Abbiamo collaborato con MUBI per presentarvi
quattro, preziosi, film di Jean-Luc Godard,
di Antonio Orrico
TR-114
06.12.2024
La Francia è sempre stata patria e territorio fertile per la Rivoluzione e lo scombinamento del potere costituito, il crollo della monarchia nel ‘700 instaurò l’obiettivo di porre fine ad un modo d’intendere lo Stato, appartenente al cosiddetto Ancien Régime. Il medesimo discorso si può fare sul versante cinematografico, con il cambio che dovette affrontare a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento. Le rivoluzioni passano, per forza di cose, da una messa in crisi dei canoni pre-costituiti e, conseguentemente, attraverso un loro ripensamento, un riadattamento delle convenzioni conosciute fino a quel momento dal punto di vista artistico e culturale.
La Nouvelle Vague, la “nuova onda” che sconvolse il panorama cinematografico del secolo passato, si contraddistinse soprattutto per una messa in dubbio delle autorità, dei capisaldi della società borghese, la quale divenne il bersaglio perfetto per un movimento che non aveva più voglia di adeguarsi in modo conforme alle possibilità già conosciute del mezzo cinematografico e che, invece, percepiva l'urgenza di esplorarne i limiti, riposizionare le capacità acquisite e accrescerle, anche tramite un cambio di passo a livello narrativo e, soprattutto, formale.
Nel 1968, il medium cinematografico divenne quello che, più di tutti gli altri, garantiva la possibilità della libera espressione, l’unico nella produzione culturale che richiedeva nuovi canoni per l’immaginazione e per le coscienze dei contestatori. La Settima Arte era d'improvviso un mezzo per ribellarsi, per comunicare l'ammutinamento delle nuove generazioni, per allontanarsi dal cosiddetto "cinéma de papa" e tendere ad assorbire la realtà circostante tramite l’incursione di tematiche di scottante attualità, che si materializzavano sia nella sostanza che nella forma adoperata per metterle in scena.
In questo scenario emerge la figura di uno dei maestri indiscussi del cinema, mente pensante e soprattutto esecutore materiale della teorizzazione “astruchiana” della camera-stylo: Jean-Luc Godard. Un cineasta il cui esordio À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) divenne il simbolo perfetto del rivoluzionario ripensamento del linguaggio filmico che proprio in quel periodo cominciava ad imperversare: raccordi di montaggio intenzionalmente tranciati (i cosiddetti jump-cut) per fornire dinamismo anche all’azione parlata, attori che guardano in camera sfondando la quarta parete e rivolgendosi direttamente allo spettatore, asincronie tra tracce visive e sonore, citazionismi e una rappresentazione della carnalità (quella che si sviluppa tra Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg) appartenente ad uno stile molto più vicino (per via del vivido realismo utilizzato) a quello del documentario piuttosto che al racconto di fiction. La camera e il cinema, dunque, si allontanano da quell’illusione di realtà tipica della cinematografia classica per avvicinarsi, piuttosto, all’idea di cinema di precursori come Samuel Fuller - protagonista anche di un cameo in Pierrot Le Fou (Il bandito delle 11, 1965) - o Nicholas Ray.
Una Rivoluzione, che, nel film Le Mépris (Il Disprezzo, 1963) - con protagonista un’icona quale Brigitte Bardot, mai più così dolente sullo schermo - investe il cinema stesso in modo secco e diretto, portando allo scoperto l’influenza di una figura importantissima come quella del regista/autore. Le Mépris è l’esempio più lampante di come il nuovo cinema possa influenzare il vecchio, ripescando da modelli consolidati - quali quelli della tragedia greca - per assurgere ad un racconto con un formato pressoché universale. Quello che si apre davanti alla macchina da presa, piuttosto, è un gioco di sguardi che mira a terremotare dall’interno l’ambiente borghese, vivisezionandolo e mettendone in evidenza tutte le ambiguità relazionali, espressioni di un cambiamento necessario, che passa anche, e soprattutto, dal fallimento della convivenza matrimoniale.
