di Paolo Rissicini
NC-261
20.12.2024
A quattro anni dall’«azione cinematografica» di Omelia Contadina, Alice Rohrwacher e l’artista francese JR si ricongiungono per lavorare, ancora, sulle immagini presenti e passate, per rappresentare un destino - artistico e sociale - diverso da quello che pensiamo di avere di fronte.
Lo spunto, in questo ruolo di connettore tra le arti (e tra i diversi mercati…) che JR si è ritagliato nella propria carriera, dopo l’esperienza cinematografica con l’Agnès Varda di Visages, villages (2017), è lo spettacolo Chiroptera, messo in scena il 12 novembre 2023 sulla facciata del Palais Garnier a Parigi: 153 ballerini, divenuti animali notturni, si sono esibiti all’interno dei contorni (delle gabbie rettangolari a poco più di trenta metri d’altezza) di uno spazio installativo dalla enorme forma di una caverna. Poco meno di un anno dopo, quello spettacolo, parte di un progetto più ampio di JR intitolato Retour à la caverne, si è trasformato nei 21 minuti di Allégorie citadine, cortometraggio da oggi disponibile sul catalogo MUBI.
Ed è tutto esposto, non c’è nulla di celato in questa operazione che, come detto, galleggia tra il formato del corto e l’installazione site specific, seppur in una cornice di supporto pubblicitario, essendo il film finanziato dalla maison Chanel. La volontà di Allégorie citadine è quella di offrirsi ingenuamente alla lettura più semplicistica che si possa fare del cinema come metafora dell’esperienza conoscitiva del mondo. L’allegoria, il riferimento platonico, dall’inizio del settimo libro della Repubblica, è quello della caverna.
Il mito è introdotto sin da subito, dal protagonista: un bambino che si aggira per le strade di Parigi, febbricitante, osserva il cielo per mezzo di un caleidoscopio, frammentando la realtà che non sembra più quella dei master shot iniziali, quei campi lunghi sui tetti, sui monumenti, sulle persone che abitano la capitale (inquadrature che nella loro successione, nella loro convergenza tra ritmo musicale e stacco di montaggio, presentano una loro organicità, dunque una proprietà di immagini cangianti, in un ricordo delle sinfonie audiovisive di inizio Novecento, alla Walter Ruttmann).
È la storia della caverna e del bambino, ci racconta il fanciullo. A trascinarlo via dall’osservazione del mondo (o dalla sua distorsione e insieme rivelazione), è la madre, un adulto come tutti gli altri: è in ritardo per un provino di danza, per uno spettacolo ispirato proprio al mito della caverna di Platone. Il regista dello spettacolo è Leos Carax, che sembra cogliere al balzo l’incipit per spiegare, senza mezzi termini, l’allegoria degli uomini incatenati in un regno di ombre, ignari del mondo alle loro spalle. L'universo alle spalle del bambino, però, è Parigi. Sui muri dei suoi palazzi, campeggiano le scritte Defense d’afficher. Basta una piccola crepa per svelare ciò che risiede dietro la superficie, la superficie delle immagini; per scoprire, dapprima con sguardo individuale, e poi con interesse comune, l’uscita dalla caverna: la caverna in cui abbiamo perso contatto con il mondo, per affidarci alle nostre singolarità.
In un opuscoletto che reca un titolo a suo modo apocalittico e utopico insieme, Dopo il cinema, in dialogo con Goffredo Fofi Alice Rohrwacher sembra fornire le coordinate per intersecare più facilmente Allégorie citadine con il resto della sua filmografia:
L’uomo di oggi vaga per la città… Non è neanche distratto dai rumori, dal traffico, i suoi pensieri sono sempre tirati di qua e di là, cambiano continuamente, non seguono più il suo sguardo. È cieco. Proprio per questo tutto intorno a lui, nei muri della città, nell’abbigliamento, nel suo telefono, tutto urla per cercare di farsi guardare. Ma lui non guarda davvero. [...] Però può accadere che l’occhio di questo uomo all’improvviso si fermi, che un luogo o un momento, che non hanno importanza, concedano spazio e riposo al pensiero. E allora l’uomo che vaga finalmente si ferma a guardare. E qui, in quello sguardo, che accade in ogni dove adesso, c’è il nostro destino, la nostra radice.
