilasciava una locandina in cui le giovani (undicenni) protagoniste nel film erano ritratte in pose provocanti. Scatta l’indignazione. L’associazione americana conservatrice Parental Television Council ne chiede la rimozione. Il film viene bollato, ancora prima di essere visto, come un film “per pedofili”. Parte una petizione che promuove la cancellazione dell’abbonamento a Netflix in segno di protesta contro la presenza del film. La petizione raccoglie 600.000 mila adesioni, Netflix perde 9 miliardi in borsa.
Lo scabroso sguardo di natura voyerustica che la macchina da presa volge ai corpi delle ragazzine appare scandaloso, e forse lo è, ma se analizziamo il perché siano state fatte delle scelte di linguaggio così specifiche possiamo comprendere come queste siano funzionali al racconto. È un film che, al di là dei pregi e dei difetti, è ammirevole nell’accostare gli archetipi del genere teen ad una messa in scena realistica, anche cruda. Un dato di fatto è sicuramente la totale sincronia tra la protagonista e la regia. Il film è il percorso di formazione della ragazza: tutto quello che lo spettatore vede è filtrato attraverso il suo sguardo spaesato, confuso. La ragazzina libera tutte le sue pulsioni ormonali fino all’estremo per poi fare marcia indietro, svestendosi degli abiti succinti che assume a metà del film per rivestire i panni della bambina che era all’inizio della sua storia. La circolarità del suo percorso conferisce al film un finale sensato. Qualcosa è accaduto. La struttura in tre atti è stata rispettata. La sua natura “scandalosa” risiede però in quelle poche scene incriminate, in cui, effettivamente, ad essere in primo piano è il culo di una bambina di undici anni, che twerka. Si deve dare una giustificazione? No e, ne sono state comunque date, la regista ha fornito più di una motivazione per quelle scene, ha specificato come lei e le persone che attaccano il film siano dallo stesso lato della barricata. La strategia di difesa assunta dalla regista è quantomeno prevedibile, alla luce di quello che è appunto l’approccio della regia al tema trattato. Tutta la parte di film prima della scoperta del twerk da parte della piccola Amy (plot point per la protagonista) è pervasa di un grande tatto verso l’emotività della ragazzina, stravolta dalla visione della sua vicina di casa, con i vestiti stretti e la sicurezza rispetto al proprio corpo. La morbosa attenzione della regia per i corpi delle ragazzine è in realtà quella di Amy. Il tutto sembra molto leggero, molto tenero, quasi a ricordare un bel film francese di un po’ di anni fa, Stella. Fino all’incriminata scoperta del twerk. Lì Amy diventa demiurga, catalizzatrice delle attenzioni delle sue coetanee, come se avesse scoperto il fuoco. E si arriva alla scena forse più controversa del film. Quella in cui le ragazzine, ormai pronte ad entrare nell’olimpo del mondo della danza, twerkano davanti alla macchina da presa, in faccia allo spettatore. Quasi gli stessero offrendo uno spettacolo privato. Il tutto ha una forte aura da videoclip, come nell’ultimo film di Pablo Larraín, Ema. Le ragazze che twerkano sono un’immagine che comunica qualcosa, un disagio, una disturbante asincronia tra la carica erotica del twerking e quei corpi ancora acerbi. Il corpo stesso della ragazzina, il modo in cui eroticamente si muove, grida denuncia, scalpore. La macchina da presa, inquadrandolo in maniera così diretta e aggressiva, sembra quasi emettere un grido di aiuto. L’approccio aggressivo alla scena tuttavia non intacca la classicità del racconto. Bisognerebbe fermarsi un attimo a riflettere sulla normalità del film, sulla sua convenzionalità narrativa. È un buon film, sarà il tempo a decidere se tutto questa eco mediatica lo collocherà nell’albo dei grandi “scandali” della storia del cinema, al pari di Ultimo tango a Parigi o Lolita, anche se qualche dubbio viene. Per adesso si configura pacificamente nei ranghi di un umile film di denuncia, umile come il suo finale, che qualcuno ha persino definito “democristiano”.
di Cosimo Maj
NC-30
09.10.2020
Dal 1991 al 1995, per quattro edizioni in totale, sulle reti Mediaset andò in onda Non è la RAI, programma varietà, diventato culto per quella generazione. La trasmissione è famosa per aver lanciato le carriere di alcune delle giovani protagoniste che animavano lo show, tra cui Ambra Angiolini, conduttrice della terza e quarta stagione. Il cast del programma era caratterizzato dalla presenza di un esercito di ragazzine dai 13 ai 15 anni in costume da bagno, o comunque in abiti succinti. La regia indugiava sulla bellezza dei loro corpi. Almeno fino alla seconda stagione, viste le polemiche che scatenò il programma, inizialmente da parte di Famiglia Cristiana, poi delle femministe. Qualche mese fa il settimanale di cronaca rosa Gente, diretto da Monica Mosca, ha pubblicato, come copertina del numero di agosto, una foto di un servizio dedicato a Francesco Totti e la sua famiglia in vacanza al mare. La foto ritrae Totti insieme alla figlia tredicenne Chanel, a cui hanno pixelato il volto per la legge sui minori ma con il fondoschiena ben in vista e lo strillo che accompagna: “Chanel è uguale alla mamma Ilary”. Ilary Blasi ha denunciato l’accaduto sui social, attaccando la direttrice del periodico, rea di “non essersi curata del problema sempre più evidente della sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti”. Sulla pagina ufficiale di Blob su Facebook ironizzano sull’accaduto con un post dal titolo “In principio fu Non è la RAI”, individuando in quella trasmissione il grande peccato originale. In quel caso la presenza di queste giovanissime protagoniste suggeriva un sottotesto erotico forte, causa delle polemiche che avvolsero il programma. Ciò a cui si riferisce invece Ilary Blasi è un problema, a quanto pare, fortemente attuale. Il problema “sempre più evidente” della sessualizzazione del corpo delle adolescenti, prima nella televisione come nella cronaca rosa, oggi sui social.