In questo senso, si nota il contributo di un altro grande osservatore critico della società come Alberto Moravia, autore del romanzo a cui Godard si ispira per il suo film, abile a scandagliare l’ambiente circostante e a rendere manifesta una rivoluzione che, se non perseguita, può portare solamente dolore e tristezza. La ripetizione in cui precipitano i personaggi di Le Mépris è irreversibile e può essere spezzata solamente dall’estetica e dalla forma, che qui riparte dall’uso dei colori primari (poi oggetto di radicalizzazione nelle opere seguenti) e, soprattutto, rivoluziona il classico formato campo/controcampo negandolo. Nei dialoghi, infatti, assistiamo ad un uso fluido del piano sequenza che oscilla da protagonista a protagonista in funzione del parlato e che delinea una sorta di loop temporale all’interno del quale tutti i personaggi si muovono. Loop che risulta poi spezzato solamente dai jump-cut e dal linguaggio extradiegetico, sia nell’incipit che nel finale, rappresentazione della morte delle aspirazioni borghesi e simbolo dell’arte, rappresentata dal mitico regista tedesco Fritz Lang, che prevale sul capitalismo e sui compromessi commerciali del personaggio interpretato da Michel Piccoli. Un finale che spiega benissimo l’ideale di opposizione e di resistenza che la Settima Arte, nell’ottica purista e anti-capitalista di Jean-Luc Godard, ha nei confronti del denaro.
La Rivoluzione nel cinema, per Godard, equivale ad un atto d’amore struggente, ad un impegno che è prima di tutto umano e che, soprattutto, non può più prescindere dalla presenza dell’autore. Non è un caso che, proprio dopo l'avvento del 68, il regista litigò pesantemente con il collega e amico François Truffaut. Nell’ottica godardiana, il ruolo dell’autore si può facilmente ascrivere ad una presa di posizione che rispecchia tutti i binari e le fattezze del conservatorismo cinematografico. A suo dire, l’intento di rivoluzionare il sistema dal suo interno è praticamente inattuabile, in quanto si finisce presto per diventare “carne da macello” della stessa “macchina” cinematografica.
Proprio per questo, dopo aver raccontato la “sua” Rivoluzione, averla foraggiata a suo modo e averne espiato gli argomenti dal punto di vista formale, giunse il momento per il cineasta di equiparare narrativa e tecnica, portandole entrambe ad un livello di avanguardia e rottura non solo nei confronti del tradizionalismo, ma addirittura nei confronti degli equivoci dei nuovi movimenti sorti in tutto il mondo (la New Hollywood e il New American Cinema negli USA, la Nuberu Bagu in Giappone, il Free Cinema nel Regno Unito e il Neuer Deutscher Film in Germania). Da qui si ha un cambio nuovamente radicale all’interno del pensiero di Godard, fatto di un ampliamento della sperimentazione su immagini e sonoro e sul rapporto che intercorre tra di loro.
Dopo la nascita del Gruppo Dziga Vertov, il regista dà alla luce alcuni dei suoi prodotti meno intercettabili dal pubblico, come Le Vent D’Est (Vento dell'est, 1969), Le Gai Savoir (La gaia scienza, 1969) e soprattutto Tout Va Bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972), pamphlet esplicitamente operaio che ha come obiettivo, molto ambizioso, quello di indagare la sorte degli intellettuali dopo la Rivoluzione del 1968. Tout Va Bien è un vero e proprio innesto nella realtà del post-Sessantotto, un viaggio in cui il cineasta francese comunica quanto sia essenziale mettersi a contatto con la società dei consumi per comprenderla meglio. Dopo la satira toccata con Weekend (Una donna e un uomo da sabato a domenica, 1967), dunque, c’è la necessità e l’urgenza di toccare con mano quello che è il mondo del 1972, la realtà che si è formata dopo i venti rivoluzionari e che, per forza di cose, porta la forma cinematografica a sperimentare nuovamente e a cambiare binario.
Rispetto a quanto messo in evidenza finora, l’afflato politico è molto più caricato e pesante, e ciò non giova alla narrazione, eccessiva e molto più cervellotica rispetto al passato. Risalta, però, il lavoro che Godard effettua sull’immagine per vivisezionare la società. Anche una semplice intervista è resa in modo artistico, tramite un uso sfaccettato dei primi piani di Jane Fonda e Yves Montand, veri e propri volti lacerati da una Rivoluzione fallita ormai facenti parte dei "consumer". Anche il formato delle interviste è meccanico, e mette in evidenza gli effetti nocivi di un tentativo di cambiamento completamente fallito. Per questo motivo, Godard si limita a girare in modo molto classicheggiante, come un entomologo, spiando con carrelli laterali e campi fissi le fabbriche, simbolo per eccellenza del lavoro industriale e dello sfruttamento degli operai, colorate per l'occasione tramite la classica ricerca sui colori primari che il regista ha sempre operato e che qui, però, si inverte di senso, esaltando l’anonimato di una realtà che ingrigisce anche la vita emotivo/relazionale, in particolare quella legata ai vincoli del matrimonio.