In questo passo, Rohrwacher affronta con le sue stesse parole il problema che sta al centro di un’intera ricerca filmica, e non solo: storica, sociale, antropologica. Non è questo il caso di giudicarli, i suoi film, di elevarne le virtù o di metterne in evidenza i limiti e le manie autoriali. È questo il caso, invece, di riconoscerne la postura intellettuale nella determinazione con cui ricorre alla propria idea di cinema mentre insegue, testardamente, la propria idea di vita: ma di vita condivisa, di vita collettiva. Questo è il termine chiave su cui indirizzare un’indagine a ritroso sulla sua filmografia: un aggettivo, che in quanto tale determina la qualità dell’azione umana, un’azione che si è persa per Rohrwacher. Lo stare insieme, il vivere insieme, il credere assieme. Collettivamente.
La cecità, per la regista, è la cecità della soggettività dell’uomo moderno, e non è configurabile come problema gnoseologico, ma come problema storico-morale - come per altri autori, poeti e scrittori del Novecento italiano, rispetto ai quali lei sa di porsi come prosecutrice di un certo pensiero moralistico e antimoderno. Una questione sotto la quale i protagonisti degli ultimi suoi due lungometraggi (Lazzaro e Arthur), per motivi distinti e in parte controversi, vengono schiacciati, fino a perdere la vita.
La storia di Lazzaro felice (2018), per inciso, è di per sé la storia di una fuoriuscita dalla caverna, dal «grande inganno» a cui i contadini dell’Inviolata erano stati sottoposti per tutta la loro vita, in una emarginazione temporale e spaziale, e dunque conoscitiva; la fuoriuscita, alla fine, altro non rivelava che ulteriori inganni per il protagonista, e la sua morte era la dipartita della comunità. L’Arthur della Chimera (2023) porta con sé un dono, quello di trovare i luoghi impervi da raggiungere, i regni delle ombre, le caverne del passato, condiviso e personale. Arthur ci ritorna, nella caverna, scappando dall’utopia politica di un bene comune per raggiungere il proprio fine, individuale: perdersi nell’atto ultimo - morire - per ritrovare l’ombra (ma al singolare) di un amore perso per sempre.
L’inganno economico, l’amore perduto, la religione degradata di Corpo celeste (2011), nel quale non a caso l’immagine preminente, utilizzata anche nei materiali promozionali, è quella di Marta, la piccola protagonista, con gli occhi bendati durante la prova del «cieco nato». Nei suoi lungometraggi, Alice Rohrwacher mette in mostra la fine del sentire comune, la persistenza moderna dell’esperienza unicamente soggettiva, la morte dell’utopia. Sullo sfondo della provincia, della campagna, dei luoghi dimenticati d’Italia, ne celebra il funerale, come avviene appunto in Omelia Contadina (il funerale dell’agricoltura tradizionale). È per questo singolare (ma forse non troppo, visto il suo amore per tutto ciò che è straniero rispetto alla condizione attuale dell’essere umano) che proprio in terra straniera, e in una città, Rohrwacher diriga e coreografi, come in una sinfonia o in un balletto, la prima definitiva presa di coscienza attiva di una comunità, e la sua liberazione dalle false immagini che la circondano.
Tacciare di puerilità il cinema di Rohrwacher è possibile, e lo si potrebbe fare anche per questo Allégorie citadine, data l’esibizione autoproclamata dei temi, degli intenti e delle forme (come viene notato spesso, in altre occasioni, nel sovente uso della pellicola, dei formati ridotti e dei margini irregolari del quadro). Ma non vorrebbe dire trattare le immagini con le parole, come si dovrebbe fare, come dovrebbe fare chi scrive. È quindi non puerile, ma infantile: nella sua accezione primigenia, come chi vuole, vuole davvero, scoprire il mondo per la prima volta; come un bambino pronto a conoscere, ma non da solo, la storia di un futuro comune - il «nostro destino», la «nostra radice» di cui parla la regista nell’intenso dialogo con Fofi.
