NC-29
17.09.2020
Primo festival di massa a svolgersi in presenza, Venezia 2020 aveva tutti i riflettori del mondo cinematografico puntati su di sé. Tra mascherine, distanziamento sociale e prenotazioni online, si è conclusa una delle edizioni più particolari di sempre.
Un’unicità a cui probabilmente avremmo rinunciato volentieri, è vero. Ma è inutile girarci intorno, Venezia ha mandato un segnale all’intero settore della produzione cinematografica e della distribuzione, riportando l’accento sull’importanza della visione in sala come esperienza collettiva e momento di condivisione.
Dubbi ed incertezze iniziali sono stati spazzati via da un’organizzazione attenta e capillare, capace di mettere a proprio agio ogni singolo accreditato. Per molti la prenotazione online del proprio posto in sala dovrebbe essere mantenuta anche per gli anni a venire, così da evitare estenuanti code pre-proiezione, temute da chiunque partecipi al Festival con l’accredito.
Ma veniamo ora al Concorso vero e proprio. Si temeva un’edizione scarsa, costellata di grandi assenze. Quasi completamente escluse pellicole statunitensi e francesi: le prime a causa di stop alle produzioni di maggior rilievo, rimandate al 2021, i secondi solleticati dall’idea di poter rientrare nella prossima selezione di Cannes. Per non parlare del famigerato “bollino” che Thierry Frémaux (direttore artistico del festival di Cannes) ha assegnato ai film selezionati per Cannes 2020, rendendo impossibile quindi il passaggio nei grandi festival autunnali (è solo di qualche tempo fa l’accordo tra Cannes e la Festa del Cinema di Roma). Tutte dinamiche che hanno spinto questa Venezia, da una parte, a concentrarsi sulle produzioni nostrane, ma dall’altra ad allargare i propri confini. Si pensi allo straordinario In Between Dying di Hilal Baydarov, in corsa per il Leone d’Oro, o all’opera seconda di Mona Fastvold, The World To Come, ma anche a The Wife Of a Spy di Kiyoshi Kurosawa: in un’edizione senza Covid, questi titoli sarebbero comunque riusciti a farsi largo tra la selezione del Concorso?
Forse Venezia avrebbe potuto osare ancora di più, spingendosi maggiormente in territori inesplorati, per riattivare quel senso di internazionalità che va sbiadendo di anno in anno. Una selezione comunque interessante quella del Concorso, che ha ripreso vita soprattutto durante gli ultimi giorni del Festival, in cui si sono succeduti il messicano Nuevo Orden di Michel Franco, che si è aggiudicato il il Leone d’Argento per il Gran Premio della Giuria, e Nomadland di Chloé Zhao, con protagonista una magnifica Frances McDormand.
Sulla vittoria di Nomadland non vi erano dubbi. Anche in questa edizione anomala Venezia ricalca il percorso prediletto negli anni precedenti, premiando film facilmente favoriti nella futura stagione degli Oscar. Ma non è questo a lasciare l’amaro in bocca. Il terzo film della regista cinese, naturalizzata statunitense, è forse un passo indietro rispetto al precedente The Rider. Un doloroso ritratto di una donna donna che sceglie la libertà di una vita da nomade. Non una homeless, ma una “houseless”, così si definisce Fern, interpretata magistralmente da Frances McDormand, incapace di considerare la stabilità fisica come un’opzione. La regia della Zhao è delicata, le va riconosciuto il merito di non abusare mai delle corde dell’emotività. Si approccia ai volti dei suoi personaggi nella purezza più totale, conservando in pieno la bellezza e la naturalezza che li rende tali. La drammatizzazione cinematografica ruota solo intorno ai momenti che vedono protagonista Frances McDormand. Lo sguardo della regista è sinceramente innamorato dei paesaggi e dei volti che racconta. Nomadland è un film delicato che si muove sinuosamente, danzando con l’azzeccatissimo accompagnamento della colonna sonora ad opera di Ludovico Einaudi. Scelta quella del Lone d’Oro, non condivisa da molti che contestano a Venezia il fatto di portare avanti quasi esclusivamente film prodotti dalle Major americane (nel caso del film della Zhao, dalla Disney).