L’establishment di sinistra subisce, dunque, un duro colpo da uno dei suoi più grandi sostenitori. Godard si trasforma in un personaggio tradito dai suoi ideali, che accusa il suo stesso pubblico e non transige sull’evoluzione a cui il proletariato è andato incontro. Tout Va Bien, nell’ottica del cineasta francese, rappresenta la fine definitiva dell’attivismo e il suo ritiro dal cinema politico, preferendo piuttosto aprire un nuovo capitolo: quello legato alla sperimentazione sull’immagine e alle possibilità multimediali della tecnologia analogica prima e digitale poi, soprattutto negli anni più vicini alla contemporaneità. La rivoluzione, tanto inseguita negli anni precedenti, cambia il suo campo d’interesse, ma è sempre viva e vegeta, e questa volta si rivale tutta sul linguaggio cinematografico e sull’esplorazione delle sue possibilità. Proprio grazie a questo cambiamento nasce Adieu Au Langage (Addio al linguaggio, 2014), primo film che l'autore realizza con la tecnologia 3D.
Un film che è forse la rappresentazione più concreta di un regista che ha sempre teorizzato la distruzione come atto per creare materia nuova da plasmare, come rivoluzione di tutte le convenzioni possibili. Il linguaggio, nella pellicola del 2014, non è più un collante universale, non è più adibito a potere unificatore, non è più un mezzo che accomuna, quanto piuttosto un mezzo che si occupa di dividere l’umanità. Il cineasta della Nouvelle Vague ne identifica l’attitudine completamente separatoria, evidenziando il suo ruolo nel contemporaneo, in cui ha perso ogni funzionalità. Adieu Au Langage, sotto questo punto di vista, è l’astrazione suprema e la continuazione più naturale del lavoro godardiano degli ultimi venticinque anni, passati a scardinare non più le convenzioni narrative e tecniche, quanto quelle legate al dispositivo cinematografico e, di conseguenza, alla grammatica. Proprio in virtù di questo, in questo atto semi-terminale del suo cinema c’è ancora spazio per opportunità inedite, possibilità filmiche mai viste basate completamente sulla visualità e sul suo ruolo predominante nel contemporaneo.
L’immagine è, infatti, l’unica materia che permette allo spettatore di assumere e di formare un proprio pensiero critico, uno spirito interpretativo che lo spinga a non fermarsi, come il post-moderno insegna, al mero accumulo di semplici significanti, quanto piuttosto ad andare oltre e creare/fornire una nuova semantica dell’immagine, che non ha bisogno di un senso effettivo quanto, piuttosto, di uno spettatore che possa continuare la sua “lotta” nel tentativo di diventare partecipe di questo atto di morte e rinascita - che si può identificare come un vero e proprio ciclo vitale del dispositivo cinematografico nell’epoca contemporanea, nonché il modo (forse l’unico) di poter intendere la Settima Arte al giorno d’oggi.
Allora, forse, il cinema per Godard non è mai stato un semplice mezzo d’intrattenimento, ma piuttosto una lotta. Lotta politica, lotta all’autore, lotta ai dogmi e lotta ai linguaggi. Più semplicemente: cinema contro il cinema.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere Fino all’ultimo respiro, Il Disprezzo, Crepa padrone, tutto va bene e Addio al linguaggio e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.
Abbiamo collaborato con MUBI per presentarvi
quattro, preziosi, film di Jean-Luc Godard,
di Antonio Orrico
TR-114
06.12.2024
La Francia è sempre stata patria e territorio fertile per la Rivoluzione e lo scombinamento del potere costituito, il crollo della monarchia nel ‘700 instaurò l’obiettivo di porre fine ad un modo d’intendere lo Stato, appartenente al cosiddetto Ancien Régime. Il medesimo discorso si può fare sul versante cinematografico, con il cambio che dovette affrontare a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento. Le rivoluzioni passano, per forza di cose, da una messa in crisi dei canoni pre-costituiti e, conseguentemente, attraverso un loro ripensamento, un riadattamento delle convenzioni conosciute fino a quel momento dal punto di vista artistico e culturale.
La Nouvelle Vague, la “nuova onda” che sconvolse il panorama cinematografico del secolo passato, si contraddistinse soprattutto per una messa in dubbio delle autorità, dei capisaldi della società borghese, la quale divenne il bersaglio perfetto per un movimento che non aveva più voglia di adeguarsi in modo conforme alle possibilità già conosciute del mezzo cinematografico e che, invece, percepiva l'urgenza di esplorarne i limiti, riposizionare le capacità acquisite e accrescerle, anche tramite un cambio di passo a livello narrativo e, soprattutto, formale.
