L'inganno secondo Miguel Gomes,
di Lorenzo Sartor
TR-117
21.12.2024
Due promessi sposi si rincorrono dalla Birmania alla Cina, percorrendo lo stesso Grand Tour orientale, vivendo la loro storia come due rette parallele che procedono simultaneamente senza mai incontrarsi. Nel tempo in cui il viaggio dei due amanti avanza su binari divisi, le immagini dell’Asia odierna intervallano la narrazione, mentre futuro e passato si sovrappongono. L’ultimo lavoro del regista portoghese Miguel Gomes (già analizzato su ODG nella recensione di Antonio Orrico) si basa su un duplice punto di vista: quello del rapporto con la storia del colonialismo portoghese ed europeo e quello del legame con il cinema, nella dicotomia tra realtà e finzione.
Gomes nasce infatti come critico e teorico, laureato alla Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona. Alla fine degli anni ’90 entra in contatto con il regista e produttore Sandro Aguilar e con la sua piccola casa di produzione, A som e a furia, con cui instaurerà un sodalizio che prende avvio dai corti prodotti nei primi anni Duemila e che proseguirà per i due decenni successivi. L’incontro avviene grazie a una comunione di intenti teorici: i registi che lavorano con A som e a furia cercano di riprendere la tradizione del Novo Cinema portoghese, movimento nato negli anni ’60 sull’onda degli ultimi residui del Neorealismo (già tra l’altro anticipato nel 1942 da Manoel de Oliveira con il lungometraggio Aniki Bobo) e della neonata Nouvelle Vague. Registi come de Oliveira, Paulo Rocha (Mudar de Vida, 1966) e João César Monteiro (À flor do mar, 1986) hanno pertanto influenzato il cinema di Miguel Gomes, trattando l’eredità della decolonizzazione delle colonie africane e il problema della memoria storica, politica e individuale del Portogallo post-colonialista.
Nel suo libro L’attrito della memoria (2023), Miguel Cardina sostiene che “La memoria è un atto del presente” e “Il modo in cui l’immaginario coloniale ha pervaso la dimensione pubblica è il risultato di un processo che non può in nessun modo essere separato dalla realtà storica concreta del colonialismo”; “…tale immaginario è stato attivamente rivestito di nuovi usi ed espressioni, legati ai meccanismi di conservazione della colonialità e di riproduzione delle narrazioni identitarie nazionali”. Il cinema portoghese non ha quindi potuto fare a meno di confrontarsi con un immaginario coloniale ormai radicato nella politica, nella dimensione pubblica e negli spettacoli d’intrattenimento.
Discutere del rapporto di Miguel Gomes con il passato del Novo Cinema Portoghese, vuol dire quindi considerare due dimensioni distanti ma interconnesse tra loro: il legame con la storia del Portogallo, e il retaggio colonialista che ha definito l’eredità della nazione, e il cinema come mezzo per svelare l’inganno della finzione e degli immaginari della storia del Paese.
Portogallo, Europa e Colonialismo
Il 25 Aprile 1974, con la Rivoluzione dei garofani, in Portogallo viene destituito il regime dittatoriale Estado Novo, instaurato da Antonio Salazar nel 1933 (la più lunga dittatura della storia europea), e posta fine alle guerre coloniali che duravano da tredici anni, avviando così un processo di decolonizzazione affrettato, maldestro e di cui molti dettagli sono stati cancellati attraverso politiche dell’oblio, che esprimevano la non volontà della Stato portoghese di mettere in discussione il proprio passato.
“Non c’è un singolo episodio della storia del Portogallo che sia separato dagli altri”. Così affermava il protagonista del film Non, ou a vã glória de mandar (No, la folle gloria del comando, 1990) di Manoel De Oliveira, dove il regista portoghese metteva in scena i racconti di un soldato delle guerre coloniali che ricordava gli accadimenti della storia militare da cui la propria Nazione usciva sconfitta. De Oliveira metteva in discussione l’eredità colonialista del suo Paese, sperando di trovare, nei frammenti individuali della Storia, una verità generale che spieghi l’interezza del colonialismo portoghese, decostruendo così l’impianto mitico dell’immaginario con cui il Portogallo si è sempre venduto agli occhi del mondo occidentale. Questa tendenza nel Novo Cinema di mettere in scena il passato colonialista dell’impero per svelare le contraddizioni delle guerre in Africa, la ritroviamo anche in O Bobo (Il Bebè, 1987), opera di José Álvaro Morais premiata a Locarno con il Pardo D’Oro, che si focalizza sulla storia di un regista che, per finanziare uno spettacolo teatrale barocco basato sulla Battaglia di San Mamede del 1128 con cui il Portogallo aveva conquistato la propria indipendenza, vende armi ai gruppi rivoluzionari africani durante le guerre coloniali, mettendo in luce il doppio ruolo del paese, prima conquistato e ora conquistatore.
Gomes prosegue questa strada tracciata da De Oliveira e Morais, riflettendo sul persistere nella contemporaneità di un immaginario che impedisce di guardare al passato violento e imperialista del Portogallo senza tenere conto del filtro del Lusotropicalismo, teoria sostenuta ancora oggi nella politica portoghese (come dimostra l’esistenza di parchi a tema, monumenti celebrativi e addirittura l’edizione del Monopoly basata sugli eroi dell’imperialismo), secondo la quale il colonialismo storico è sempre stato portatore di giusti processi di civilizzazione, di grandi progressi per tutto il mondo occidentale e di relazioni armoniche con i popoli conquistati. Nel suo libro Cardina riporta le parole di Eduardo Lourenço, riguardo “l’insolita pretesa da parte dei portoghesi di non essere colonialisti”, evidenziando la forza e la debolezza di quel presunto “colonialismo innocente”.