Concordi o meno sulla riuscita del film della Zhao, il Leone d’Oro si conferma comunque come la scelta più scontata del Concorso. Il Gran Premio della Giuria, Leone d’Argento, viene invece assegnato al coraggioso e spietato Nuevo Orden, del regista messicano Michel Franco. Feroce distopia che mette in scena il dramma del conflitto sociale tra ricchi e poveri. Il tutto culmina in un colpo di stato che dà origine ad una realtà ancora più angosciante. Un film incalzante, che ha al centro un nichilismo tale da spingere ad un’attenta riflessione. Il film più amato e odiato dell’intera selezione.
Il premio alla migliore sceneggiatura va invece all’ottimo The Disciple, del giovane regista indiano Chaitanya Tamhane. Un film fresco nell’approccio e molto originale nei contenuti, senza tralasciare però un’ottima resa estetica.
A mettere tutti d’accordo sono stati invece i riconoscimenti andati al veterano del cinema russo Andrej Končalovskij con Cari Compagni - Dear Comrades (premio speciale della Giuria), che racconta con ottima capacità visiva e recitativa un’intensa e drammatica storia tra una madre e una figlia, tratta da un episodio dimenticato dell’era di Krusciov, e a Kiyoshi Kurosawa, premiato alla miglior regia per spy No Tsuma (Wife of a Spy).
La Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile è andata alla splendida Vanessa Kirby per l’intenso dramma Pieces of a Woman, dell’ungherese Kornèl Mandruczò. Premio assolutamente meritato, che però sembra ribadire il trionfo del modello angloamericano. Soprattutto in virtù della presenza di un’altra interpretazione assolutamente degna di nota ed invece tagliata fuori dalle premiazioni, ovvero quella di Jasna Durii, nei panni di una madre e moglie dura ma disperata nella pellicola bosniaca Quo Vadis, Aida? della regista Jasmila Zbani.
A lasciare perplessi molti, è stata l’assegnazione della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino. Senza nulla togliere alla sua ormai consolidata carriera attoriale, quella in Padre Nostro, di Claudio Noce, non si configura come una delle migliori performance dell’attore. Un contentino al paese ospitante il Festival? Forse. E infatti, l’esclusione dalla premiazione dei tre film italiani coprodotti Rai non è passata inosservata. Nel giro di una cerimonia di premiazione, si è infatti rotto quello che sembrava un idillio perfetto tra l’organizzazione generale del Festival ed il sistema produttivo italiano. Il comunicato stampa rilasciato dalla Rai per conto dell’amministratore delegato Paolo del Brocco non lascia spazio a dubbi. Ai toni piuttosto espliciti di Del Brocco, che si dice amaramente stupito di come ai tre film coprodotti dalla Rai (nello specifico Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, Notturno di Gianfranco Rosi e Le Sorelle Macaluso di Emma Dante), così diversi e allo stesso modo portatori di messaggi importanti, non sia stato dato alcun riconoscimento, risponde ironicamente via social il direttore Alberto Barbera.
Tra malcontenti e frecciatine, dunque, sembra che a mettere d’accordo davvero tutti siano state le premiazioni della sezione di Orizzonti, presieduta dalla grande regista francese Claire Denis. In particolare il premio a Listen della regista portoghese Ana Rocha de Sousa, dramma sociale sugli immigrati portoghesi nel Regno Unito, e poi il premio al veterano Lav Diaz, già vincitore del Leone d’Oro nel 2016 con The Woman Who Left, premiato invece per la miglior regia al film Genus Pan.
Migliore sceneggiatura nella sezione di Orizzonti va poi a I Predatori, esordio alla regia di Pietro Castellitto. Un’opera prima che si muove coraggiosamente tra i registri del comico-grottesco che ha reso grande buona parte della commedia all’italiana. Supportato da un ottimo cast di attori caratteristi (mai eccessivi, sempre volti a lasciar trasparire un fondo di autentica umanità), il giovane Castellitto non ha paura oltrepassare il limite, cimentandosi seppur in maniera rocambolesca, in una storia corale piuttosto complessa. Un esordio assolutamente interessante che lascia ben sperare rispetto al futuro della nuova generazione di registi italiani.