Nel 1968, il medium cinematografico divenne quello che, più di tutti gli altri, garantiva la possibilità della libera espressione, l’unico nella produzione culturale che richiedeva nuovi canoni per l’immaginazione e per le coscienze dei contestatori. La Settima Arte era d'improvviso un mezzo per ribellarsi, per comunicare l'ammutinamento delle nuove generazioni, per allontanarsi dal cosiddetto "cinéma de papa" e tendere ad assorbire la realtà circostante tramite l’incursione di tematiche di scottante attualità, che si materializzavano sia nella sostanza che nella forma adoperata per metterle in scena.
In questo scenario emerge la figura di uno dei maestri indiscussi del cinema, mente pensante e soprattutto esecutore materiale della teorizzazione “astruchiana” della camera-stylo: Jean-Luc Godard. Un cineasta il cui esordio À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) divenne il simbolo perfetto del rivoluzionario ripensamento del linguaggio filmico che proprio in quel periodo cominciava ad imperversare: raccordi di montaggio intenzionalmente tranciati (i cosiddetti jump-cut) per fornire dinamismo anche all’azione parlata, attori che guardano in camera sfondando la quarta parete e rivolgendosi direttamente allo spettatore, asincronie tra tracce visive e sonore, citazionismi e una rappresentazione della carnalità (quella che si sviluppa tra Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg) appartenente ad uno stile molto più vicino (per via del vivido realismo utilizzato) a quello del documentario piuttosto che al racconto di fiction. La camera e il cinema, dunque, si allontanano da quell’illusione di realtà tipica della cinematografia classica per avvicinarsi, piuttosto, all’idea di cinema di precursori come Samuel Fuller - protagonista anche di un cameo in Pierrot Le Fou (Il bandito delle 11, 1965) - o Nicholas Ray.
Una Rivoluzione, che, nel film Le Mépris (Il Disprezzo, 1963) - con protagonista un’icona quale Brigitte Bardot, mai più così dolente sullo schermo - investe il cinema stesso in modo secco e diretto, portando allo scoperto l’influenza di una figura importantissima come quella del regista/autore. Le Mépris è l’esempio più lampante di come il nuovo cinema possa influenzare il vecchio, ripescando da modelli consolidati - quali quelli della tragedia greca - per assurgere ad un racconto con un formato pressoché universale. Quello che si apre davanti alla macchina da presa, piuttosto, è un gioco di sguardi che mira a terremotare dall’interno l’ambiente borghese, vivisezionandolo e mettendone in evidenza tutte le ambiguità relazionali, espressioni di un cambiamento necessario, che passa anche, e soprattutto, dal fallimento della convivenza matrimoniale.
In questo senso, si nota il contributo di un altro grande osservatore critico della società come Alberto Moravia, autore del romanzo a cui Godard si ispira per il suo film, abile a scandagliare l’ambiente circostante e a rendere manifesta una rivoluzione che, se non perseguita, può portare solamente dolore e tristezza. La ripetizione in cui precipitano i personaggi di Le Mépris è irreversibile e può essere spezzata solamente dall’estetica e dalla forma, che qui riparte dall’uso dei colori primari (poi oggetto di radicalizzazione nelle opere seguenti) e, soprattutto, rivoluziona il classico formato campo/controcampo negandolo. Nei dialoghi, infatti, assistiamo ad un uso fluido del piano sequenza che oscilla da protagonista a protagonista in funzione del parlato e che delinea una sorta di loop temporale all’interno del quale tutti i personaggi si muovono. Loop che risulta poi spezzato solamente dai jump-cut e dal linguaggio extradiegetico, sia nell’incipit che nel finale, rappresentazione della morte delle aspirazioni borghesi e simbolo dell’arte, rappresentata dal mitico regista tedesco Fritz Lang, che prevale sul capitalismo e sui compromessi commerciali del personaggio interpretato da Michel Piccoli. Un finale che spiega benissimo l’ideale di opposizione e di resistenza che la Settima Arte, nell’ottica purista e anti-capitalista di Jean-Luc Godard, ha nei confronti del denaro.
La Rivoluzione nel cinema, per Godard, equivale ad un atto d’amore struggente, ad un impegno che è prima di tutto umano e che, soprattutto, non può più prescindere dalla presenza dell’autore. Non è un caso che, proprio dopo l'avvento del 68, il regista litigò pesantemente con il collega e amico François Truffaut. Nell’ottica godardiana, il ruolo dell’autore si può facilmente ascrivere ad una presa di posizione che rispecchia tutti i binari e le fattezze del conservatorismo cinematografico. A suo dire, l’intento di rivoluzionare il sistema dal suo interno è praticamente inattuabile, in quanto si finisce presto per diventare “carne da macello” della stessa “macchina” cinematografica.