All’interno della filmografia di Gomes, il discorso sui limiti della memoria plasmata dall’immaginario coloniale vede il suo inizio con Tabù (2012), dove già dalla divisione dell’opera in due parti possiamo comprendere come per l'autore, nel cinema, il passato non possa essere fedelmente ricostruito, ma solo evocato. La prima parte dell’opera (Paradiso Perduto) inizia con l’immagine di una spettatrice che il 28 dicembre 2012, centodiciassette anni dopo la storica proiezione dei Fratelli Lumiere, guarda un film che riecheggia l’immaginario post-colonialista di un passato, fittizio e ideale, che la dottrina lusotropicalista ha cercato di mettere in primo piano. La donna, Pilar (Teresa Madruga), si offre di assistere la vicina di casa Aurora (Laura Soveral) negli ultimi giorni della sua vita. Quest’ultima, di fronte alla delusione di aver perso ogni risparmio al casinò per aver creduto a una visione onirica, constaterà che “la vita delle persone non è come quella nei sogni”.
Già con questo inizio Gomes definisce il cinema non come mezzo attraverso cui riportare in scena ciò che non esiste più, ma solo come strumento con cui creare un simulacro di quello stesso passato filtrato dallo sguardo del presente. Perché, come ricorda Michel-Rolph Trouillot, “la storia viene costruita partendo da un contesto storico specifico” e non si può quindi ricostruire il corso degli eventi senza tenere conto delle narrazioni dominanti che hanno plasmato il nostro punto di vista occidentale. La seconda parte dell'opera (Paradiso) inizia infatti con l’arrivo del personaggio di Gian Luca Ventura (Henrique Espirito Santo), da cui partirà un flashback dei mesi passati insieme ad Aurora in una colonia africana.
Anche se il lungometraggio già dal titolo e dal nome del personaggio sembra omaggiare Murnau, il cineasta portoghese si allontana dalle intenzioni dell’omonimo film del regista tedesco. Laddove in Tabù (1931) Murnau trasportava lo spettatore all’interno di una cultura distante dalla propria, rendendola accogliente anche allo sguardo dello spettatore occidentale, Gomes mira a far smarrire quest’ultimo all’interno di un universo in cui viene gettato come straniero. La decisione di togliere alla pellicola ogni parola e di lasciare voce solo alle immagini, al voice over di Ventura, ai suoni diegetici della natura e alla musica ascoltata dai personaggi, non è quindi un tentativo nostalgico di omaggiare la presunta superiorità del cinema muto, ma bensì una volontà di usare i mezzi del vecchio cinema per alienare lo spettatore ed esorcizzare l’immaginario colonialista che cita.
Registrazioni, lettere, mappe improvvisate, fotografie e tutto ciò che rimane dell’eredità delle guerre coloniali, viene usato per permettere al pubblico di cogliere solo l’impressione di un passato idealizzato, di cui sono rimaste nient'altro che le ombre. Il protagonista che racconta la storia si copre gli occhi con le dita, riuscendo a vedere solo un frammento dell’omicidio compiuto dalla donna amata, evidenziando che della storia può essere rappresentato solo un punto di vista parziale. Analogamente Gomes vuole discutere lo sguardo con cui ci rivolgiamo verso un cinema che non esiste più e verso una visione dell’Africa colonizzata che deve riaccogliere il punto di vista del colonizzato, a discapito di quello del colonizzatore.
La volontà di calare lo spettatore nei panni di uno sguardo straniero e fuori posto verrà ripresa da Gomes in Grand Tour (2024), dove fin dall’inizio il protagonista Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario del governo coloniale britannico in Birmania fuggito nel giorno del suo matrimonio, entrerà in contatto con lingue, tradizioni e culture talmente distanti dalla propria da renderlo un pesce fuor d’acqua, portando di conseguenza anche lo spettatore verso un processo di continuo estraniamento. I voice over si alternano, cambiando costantemente lingua, nazione di provenienza e soggetto del racconto, narrando così un passato dei personaggi che viene ricostruito attraverso vecchi diari e altri frammenti del loro viaggio, che richiamano ai fatti del colonialismo britannico solo per svelarne la tragicità e l’inevitabile decadenza.
In Tabu e in Grand Tour avviene quindi una sorta di ritorno al principio del cinema, un “Viaggio all’inizio del mondo”, come quello che compiva Marcello Mastroianni nell’omonimo film (1997) di De Oliveira, altra opera dove il tentativo di un personaggio di fare i conti con le ombre del proprio passato si scontrava con l’oblio storico del Portogallo contemporaneo. Come sentenzia Aurora nella lettera che conclude le vicende di Tabu (“Se la memoria degli uomini è limitata il mondo è eterno e nessuno ne può scappare”) la verità generale che spieghi l’intera storia del Portogallo, cercata dal protagonista di Non, ou a vã glória de mandar, non può essere trovata, perché il cinema non può spiegare i fallimenti del passato, ma solo mostrarne le rovine.
Il discorso del regista di Lisbona sullo scontro tra memoria individuale e storica viene poi esteso al resto dell’Europa in Redemption (2013), dove si portano in scena i frammenti di quattro monologhi scritti da persone provenienti da più paesi europei (Portogallo, Italia, Francia e Germania), di cui sentiamo solo la voce narrante raccontare una diversa storia di rammarico o di perdita, mentre immagini d’archivio provenienti dalle suddette nazioni scorrono sullo schermo. Tali immagini ricostruiscono i ricordi dei quattro protagonisti, in uno scontro tra racconto di finzione e film d’archivio in cui le memorie di chi racconta non riescono mai a incontrarsi con il retaggio storico portato avanti dallo Stato, portando le apparentemente insignificanti storie dei singoli individui a procedere su binari opposti a quelli della Storia canonizzata.
Ma per Gomes la Storia di un popolo non può procedere senza il riconoscimento delle singole vicende di chi abita una nazione, ed è per questo che lo smarrimento identitario dell’Europa odierna diventa lo spunto per la sua trilogia intitolata As Mil e Uma Noites (Le mille e una notte - Arabian Nights, 2015), lavoro che permette al regista di confrontarsi per la prima volta con le urgenze politiche dell’attualità nazionale. Nell’agosto del 2013, in seguito all’applicazione di pesanti interventi di austerità da parte del governo, la popolazione portoghese ha dovuto affrontare una grave crisi economica. Partendo dal racconto di una politica non interessata ai diritti dei suoi cittadini e dell’indifferenza di un’Europa in crisi, Gomes crea una trilogia di volumi composti da tre novelle ciascuno, dove riafferma costantemente la necessità umana di raccontare e condividere storie per sopravvivere.