Il 9 Settembre scorso Netflix pubblica sulla sua piattaforma il film Cuties, (diretto da Maȉmouna Doucouré) tradotto brillantemente in Italiano in Donne ai primi passi, dall’originale Mignonnes. Cos’era successo poche settimane prima? Netflix per promuovere il film rilasciava una locandina in cui le giovani (undicenni) protagoniste nel film erano ritratte in pose provocanti. Scatta l’indignazione. L’associazione americana conservatrice Parental Television Council ne chiede la rimozione. Il film viene bollato, ancora prima di essere visto, come un film “per pedofili”. Parte una petizione che promuove la cancellazione dell’abbonamento a Netflix in segno di protesta contro la presenza del film. La petizione raccoglie 600.000 mila adesioni, Netflix perde 9 miliardi in borsa.
Lo scabroso sguardo di natura voyerustica che la macchina da presa volge ai corpi delle ragazzine appare scandaloso, e forse lo è, ma se analizziamo il perché siano state fatte delle scelte di linguaggio così specifiche possiamo comprendere come queste siano funzionali al racconto. È un film che, al di là dei pregi e dei difetti, è ammirevole nell’accostare gli archetipi del genere teen ad una messa in scena realistica, anche cruda. Un dato di fatto è sicuramente la totale sincronia tra la protagonista e la regia. Il film è il percorso di formazione della ragazza: tutto quello che lo spettatore vede è filtrato attraverso il suo sguardo spaesato, confuso. La ragazzina libera tutte le sue pulsioni ormonali fino all’estremo per poi fare marcia indietro, svestendosi degli abiti succinti che assume a metà del film per rivestire i panni della bambina che era all’inizio della sua storia. La circolarità del suo percorso conferisce al film un finale sensato. Qualcosa è accaduto. La struttura in tre atti è stata rispettata. La sua natura “scandalosa” risiede però in quelle poche scene incriminate, in cui, effettivamente, ad essere in primo piano è il culo di una bambina di undici anni, che twerka. Si deve dare una giustificazione? No e, ne sono state comunque date, la regista ha fornito più di una motivazione per quelle scene, ha specificato come lei e le persone che attaccano il film siano dallo stesso lato della barricata. La strategia di difesa assunta dalla regista è quantomeno prevedibile, alla luce di quello che è appunto l’approccio della regia al tema trattato. Tutta la parte di film prima della scoperta del twerk da parte della piccola Amy (plot point per la protagonista) è pervasa di un grande tatto verso l’emotività della ragazzina, stravolta dalla visione della sua vicina di casa, con i vestiti stretti e la sicurezza rispetto al proprio corpo. La morbosa attenzione della regia per i corpi delle ragazzine è in realtà quella di Amy. Il tutto sembra molto leggero, molto tenero, quasi a ricordare un bel film francese di un po’ di anni fa, Stella. Fino all’incriminata scoperta del twerk. Lì Amy diventa demiurga, catalizzatrice delle attenzioni delle sue coetanee, come se avesse scoperto il fuoco. E si arriva alla scena forse più controversa del film. Quella in cui le ragazzine, ormai pronte ad entrare nell’olimpo del mondo della danza, twerkano davanti alla macchina da presa, in faccia allo spettatore. Quasi gli stessero offrendo uno spettacolo privato. Il tutto ha una forte aura da videoclip, come nell’ultimo film di Pablo Larraín, Ema. Le ragazze che twerkano sono un’immagine che comunica qualcosa, un disagio, una disturbante asincronia tra la carica erotica del twerking e quei corpi ancora acerbi. Il corpo stesso della ragazzina, il modo in cui eroticamente si muove, grida denuncia, scalpore. La macchina da presa, inquadrandolo in maniera così diretta e aggressiva, sembra quasi emettere un grido di aiuto. L’approccio aggressivo alla scena tuttavia non intacca la classicità del racconto. Bisognerebbe fermarsi un attimo a riflettere sulla normalità del film, sulla sua convenzionalità narrativa. È un buon film, sarà il tempo a decidere se tutto questa eco mediatica lo collocherà nell’albo dei grandi “scandali” della storia del cinema, al pari di Ultimo tango a Parigi o Lolita, anche se qualche dubbio viene. Per adesso si configura pacificamente nei ranghi di un umile film di denuncia, umile come il suo finale, che qualcuno ha persino definito “democristiano”.