NC-29
17.09.2020
Primo festival di massa a svolgersi in presenza, Venezia 2020 aveva tutti i riflettori del mondo cinematografico puntati su di sé. Tra mascherine, distanziamento sociale e prenotazioni online, si è conclusa una delle edizioni più particolari di sempre.
Un’unicità a cui probabilmente avremmo rinunciato volentieri, è vero. Ma è inutile girarci intorno, Venezia ha mandato un segnale all’intero settore della produzione cinematografica e della distribuzione, riportando l’accento sull’importanza della visione in sala come esperienza collettiva e momento di condivisione.
Dubbi ed incertezze iniziali sono stati spazzati via da un’organizzazione attenta e capillare, capace di mettere a proprio agio ogni singolo accreditato. Per molti la prenotazione online del proprio posto in sala dovrebbe essere mantenuta anche per gli anni a venire, così da evitare estenuanti code pre-proiezione, temute da chiunque partecipi al Festival con l’accredito.
Ma veniamo ora al Concorso vero e proprio. Si temeva un’edizione scarsa, costellata di grandi assenze. Quasi completamente escluse pellicole statunitensi e francesi: le prime a causa di stop alle produzioni di maggior rilievo, rimandate al 2021, i secondi solleticati dall’idea di poter rientrare nella prossima selezione di Cannes. Per non parlare del famigerato “bollino” che Thierry Frémaux (direttore artistico del festival di Cannes) ha assegnato ai film selezionati per Cannes 2020, rendendo impossibile quindi il passaggio nei grandi festival autunnali (è solo di qualche tempo fa l’accordo tra Cannes e la Festa del Cinema di Roma). Tutte dinamiche che hanno spinto questa Venezia, da una parte, a concentrarsi sulle produzioni nostrane, ma dall’altra ad allargare i propri confini. Si pensi allo straordinario In Between Dying di Hilal Baydarov, in corsa per il Leone d’Oro, o all’opera seconda di Mona Fastvold, The World To Come, ma anche a The Wife Of a Spy di Kiyoshi Kurosawa: in un’edizione senza Covid, questi titoli sarebbero comunque riusciti a farsi largo tra la selezione del Concorso?
Forse Venezia avrebbe potuto osare ancora di più, spingendosi maggiormente in territori inesplorati, per riattivare quel senso di internazionalità che va sbiadendo di anno in anno. Una selezione comunque interessante quella del Concorso, che ha ripreso vita soprattutto durante gli ultimi giorni del Festival, in cui si sono succeduti il messicano Nuevo Orden di Michel Franco, che si è aggiudicato il il Leone d’Argento per il Gran Premio della Giuria, e Nomadland di Chloé Zhao, con protagonista una magnifica Frances McDormand.
Sulla vittoria di Nomadland non vi erano dubbi. Anche in questa edizione anomala Venezia ricalca il percorso prediletto negli anni precedenti, premiando film facilmente favoriti nella futura stagione degli Oscar. Ma non è questo a lasciare l’amaro in bocca. Il terzo film della regista cinese, naturalizzata statunitense, è forse un passo indietro rispetto al precedente The Rider. Un doloroso ritratto di una donna donna che sceglie la libertà di una vita da nomade. Non una homeless, ma una “houseless”, così si definisce Fern, interpretata magistralmente da Frances McDormand, incapace di considerare la stabilità fisica come un’opzione. La regia della Zhao è delicata, le va riconosciuto il merito di non abusare mai delle corde dell’emotività. Si approccia ai volti dei suoi personaggi nella purezza più totale, conservando in pieno la bellezza e la naturalezza che li rende tali. La drammatizzazione cinematografica ruota solo intorno ai momenti che vedono protagonista Frances McDormand. Lo sguardo della regista è sinceramente innamorato dei paesaggi e dei volti che racconta. Nomadland è un film delicato che si muove sinuosamente, danzando con l’azzeccatissimo accompagnamento della colonna sonora ad opera di Ludovico Einaudi. Scelta quella del Lone d’Oro, non condivisa da molti che contestano a Venezia il fatto di portare avanti quasi esclusivamente film prodotti dalle Major americane (nel caso del film della Zhao, dalla Disney).