La scomparsa dell’identità politica di un’intera nazione viene rappresentata da un susseguirsi di storie che variano in registro, genere e ritmo, passando con leggerezza dal surrealismo grottesco buñueliano alla messa in scena di stampo etnografico della vita quotidiana della classe media. Spesso i luoghi in cui queste novelle vengono ambientate (un tribunale, un condominio o un intero arcipelago di isole) diventano microcosmi di digressioni, racconti e storie che si dipanano da altre, come rami di un albero la cui base rimane sempre il disagio economico-sociale. Una serie di racconti dove gli eventi principali vengono lasciati al fuori-campo, dove essenziale rimane solo il piacere di perdersi all’interno dei meccanismi della narrazione. As Mil e Uma Noites è di certo l’opera di Gomes più legata ai film del Pampero e a registi del nuovo cinema argentino come Mariano Llinas, Laura Citarella o Rodrigo Moreno. Ma è nella terza e ultima parte della trilogia che ritroviamo l’interesse verso il processo di registrazione e riproduzione che già veniva esplorato in Tabu.
Le ultime due favole vengono infatti dedicate ad addestratori di fringuelli, impegnati nell’atto di registrare il suono di questi uccelli, per poi farli sfidare in gare canore. Come i fringuelli non possono sopravvivere senza la giusta cura da parte dei loro addestratori, la classe media non può sopravvivere senza adeguate misure di sostegno sociale. Ma quest’ultima sezione non si limita a illustrare allo spettatore una metafora politica, bensì richiama l’interesse di Miguel Gomes nei confronti della ricostruzione nel cinema. Gli addestratori registrano i versi dei fringuelli, per poi montarli e ricomporli, come il regista si reca sui luoghi delle riprese dei suoi film, coglie nell’immediato le storie dei cittadini che li abitano e poi rimescola tra di loro le immagini. Ed è in questa rappresentazione che si mostra l’altro aspetto che maggiormente interessa il cinema del regista, ovvero il gesto di svelare l’artificio del cinema e quindi l’inganno alla base di ogni suo film.
Artificio, finzione e documentario
Fin dai primi cortometraggi prodotti da Aguilar, Gomes esibisce la volontà di giocare con gli stilemi del cinema classico americano anni ’30, già citati nel suo primo corto Entretanto (1999), dove in seguito a un black-out uno studente ubriaco comincia a cantare Somewhere over the Rainbow. The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) di Victor Fleming viene citato anche nel corto 31 (2003), attraverso oggetti di scena e nel legame che viene creato tra l’arrivo di Dorothy a Oz e la Rivoluzione dei Garofani del 1974, in un parallelismo tra una rivoluzione storica e un altro tipo di rivoluzione, questa volta artistica, come l’arrivo del technicolor. Anche il primo lungometraggio di Gomes, A Cara que Mereces (The Face You Deserve, 2004) presenta una divisione in 2 atti, il primo dei quali si intitola Teatro. Ed è proprio su un palco teatrale che emerge l’interesse del regista nel discutere dell’artificio dello spettacolo e dei codici del cinema.
Il primo atto riprende questo interesse verso la cinematografia classica americano e in particolar modo nei confronti del suo sistema dei generi, tra scene interamente cantate che richiamano il musical anni 30’ e vestiti e suoni che fanno riferimento al genere western; infine arriva l’omaggio al cinema d’animazione Disney, come nella sequenza dove dei bambini stanno facendo le prove per mettere in scena Biancaneve e i 7 Nani, rifacendosi esplicitamente più al classico animato che alla fiaba originale. Il secondo atto (Morbillo) è dedicato alla vita di sette uomini isolati nella propria casa. Sette nani senza Biancaneve, che si perdono in giochi infantili un pò come lo stesso Gomes, impegnato a smarrirsi in digressioni, flashback e altri meccanismi che anticipano l’approccio ludico all’atto di raccontare storie di Arabian Nights, rivelando così il desiderio di svelare il fuoricampo dietro ogni storia e mostrando allo spettatore il dietro le quinte di ogni palcoscenico.
Nella prima inquadratura del film Aquele querido mês de Agosto (Our beloved month of August, 2008) viene mostrato l’occhio di una volpe che osserva un gallo da dietro una recinzione. Il motivo dello sguardo animale è ricorrente nella filmografia di Gomes, se pensiamo all’occhio sempre spalancato del coccodrillo Dandy in Tabù, ai panda in Grand Tour o alla balena in Arabian Nights; ma nel secondo film del regista questo inizio diventa essenziale per introdurre l’importanza del processo di osservazione e la struttura drammaturgica dell’opera, basata su tre livelli distinti di rappresentazione: il film romantico narrativo ambientato vicino alla foresta di Mata da Margaca, il secondo livello meta-narrativo, dove Miguel Gomes stesso e la sua troupe aspettano i finanziamenti e l’arrivo degli attori, e infine l’ultima dimensione, ovvero quella del documentario etnografico girato durante quell’attesa, negli stessi luoghi che poi verranno rielaborati dall’artificio della finzione.
Gomes non si limita a giustapporre tra loro i tre livelli del film, ma diventa l’uomo con la macchina da presa di vertoviana memoria, che riorganizza le immagini e si diverte a scombinare tra loro i vari livelli narrativi, sottolineando come sia impossibile mettere in scena la realtà senza piegarla con il linguaggio del cinema. Ciò viene ancor di più sottolineato dalla conclusione della sezione meta-narrativa, dove i tecnici del suono si rendono conto che nelle sequenze in cui dovevano registrare i suoni della natura è rimasta in sottofondo la musica che proveniva dal villaggio, un rumore sempre presente che ci ricorda che quello che stiamo guardando è cinema.