Banale o sofisticatia che sia, la carriera di Alice Rohrwacher rimane, ad oggi, l’unico esempio italiano di una coincidenza netta tra una precisa visione del cinema e una precisa visione del mondo.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere Allégorie citadine e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.
di Paolo Rissicini
NC-261
20.12.2024
A quattro anni dall’«azione cinematografica» di Omelia Contadina, Alice Rohrwacher e l’artista francese JR si ricongiungono per lavorare, ancora, sulle immagini presenti e passate, per rappresentare un destino - artistico e sociale - diverso da quello che pensiamo di avere di fronte.
Lo spunto, in questo ruolo di connettore tra le arti (e tra i diversi mercati…) che JR si è ritagliato nella propria carriera, dopo l’esperienza cinematografica con l’Agnès Varda di Visages, villages (2017), è lo spettacolo Chiroptera, messo in scena il 12 novembre 2023 sulla facciata del Palais Garnier a Parigi: 153 ballerini, divenuti animali notturni, si sono esibiti all’interno dei contorni (delle gabbie rettangolari a poco più di trenta metri d’altezza) di uno spazio installativo dalla enorme forma di una caverna. Poco meno di un anno dopo, quello spettacolo, parte di un progetto più ampio di JR intitolato Retour à la caverne, si è trasformato nei 21 minuti di Allégorie citadine, cortometraggio da oggi disponibile sul catalogo MUBI.
Ed è tutto esposto, non c’è nulla di celato in questa operazione che, come detto, galleggia tra il formato del corto e l’installazione site specific, seppur in una cornice di supporto pubblicitario, essendo il film finanziato dalla maison Chanel. La volontà di Allégorie citadine è quella di offrirsi ingenuamente alla lettura più semplicistica che si possa fare del cinema come metafora dell’esperienza conoscitiva del mondo. L’allegoria, il riferimento platonico, dall’inizio del settimo libro della Repubblica, è quello della caverna.
Il mito è introdotto sin da subito, dal protagonista: un bambino che si aggira per le strade di Parigi, febbricitante, osserva il cielo per mezzo di un caleidoscopio, frammentando la realtà che non sembra più quella dei master shot iniziali, quei campi lunghi sui tetti, sui monumenti, sulle persone che abitano la capitale (inquadrature che nella loro successione, nella loro convergenza tra ritmo musicale e stacco di montaggio, presentano una loro organicità, dunque una proprietà di immagini cangianti, in un ricordo delle sinfonie audiovisive di inizio Novecento, alla Walter Ruttmann).
È la storia della caverna e del bambino, ci racconta il fanciullo. A trascinarlo via dall’osservazione del mondo (o dalla sua distorsione e insieme rivelazione), è la madre, un adulto come tutti gli altri: è in ritardo per un provino di danza, per uno spettacolo ispirato proprio al mito della caverna di Platone. Il regista dello spettacolo è Leos Carax, che sembra cogliere al balzo l’incipit per spiegare, senza mezzi termini, l’allegoria degli uomini incatenati in un regno di ombre, ignari del mondo alle loro spalle. L'universo alle spalle del bambino, però, è Parigi. Sui muri dei suoi palazzi, campeggiano le scritte Defense d’afficher. Basta una piccola crepa per svelare ciò che risiede dietro la superficie, la superficie delle immagini; per scoprire, dapprima con sguardo individuale, e poi con interesse comune, l’uscita dalla caverna: la caverna in cui abbiamo perso contatto con il mondo, per affidarci alle nostre singolarità.
In un opuscoletto che reca un titolo a suo modo apocalittico e utopico insieme, Dopo il cinema, in dialogo con Goffredo Fofi Alice Rohrwacher sembra fornire le coordinate per intersecare più facilmente Allégorie citadine con il resto della sua filmografia:
L’uomo di oggi vaga per la città… Non è neanche distratto dai rumori, dal traffico, i suoi pensieri sono sempre tirati di qua e di là, cambiano continuamente, non seguono più il suo sguardo. È cieco. Proprio per questo tutto intorno a lui, nei muri della città, nell’abbigliamento, nel suo telefono, tutto urla per cercare di farsi guardare. Ma lui non guarda davvero. [...] Però può accadere che l’occhio di questo uomo all’improvviso si fermi, che un luogo o un momento, che non hanno importanza, concedano spazio e riposo al pensiero. E allora l’uomo che vaga finalmente si ferma a guardare. E qui, in quello sguardo, che accade in ogni dove adesso, c’è il nostro destino, la nostra radice.