Concordi o meno sulla riuscita del film della Zhao, il Leone d’Oro si conferma comunque come la scelta più scontata del Concorso. Il Gran Premio della Giuria, Leone d’Argento, viene invece assegnato al coraggioso e spietato Nuevo Orden, del regista messicano Michel Franco. Feroce distopia che mette in scena il dramma del conflitto sociale tra ricchi e poveri. Il tutto culmina in un colpo di stato che dà origine ad una realtà ancora più angosciante. Un film incalzante, che ha al centro un nichilismo tale da spingere ad un’attenta riflessione. Il film più amato e odiato dell’intera selezione.
Il premio alla migliore sceneggiatura va invece all’ottimo The Disciple, del giovane regista indiano Chaitanya Tamhane. Un film fresco nell’approccio e molto originale nei contenuti, senza tralasciare però un’ottima resa estetica.
A mettere tutti d’accordo sono stati invece i riconoscimenti andati al veterano del cinema russo Andrej Končalovskij con Cari Compagni - Dear Comrades (premio speciale della Giuria), che racconta con ottima capacità visiva e recitativa un’intensa e drammatica storia tra una madre e una figlia, tratta da un episodio dimenticato dell’era di Krusciov, e a Kiyoshi Kurosawa, premiato alla miglior regia per spy No Tsuma (Wife of a Spy).
La Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile è andata alla splendida Vanessa Kirby per l’intenso dramma Pieces of a Woman, dell’ungherese Kornèl Mandruczò. Premio assolutamente meritato, che però sembra ribadire il trionfo del modello angloamericano. Soprattutto in virtù della presenza di un’altra interpretazione assolutamente degna di nota ed invece tagliata fuori dalle premiazioni, ovvero quella di Jasna Durii, nei panni di una madre e moglie dura ma disperata nella pellicola bosniaca Quo Vadis, Aida? della regista Jasmila Zbani.
A lasciare perplessi molti, è stata l’assegnazione della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Pierfrancesco Favino. Senza nulla togliere alla sua ormai consolidata carriera attoriale, quella in Padre Nostro, di Claudio Noce, non si configura come una delle migliori performance dell’attore. Un contentino al paese ospitante il Festival? Forse. E infatti, l’esclusione dalla premiazione dei tre film italiani coprodotti Rai non è passata inosservata. Nel giro di una cerimonia di premiazione, si è infatti rotto quello che sembrava un idillio perfetto tra l’organizzazione generale del Festival ed il sistema produttivo italiano. Il comunicato stampa rilasciato dalla Rai per conto dell’amministratore delegato Paolo del Brocco non lascia spazio a dubbi. Ai toni piuttosto espliciti di Del Brocco, che si dice amaramente stupito di come ai tre film coprodotti dalla Rai (nello specifico Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, Notturno di Gianfranco Rosi e Le Sorelle Macaluso di Emma Dante), così diversi e allo stesso modo portatori di messaggi importanti, non sia stato dato alcun riconoscimento, risponde ironicamente via social il direttore Alberto Barbera.
Tra malcontenti e frecciatine, dunque, sembra che a mettere d’accordo davvero tutti siano state le premiazioni della sezione di Orizzonti, presieduta dalla grande regista francese Claire Denis. In particolare il premio a Listen della regista portoghese Ana Rocha de Sousa, dramma sociale sugli immigrati portoghesi nel Regno Unito, e poi il premio al veterano Lav Diaz, già vincitore del Leone d’Oro nel 2016 con The Woman Who Left, premiato invece per la miglior regia al film Genus Pan.
Migliore sceneggiatura nella sezione di Orizzonti va poi a I Predatori, esordio alla regia di Pietro Castellitto. Un’opera prima che si muove coraggiosamente tra i registri del comico-grottesco che ha reso grande buona parte della commedia all’italiana. Supportato da un ottimo cast di attori caratteristi (mai eccessivi, sempre volti a lasciar trasparire un fondo di autentica umanità), il giovane Castellitto non ha paura oltrepassare il limite, cimentandosi seppur in maniera rocambolesca, in una storia corale piuttosto complessa. Un esordio assolutamente interessante che lascia ben sperare rispetto al futuro della nuova generazione di registi italiani.