Il regista per tutta la sua filmografia successiva giocherà sui diversi livelli della finzione, facendo delle proprie paranoie teoriche anche il centro nevralgico del prologo di Arabian Nights, dove si ritroverà in conflitto tra la necessità di fare un film di militanza e quella di realizzare un'opera su come le storie permettano di evadere dalla realtà politica, girando per Lisbona a raccogliere materiale da raccontare e mettendo in discussione le ragioni per cui l’umanità è sempre stata così legata ai propri miti e racconti. Questo interesse dell’autore nei confronti del processo creativo riecheggia ancor di più nel successivo Diaros de Otsoga (The Tsugua Diaries, 2021), film girato in tempo di pandemia che, procedendo a ritroso dal ventiduesimo al primo giorno di isolamento, costruisce un "lockdown al contrario" che disvela progressivamente il suo elemento meta-narrativo.
Quello che parte come un film pandemico su tre ragazzi in lockdown che costruiscono una serra per le farfalle, diventa poi uno studio su come Miguel Gomes e la sua troupe teorizzano e mettono in scena quella stessa storia. Pian piano si svelano le attrezzature, i set, le prove delle scene che dovranno essere girate e le discussioni della troupe su come realizzare determinate sequenze. Come della serra per le farfalle noi vediamo il prodotto concluso e poi la sua decostruzione: di ogni sequenza finzionale prima ne osserviamo la resa finale e solo nel momento successivo l’inganno viene svelato. Gomes invita lo spettatore a ragionare sui meccanismi della creazione e della coralità alla base della lavorazione del cinema, abbandonando l’individualismo e il distacco umano sorti nel periodo pandemico. L’opera si conclude infatti con un finale circolare, che svela il momento da cui è nata la sequenza iniziale e dove l’affermazione del lavoro collettivo sovrasta quello del singolo.
L’esibizione dell’artificio dietro i meccanismi del cinema viene proseguita anche in Grand Tour, dove si palesa nuovamente il riferimento al teatro e alle forme dello spettacolo, come le ombre cinesi, lo spettacolo di burattini, il karaoke o le danze esotiche. Non solo Gomes torna a svelare il trucco (il dietro le quinte dove si vedono le figure con cui saranno proiettate le ombre) prima che ci venga mostrata l’effettiva illusione, ma ritroviamo anche l’interesse dell’autore lusitano nel ribaltare i codici del cinema americano classico, rimescolando infatti gli elementi degli unici due generi che non aveva ancora trattato: la screwball comedy e il melò.
L’itinerario di Edward e Molly (Crista Alfaiate) lungo l’Estremo Oriente diventa quindi un viaggio anche attraverso i codici del teatro e del cinema, nonché un’esplorazione del sempre più labile confine tra documentario e finzione. A ispirare la nascita di Grand Tour infatti non è un romanzo di narrativa, bensì una breve storia lunga due pagine contenuta all’interno del diario di viaggio The Gentleman in the Parlour: A Record of a Journey From Rangoon to Haiphong (Il signore in salotto, 1930), del celebre autore britannico William Somerset Maugham. Nel racconto un ragazzo inglese narra allo scrittore la fuga dal proprio matrimonio e il successivo Grand Tour dalla Birmania fino in Cina, inseguito dalla promessa sposa. Lo sfondo dell’opera cinematografica rimane, come nel libro di Maugham, quello dell’impero coloniale britannico all’inizio della propria decadenza, ma laddove l’originale diario di viaggio era una raccolta di encounters (incontri, come quello tra lo sguardo occidentale e l’oriente e, nel finale, tra i due promessi sposi), il film è invece una storia di disencounters (non-incontri), dove i due amanti si rincorrono, percorrono lo stesso tragitto, senza mai ritrovarsi.
Ma il principale non-incontro è quello tra i vari livelli di rappresentazione del film, che in maniera disarmonica procedono su rette parallele distaccate. I luoghi e le tappe del Grand Tour asiatico vengono mostrati sia nella messa in scena del passato colonialista che nelle immagini documentaristiche del presente post-coloniale - come in un “found footage della memoria” - in cui i racconti dei personaggi sono attraversati da immagini di repertorio provenienti dal loro futuro e dove i due amanti continuano a ripetere il proprio viaggio come fantasmi. Così come i due promessi sposi non si incontrano mai, anche il voice over sembra andare su una linea opposta rispetto alle immagini di repertorio, rappresentando la simultaneità dei vari piani narrati. Esistono quindi contemporaneamente più film all’interno di Grand Tour: il racconto di finzione che riproduce in teatro di posa l’Asia Orientale del primo 900 e il documentario etnografico, ossia il diario di viaggio dei luoghi visitati, dove scooter moderni sfrecciano lungo le strade di Saigon, cittadini asiatici cantano al karaoke canzoni di Frank Sinatra e il frastuono di mercati, clacson, cellulari e musiche tipiche si contrappone ai silenzi delle foreste tropicali e dei monasteri.
Ma, dal non-incontro tra passato e presente, emerge un terzo film, quello che può essere esperito esclusivamente dallo spettatore, che in un cittadino cinese che attraversa un fiume su un traghetto nel XXI secolo vede l’immagine di Edward che compie il medesimo viaggio un centinaio d’anni prima, che in un vecchio anziano che gioca a mahjong può riconoscere il ragazzo inglese che gioca d’azzardo nel 1917, che nei luoghi del presente proietta i ricordi dei protagonisti del passato o che nelle marionette comandate da abili burattinai può intravedere gli stessi amanti che vengono guidati da un luogo all’altro. Ed è proprio attraverso la rappresentazione di questa simultaneità che Gomes manifesta la sua unica fede, nella capacità del cinema di compiere un miracolo, quello di svelare le proprie bugie e di mostrare la realtà che si cela dietro ogni storia raccontata.
Durante un Q&A di Grand Tour al regista viene chiesto:
Come mai nel suo film avviene questo salto temporale tra immagini del passato e immagini del presente?
Al che Gomes risponde:
Perché il cinema può farlo.