In questo passo, Rohrwacher affronta con le sue stesse parole il problema che sta al centro di un’intera ricerca filmica, e non solo: storica, sociale, antropologica. Non è questo il caso di giudicarli, i suoi film, di elevarne le virtù o di metterne in evidenza i limiti e le manie autoriali. È questo il caso, invece, di riconoscerne la postura intellettuale nella determinazione con cui ricorre alla propria idea di cinema mentre insegue, testardamente, la propria idea di vita: ma di vita condivisa, di vita collettiva. Questo è il termine chiave su cui indirizzare un’indagine a ritroso sulla sua filmografia: un aggettivo, che in quanto tale determina la qualità dell’azione umana, un’azione che si è persa per Rohrwacher. Lo stare insieme, il vivere insieme, il credere assieme. Collettivamente.
La cecità, per la regista, è la cecità della soggettività dell’uomo moderno, e non è configurabile come problema gnoseologico, ma come problema storico-morale - come per altri autori, poeti e scrittori del Novecento italiano, rispetto ai quali lei sa di porsi come prosecutrice di un certo pensiero moralistico e antimoderno. Una questione sotto la quale i protagonisti degli ultimi suoi due lungometraggi (Lazzaro e Arthur), per motivi distinti e in parte controversi, vengono schiacciati, fino a perdere la vita.
La storia di Lazzaro felice (2018), per inciso, è di per sé la storia di una fuoriuscita dalla caverna, dal «grande inganno» a cui i contadini dell’Inviolata erano stati sottoposti per tutta la loro vita, in una emarginazione temporale e spaziale, e dunque conoscitiva; la fuoriuscita, alla fine, altro non rivelava che ulteriori inganni per il protagonista, e la sua morte era la dipartita della comunità. L’Arthur della Chimera (2023) porta con sé un dono, quello di trovare i luoghi impervi da raggiungere, i regni delle ombre, le caverne del passato, condiviso e personale. Arthur ci ritorna, nella caverna, scappando dall’utopia politica di un bene comune per raggiungere il proprio fine, individuale: perdersi nell’atto ultimo - morire - per ritrovare l’ombra (ma al singolare) di un amore perso per sempre.
L’inganno economico, l’amore perduto, la religione degradata di Corpo celeste (2011), nel quale non a caso l’immagine preminente, utilizzata anche nei materiali promozionali, è quella di Marta, la piccola protagonista, con gli occhi bendati durante la prova del «cieco nato». Nei suoi lungometraggi, Alice Rohrwacher mette in mostra la fine del sentire comune, la persistenza moderna dell’esperienza unicamente soggettiva, la morte dell’utopia. Sullo sfondo della provincia, della campagna, dei luoghi dimenticati d’Italia, ne celebra il funerale, come avviene appunto in Omelia Contadina (il funerale dell’agricoltura tradizionale). È per questo singolare (ma forse non troppo, visto il suo amore per tutto ciò che è straniero rispetto alla condizione attuale dell’essere umano) che proprio in terra straniera, e in una città, Rohrwacher diriga e coreografi, come in una sinfonia o in un balletto, la prima definitiva presa di coscienza attiva di una comunità, e la sua liberazione dalle false immagini che la circondano.
Tacciare di puerilità il cinema di Rohrwacher è possibile, e lo si potrebbe fare anche per questo Allégorie citadine, data l’esibizione autoproclamata dei temi, degli intenti e delle forme (come viene notato spesso, in altre occasioni, nel sovente uso della pellicola, dei formati ridotti e dei margini irregolari del quadro). Ma non vorrebbe dire trattare le immagini con le parole, come si dovrebbe fare, come dovrebbe fare chi scrive. È quindi non puerile, ma infantile: nella sua accezione primigenia, come chi vuole, vuole davvero, scoprire il mondo per la prima volta; come un bambino pronto a conoscere, ma non da solo, la storia di un futuro comune - il «nostro destino», la «nostra radice» di cui parla la regista nell’intenso dialogo con Fofi.
Banale o sofisticatia che sia, la carriera di Alice Rohrwacher rimane, ad oggi, l’unico esempio italiano di una coincidenza netta tra una precisa visione del cinema e una precisa visione del mondo.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere Allégorie citadine e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.