L'inganno secondo Miguel Gomes,
di Lorenzo Sartor
TR-117
21.12.2024
Due promessi sposi si rincorrono dalla Birmania alla Cina, percorrendo lo stesso Grand Tour orientale, vivendo la loro storia come due rette parallele che procedono simultaneamente senza mai incontrarsi. Nel tempo in cui il viaggio dei due amanti avanza su binari divisi, le immagini dell’Asia odierna intervallano la narrazione, mentre futuro e passato si sovrappongono. L’ultimo lavoro del regista portoghese Miguel Gomes (già analizzato su ODG nella recensione di Antonio Orrico) si basa su un duplice punto di vista: quello del rapporto con la storia del colonialismo portoghese ed europeo e quello del legame con il cinema, nella dicotomia tra realtà e finzione.
Gomes nasce infatti come critico e teorico, laureato alla Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona. Alla fine degli anni ’90 entra in contatto con il regista e produttore Sandro Aguilar e con la sua piccola casa di produzione, A som e a furia, con cui instaurerà un sodalizio che prende avvio dai corti prodotti nei primi anni Duemila e che proseguirà per i due decenni successivi. L’incontro avviene grazie a una comunione di intenti teorici: i registi che lavorano con A som e a furia cercano di riprendere la tradizione del Novo Cinema portoghese, movimento nato negli anni ’60 sull’onda degli ultimi residui del Neorealismo (già tra l’altro anticipato nel 1942 da Manoel de Oliveira con il lungometraggio Aniki Bobo) e della neonata Nouvelle Vague. Registi come de Oliveira, Paulo Rocha (Mudar de Vida, 1966) e João César Monteiro (À flor do mar, 1986) hanno pertanto influenzato il cinema di Miguel Gomes, trattando l’eredità della decolonizzazione delle colonie africane e il problema della memoria storica, politica e individuale del Portogallo post-colonialista.
Nel suo libro L’attrito della memoria (2023), Miguel Cardina sostiene che “La memoria è un atto del presente” e “Il modo in cui l’immaginario coloniale ha pervaso la dimensione pubblica è il risultato di un processo che non può in nessun modo essere separato dalla realtà storica concreta del colonialismo”; “…tale immaginario è stato attivamente rivestito di nuovi usi ed espressioni, legati ai meccanismi di conservazione della colonialità e di riproduzione delle narrazioni identitarie nazionali”. Il cinema portoghese non ha quindi potuto fare a meno di confrontarsi con un immaginario coloniale ormai radicato nella politica, nella dimensione pubblica e negli spettacoli d’intrattenimento.
Discutere del rapporto di Miguel Gomes con il passato del Novo Cinema Portoghese, vuol dire quindi considerare due dimensioni distanti ma interconnesse tra loro: il legame con la storia del Portogallo, e il retaggio colonialista che ha definito l’eredità della nazione, e il cinema come mezzo per svelare l’inganno della finzione e degli immaginari della storia del Paese.
Portogallo, Europa e Colonialismo
Il 25 Aprile 1974, con la Rivoluzione dei garofani, in Portogallo viene destituito il regime dittatoriale Estado Novo, instaurato da Antonio Salazar nel 1933 (la più lunga dittatura della storia europea), e posta fine alle guerre coloniali che duravano da tredici anni, avviando così un processo di decolonizzazione affrettato, maldestro e di cui molti dettagli sono stati cancellati attraverso politiche dell’oblio, che esprimevano la non volontà della Stato portoghese di mettere in discussione il proprio passato.
“Non c’è un singolo episodio della storia del Portogallo che sia separato dagli altri”. Così affermava il protagonista del film Non, ou a vã glória de mandar (No, la folle gloria del comando, 1990) di Manoel De Oliveira, dove il regista portoghese metteva in scena i racconti di un soldato delle guerre coloniali che ricordava gli accadimenti della storia militare da cui la propria Nazione usciva sconfitta. De Oliveira metteva in discussione l’eredità colonialista del suo Paese, sperando di trovare, nei frammenti individuali della Storia, una verità generale che spieghi l’interezza del colonialismo portoghese, decostruendo così l’impianto mitico dell’immaginario con cui il Portogallo si è sempre venduto agli occhi del mondo occidentale. Questa tendenza nel Novo Cinema di mettere in scena il passato colonialista dell’impero per svelare le contraddizioni delle guerre in Africa, la ritroviamo anche in O Bobo (Il Bebè, 1987), opera di José Álvaro Morais premiata a Locarno con il Pardo D’Oro, che si focalizza sulla storia di un regista che, per finanziare uno spettacolo teatrale barocco basato sulla Battaglia di San Mamede del 1128 con cui il Portogallo aveva conquistato la propria indipendenza, vende armi ai gruppi rivoluzionari africani durante le guerre coloniali, mettendo in luce il doppio ruolo del paese, prima conquistato e ora conquistatore.
Gomes prosegue questa strada tracciata da De Oliveira e Morais, riflettendo sul persistere nella contemporaneità di un immaginario che impedisce di guardare al passato violento e imperialista del Portogallo senza tenere conto del filtro del Lusotropicalismo, teoria sostenuta ancora oggi nella politica portoghese (come dimostra l’esistenza di parchi a tema, monumenti celebrativi e addirittura l’edizione del Monopoly basata sugli eroi dell’imperialismo), secondo la quale il colonialismo storico è sempre stato portatore di giusti processi di civilizzazione, di grandi progressi per tutto il mondo occidentale e di relazioni armoniche con i popoli conquistati. Nel suo libro Cardina riporta le parole di Eduardo Lourenço, riguardo “l’insolita pretesa da parte dei portoghesi di non essere colonialisti”, evidenziando la forza e la debolezza di quel presunto “colonialismo innocente”.
All’interno della filmografia di Gomes, il discorso sui limiti della memoria plasmata dall’immaginario coloniale vede il suo inizio con Tabù (2012), dove già dalla divisione dell’opera in due parti possiamo comprendere come per l'autore, nel cinema, il passato non possa essere fedelmente ricostruito, ma solo evocato. La prima parte dell’opera (Paradiso Perduto) inizia con l’immagine di una spettatrice che il 28 dicembre 2012, centodiciassette anni dopo la storica proiezione dei Fratelli Lumiere, guarda un film che riecheggia l’immaginario post-colonialista di un passato, fittizio e ideale, che la dottrina lusotropicalista ha cercato di mettere in primo piano. La donna, Pilar (Teresa Madruga), si offre di assistere la vicina di casa Aurora (Laura Soveral) negli ultimi giorni della sua vita. Quest’ultima, di fronte alla delusione di aver perso ogni risparmio al casinò per aver creduto a una visione onirica, constaterà che “la vita delle persone non è come quella nei sogni”.
Già con questo inizio Gomes definisce il cinema non come mezzo attraverso cui riportare in scena ciò che non esiste più, ma solo come strumento con cui creare un simulacro di quello stesso passato filtrato dallo sguardo del presente. Perché, come ricorda Michel-Rolph Trouillot, “la storia viene costruita partendo da un contesto storico specifico” e non si può quindi ricostruire il corso degli eventi senza tenere conto delle narrazioni dominanti che hanno plasmato il nostro punto di vista occidentale. La seconda parte dell'opera (Paradiso) inizia infatti con l’arrivo del personaggio di Gian Luca Ventura (Henrique Espirito Santo), da cui partirà un flashback dei mesi passati insieme ad Aurora in una colonia africana.
Anche se il lungometraggio già dal titolo e dal nome del personaggio sembra omaggiare Murnau, il cineasta portoghese si allontana dalle intenzioni dell’omonimo film del regista tedesco. Laddove in Tabù (1931) Murnau trasportava lo spettatore all’interno di una cultura distante dalla propria, rendendola accogliente anche allo sguardo dello spettatore occidentale, Gomes mira a far smarrire quest’ultimo all’interno di un universo in cui viene gettato come straniero. La decisione di togliere alla pellicola ogni parola e di lasciare voce solo alle immagini, al voice over di Ventura, ai suoni diegetici della natura e alla musica ascoltata dai personaggi, non è quindi un tentativo nostalgico di omaggiare la presunta superiorità del cinema muto, ma bensì una volontà di usare i mezzi del vecchio cinema per alienare lo spettatore ed esorcizzare l’immaginario colonialista che cita.
Registrazioni, lettere, mappe improvvisate, fotografie e tutto ciò che rimane dell’eredità delle guerre coloniali, viene usato per permettere al pubblico di cogliere solo l’impressione di un passato idealizzato, di cui sono rimaste nient'altro che le ombre. Il protagonista che racconta la storia si copre gli occhi con le dita, riuscendo a vedere solo un frammento dell’omicidio compiuto dalla donna amata, evidenziando che della storia può essere rappresentato solo un punto di vista parziale. Analogamente Gomes vuole discutere lo sguardo con cui ci rivolgiamo verso un cinema che non esiste più e verso una visione dell’Africa colonizzata che deve riaccogliere il punto di vista del colonizzato, a discapito di quello del colonizzatore.
La volontà di calare lo spettatore nei panni di uno sguardo straniero e fuori posto verrà ripresa da Gomes in Grand Tour (2024), dove fin dall’inizio il protagonista Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario del governo coloniale britannico in Birmania fuggito nel giorno del suo matrimonio, entrerà in contatto con lingue, tradizioni e culture talmente distanti dalla propria da renderlo un pesce fuor d’acqua, portando di conseguenza anche lo spettatore verso un processo di continuo estraniamento. I voice over si alternano, cambiando costantemente lingua, nazione di provenienza e soggetto del racconto, narrando così un passato dei personaggi che viene ricostruito attraverso vecchi diari e altri frammenti del loro viaggio, che richiamano ai fatti del colonialismo britannico solo per svelarne la tragicità e l’inevitabile decadenza.
In Tabu e in Grand Tour avviene quindi una sorta di ritorno al principio del cinema, un “Viaggio all’inizio del mondo”, come quello che compiva Marcello Mastroianni nell’omonimo film (1997) di De Oliveira, altra opera dove il tentativo di un personaggio di fare i conti con le ombre del proprio passato si scontrava con l’oblio storico del Portogallo contemporaneo. Come sentenzia Aurora nella lettera che conclude le vicende di Tabu (“Se la memoria degli uomini è limitata il mondo è eterno e nessuno ne può scappare”) la verità generale che spieghi l’intera storia del Portogallo, cercata dal protagonista di Non, ou a vã glória de mandar, non può essere trovata, perché il cinema non può spiegare i fallimenti del passato, ma solo mostrarne le rovine.
Il discorso del regista di Lisbona sullo scontro tra memoria individuale e storica viene poi esteso al resto dell’Europa in Redemption (2013), dove si portano in scena i frammenti di quattro monologhi scritti da persone provenienti da più paesi europei (Portogallo, Italia, Francia e Germania), di cui sentiamo solo la voce narrante raccontare una diversa storia di rammarico o di perdita, mentre immagini d’archivio provenienti dalle suddette nazioni scorrono sullo schermo. Tali immagini ricostruiscono i ricordi dei quattro protagonisti, in uno scontro tra racconto di finzione e film d’archivio in cui le memorie di chi racconta non riescono mai a incontrarsi con il retaggio storico portato avanti dallo Stato, portando le apparentemente insignificanti storie dei singoli individui a procedere su binari opposti a quelli della Storia canonizzata.
Ma per Gomes la Storia di un popolo non può procedere senza il riconoscimento delle singole vicende di chi abita una nazione, ed è per questo che lo smarrimento identitario dell’Europa odierna diventa lo spunto per la sua trilogia intitolata As Mil e Uma Noites (Le mille e una notte - Arabian Nights, 2015), lavoro che permette al regista di confrontarsi per la prima volta con le urgenze politiche dell’attualità nazionale. Nell’agosto del 2013, in seguito all’applicazione di pesanti interventi di austerità da parte del governo, la popolazione portoghese ha dovuto affrontare una grave crisi economica. Partendo dal racconto di una politica non interessata ai diritti dei suoi cittadini e dell’indifferenza di un’Europa in crisi, Gomes crea una trilogia di volumi composti da tre novelle ciascuno, dove riafferma costantemente la necessità umana di raccontare e condividere storie per sopravvivere.
La scomparsa dell’identità politica di un’intera nazione viene rappresentata da un susseguirsi di storie che variano in registro, genere e ritmo, passando con leggerezza dal surrealismo grottesco buñueliano alla messa in scena di stampo etnografico della vita quotidiana della classe media. Spesso i luoghi in cui queste novelle vengono ambientate (un tribunale, un condominio o un intero arcipelago di isole) diventano microcosmi di digressioni, racconti e storie che si dipanano da altre, come rami di un albero la cui base rimane sempre il disagio economico-sociale. Una serie di racconti dove gli eventi principali vengono lasciati al fuori-campo, dove essenziale rimane solo il piacere di perdersi all’interno dei meccanismi della narrazione. As Mil e Uma Noites è di certo l’opera di Gomes più legata ai film del Pampero e a registi del nuovo cinema argentino come Mariano Llinas, Laura Citarella o Rodrigo Moreno. Ma è nella terza e ultima parte della trilogia che ritroviamo l’interesse verso il processo di registrazione e riproduzione che già veniva esplorato in Tabu.
Le ultime due favole vengono infatti dedicate ad addestratori di fringuelli, impegnati nell’atto di registrare il suono di questi uccelli, per poi farli sfidare in gare canore. Come i fringuelli non possono sopravvivere senza la giusta cura da parte dei loro addestratori, la classe media non può sopravvivere senza adeguate misure di sostegno sociale. Ma quest’ultima sezione non si limita a illustrare allo spettatore una metafora politica, bensì richiama l’interesse di Miguel Gomes nei confronti della ricostruzione nel cinema. Gli addestratori registrano i versi dei fringuelli, per poi montarli e ricomporli, come il regista si reca sui luoghi delle riprese dei suoi film, coglie nell’immediato le storie dei cittadini che li abitano e poi rimescola tra di loro le immagini. Ed è in questa rappresentazione che si mostra l’altro aspetto che maggiormente interessa il cinema del regista, ovvero il gesto di svelare l’artificio del cinema e quindi l’inganno alla base di ogni suo film.
Artificio, finzione e documentario
Fin dai primi cortometraggi prodotti da Aguilar, Gomes esibisce la volontà di giocare con gli stilemi del cinema classico americano anni ’30, già citati nel suo primo corto Entretanto (1999), dove in seguito a un black-out uno studente ubriaco comincia a cantare Somewhere over the Rainbow. The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939) di Victor Fleming viene citato anche nel corto 31 (2003), attraverso oggetti di scena e nel legame che viene creato tra l’arrivo di Dorothy a Oz e la Rivoluzione dei Garofani del 1974, in un parallelismo tra una rivoluzione storica e un altro tipo di rivoluzione, questa volta artistica, come l’arrivo del technicolor. Anche il primo lungometraggio di Gomes, A Cara que Mereces (The Face You Deserve, 2004) presenta una divisione in 2 atti, il primo dei quali si intitola Teatro. Ed è proprio su un palco teatrale che emerge l’interesse del regista nel discutere dell’artificio dello spettacolo e dei codici del cinema.
Il primo atto riprende questo interesse verso la cinematografia classica americano e in particolar modo nei confronti del suo sistema dei generi, tra scene interamente cantate che richiamano il musical anni 30’ e vestiti e suoni che fanno riferimento al genere western; infine arriva l’omaggio al cinema d’animazione Disney, come nella sequenza dove dei bambini stanno facendo le prove per mettere in scena Biancaneve e i 7 Nani, rifacendosi esplicitamente più al classico animato che alla fiaba originale. Il secondo atto (Morbillo) è dedicato alla vita di sette uomini isolati nella propria casa. Sette nani senza Biancaneve, che si perdono in giochi infantili un pò come lo stesso Gomes, impegnato a smarrirsi in digressioni, flashback e altri meccanismi che anticipano l’approccio ludico all’atto di raccontare storie di Arabian Nights, rivelando così il desiderio di svelare il fuoricampo dietro ogni storia e mostrando allo spettatore il dietro le quinte di ogni palcoscenico.
Nella prima inquadratura del film Aquele querido mês de Agosto (Our beloved month of August, 2008) viene mostrato l’occhio di una volpe che osserva un gallo da dietro una recinzione. Il motivo dello sguardo animale è ricorrente nella filmografia di Gomes, se pensiamo all’occhio sempre spalancato del coccodrillo Dandy in Tabù, ai panda in Grand Tour o alla balena in Arabian Nights; ma nel secondo film del regista questo inizio diventa essenziale per introdurre l’importanza del processo di osservazione e la struttura drammaturgica dell’opera, basata su tre livelli distinti di rappresentazione: il film romantico narrativo ambientato vicino alla foresta di Mata da Margaca, il secondo livello meta-narrativo, dove Miguel Gomes stesso e la sua troupe aspettano i finanziamenti e l’arrivo degli attori, e infine l’ultima dimensione, ovvero quella del documentario etnografico girato durante quell’attesa, negli stessi luoghi che poi verranno rielaborati dall’artificio della finzione.
Gomes non si limita a giustapporre tra loro i tre livelli del film, ma diventa l’uomo con la macchina da presa di vertoviana memoria, che riorganizza le immagini e si diverte a scombinare tra loro i vari livelli narrativi, sottolineando come sia impossibile mettere in scena la realtà senza piegarla con il linguaggio del cinema. Ciò viene ancor di più sottolineato dalla conclusione della sezione meta-narrativa, dove i tecnici del suono si rendono conto che nelle sequenze in cui dovevano registrare i suoni della natura è rimasta in sottofondo la musica che proveniva dal villaggio, un rumore sempre presente che ci ricorda che quello che stiamo guardando è cinema.
Il regista per tutta la sua filmografia successiva giocherà sui diversi livelli della finzione, facendo delle proprie paranoie teoriche anche il centro nevralgico del prologo di Arabian Nights, dove si ritroverà in conflitto tra la necessità di fare un film di militanza e quella di realizzare un'opera su come le storie permettano di evadere dalla realtà politica, girando per Lisbona a raccogliere materiale da raccontare e mettendo in discussione le ragioni per cui l’umanità è sempre stata così legata ai propri miti e racconti. Questo interesse dell’autore nei confronti del processo creativo riecheggia ancor di più nel successivo Diaros de Otsoga (The Tsugua Diaries, 2021), film girato in tempo di pandemia che, procedendo a ritroso dal ventiduesimo al primo giorno di isolamento, costruisce un "lockdown al contrario" che disvela progressivamente il suo elemento meta-narrativo.
Quello che parte come un film pandemico su tre ragazzi in lockdown che costruiscono una serra per le farfalle, diventa poi uno studio su come Miguel Gomes e la sua troupe teorizzano e mettono in scena quella stessa storia. Pian piano si svelano le attrezzature, i set, le prove delle scene che dovranno essere girate e le discussioni della troupe su come realizzare determinate sequenze. Come della serra per le farfalle noi vediamo il prodotto concluso e poi la sua decostruzione: di ogni sequenza finzionale prima ne osserviamo la resa finale e solo nel momento successivo l’inganno viene svelato. Gomes invita lo spettatore a ragionare sui meccanismi della creazione e della coralità alla base della lavorazione del cinema, abbandonando l’individualismo e il distacco umano sorti nel periodo pandemico. L’opera si conclude infatti con un finale circolare, che svela il momento da cui è nata la sequenza iniziale e dove l’affermazione del lavoro collettivo sovrasta quello del singolo.
L’esibizione dell’artificio dietro i meccanismi del cinema viene proseguita anche in Grand Tour, dove si palesa nuovamente il riferimento al teatro e alle forme dello spettacolo, come le ombre cinesi, lo spettacolo di burattini, il karaoke o le danze esotiche. Non solo Gomes torna a svelare il trucco (il dietro le quinte dove si vedono le figure con cui saranno proiettate le ombre) prima che ci venga mostrata l’effettiva illusione, ma ritroviamo anche l’interesse dell’autore lusitano nel ribaltare i codici del cinema americano classico, rimescolando infatti gli elementi degli unici due generi che non aveva ancora trattato: la screwball comedy e il melò.
L’itinerario di Edward e Molly (Crista Alfaiate) lungo l’Estremo Oriente diventa quindi un viaggio anche attraverso i codici del teatro e del cinema, nonché un’esplorazione del sempre più labile confine tra documentario e finzione. A ispirare la nascita di Grand Tour infatti non è un romanzo di narrativa, bensì una breve storia lunga due pagine contenuta all’interno del diario di viaggio The Gentleman in the Parlour: A Record of a Journey From Rangoon to Haiphong (Il signore in salotto, 1930), del celebre autore britannico William Somerset Maugham. Nel racconto un ragazzo inglese narra allo scrittore la fuga dal proprio matrimonio e il successivo Grand Tour dalla Birmania fino in Cina, inseguito dalla promessa sposa. Lo sfondo dell’opera cinematografica rimane, come nel libro di Maugham, quello dell’impero coloniale britannico all’inizio della propria decadenza, ma laddove l’originale diario di viaggio era una raccolta di encounters (incontri, come quello tra lo sguardo occidentale e l’oriente e, nel finale, tra i due promessi sposi), il film è invece una storia di disencounters (non-incontri), dove i due amanti si rincorrono, percorrono lo stesso tragitto, senza mai ritrovarsi.
Ma il principale non-incontro è quello tra i vari livelli di rappresentazione del film, che in maniera disarmonica procedono su rette parallele distaccate. I luoghi e le tappe del Grand Tour asiatico vengono mostrati sia nella messa in scena del passato colonialista che nelle immagini documentaristiche del presente post-coloniale - come in un “found footage della memoria” - in cui i racconti dei personaggi sono attraversati da immagini di repertorio provenienti dal loro futuro e dove i due amanti continuano a ripetere il proprio viaggio come fantasmi. Così come i due promessi sposi non si incontrano mai, anche il voice over sembra andare su una linea opposta rispetto alle immagini di repertorio, rappresentando la simultaneità dei vari piani narrati. Esistono quindi contemporaneamente più film all’interno di Grand Tour: il racconto di finzione che riproduce in teatro di posa l’Asia Orientale del primo 900 e il documentario etnografico, ossia il diario di viaggio dei luoghi visitati, dove scooter moderni sfrecciano lungo le strade di Saigon, cittadini asiatici cantano al karaoke canzoni di Frank Sinatra e il frastuono di mercati, clacson, cellulari e musiche tipiche si contrappone ai silenzi delle foreste tropicali e dei monasteri.
Ma, dal non-incontro tra passato e presente, emerge un terzo film, quello che può essere esperito esclusivamente dallo spettatore, che in un cittadino cinese che attraversa un fiume su un traghetto nel XXI secolo vede l’immagine di Edward che compie il medesimo viaggio un centinaio d’anni prima, che in un vecchio anziano che gioca a mahjong può riconoscere il ragazzo inglese che gioca d’azzardo nel 1917, che nei luoghi del presente proietta i ricordi dei protagonisti del passato o che nelle marionette comandate da abili burattinai può intravedere gli stessi amanti che vengono guidati da un luogo all’altro. Ed è proprio attraverso la rappresentazione di questa simultaneità che Gomes manifesta la sua unica fede, nella capacità del cinema di compiere un miracolo, quello di svelare le proprie bugie e di mostrare la realtà che si cela dietro ogni storia raccontata.
Durante un Q&A di Grand Tour al regista viene chiesto:
Come mai nel suo film avviene questo salto temporale tra immagini del passato e immagini del presente?
Al che Gomes risponde:
Perché il cinema può farlo.