Proprio per questo, dopo aver raccontato la “sua” Rivoluzione, averla foraggiata a suo modo e averne espiato gli argomenti dal punto di vista formale, giunse il momento per il cineasta di equiparare narrativa e tecnica, portandole entrambe ad un livello di avanguardia e rottura non solo nei confronti del tradizionalismo, ma addirittura nei confronti degli equivoci dei nuovi movimenti sorti in tutto il mondo (la New Hollywood e il New American Cinema negli USA, la Nuberu Bagu in Giappone, il Free Cinema nel Regno Unito e il Neuer Deutscher Film in Germania). Da qui si ha un cambio nuovamente radicale all’interno del pensiero di Godard, fatto di un ampliamento della sperimentazione su immagini e sonoro e sul rapporto che intercorre tra di loro.
Dopo la nascita del Gruppo Dziga Vertov, il regista dà alla luce alcuni dei suoi prodotti meno intercettabili dal pubblico, come Le Vent D’Est (Vento dell'est, 1969), Le Gai Savoir (La gaia scienza, 1969) e soprattutto Tout Va Bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972), pamphlet esplicitamente operaio che ha come obiettivo, molto ambizioso, quello di indagare la sorte degli intellettuali dopo la Rivoluzione del 1968. Tout Va Bien è un vero e proprio innesto nella realtà del post-Sessantotto, un viaggio in cui il cineasta francese comunica quanto sia essenziale mettersi a contatto con la società dei consumi per comprenderla meglio. Dopo la satira toccata con Weekend (Una donna e un uomo da sabato a domenica, 1967), dunque, c’è la necessità e l’urgenza di toccare con mano quello che è il mondo del 1972, la realtà che si è formata dopo i venti rivoluzionari e che, per forza di cose, porta la forma cinematografica a sperimentare nuovamente e a cambiare binario.
Rispetto a quanto messo in evidenza finora, l’afflato politico è molto più caricato e pesante, e ciò non giova alla narrazione, eccessiva e molto più cervellotica rispetto al passato. Risalta, però, il lavoro che Godard effettua sull’immagine per vivisezionare la società. Anche una semplice intervista è resa in modo artistico, tramite un uso sfaccettato dei primi piani di Jane Fonda e Yves Montand, veri e propri volti lacerati da una Rivoluzione fallita ormai facenti parte dei "consumer". Anche il formato delle interviste è meccanico, e mette in evidenza gli effetti nocivi di un tentativo di cambiamento completamente fallito. Per questo motivo, Godard si limita a girare in modo molto classicheggiante, come un entomologo, spiando con carrelli laterali e campi fissi le fabbriche, simbolo per eccellenza del lavoro industriale e dello sfruttamento degli operai, colorate per l'occasione tramite la classica ricerca sui colori primari che il regista ha sempre operato e che qui, però, si inverte di senso, esaltando l’anonimato di una realtà che ingrigisce anche la vita emotivo/relazionale, in particolare quella legata ai vincoli del matrimonio.
L’establishment di sinistra subisce, dunque, un duro colpo da uno dei suoi più grandi sostenitori. Godard si trasforma in un personaggio tradito dai suoi ideali, che accusa il suo stesso pubblico e non transige sull’evoluzione a cui il proletariato è andato incontro. Tout Va Bien, nell’ottica del cineasta francese, rappresenta la fine definitiva dell’attivismo e il suo ritiro dal cinema politico, preferendo piuttosto aprire un nuovo capitolo: quello legato alla sperimentazione sull’immagine e alle possibilità multimediali della tecnologia analogica prima e digitale poi, soprattutto negli anni più vicini alla contemporaneità. La rivoluzione, tanto inseguita negli anni precedenti, cambia il suo campo d’interesse, ma è sempre viva e vegeta, e questa volta si rivale tutta sul linguaggio cinematografico e sull’esplorazione delle sue possibilità. Proprio grazie a questo cambiamento nasce Adieu Au Langage (Addio al linguaggio, 2014), primo film che l'autore realizza con la tecnologia 3D.
Un film che è forse la rappresentazione più concreta di un regista che ha sempre teorizzato la distruzione come atto per creare materia nuova da plasmare, come rivoluzione di tutte le convenzioni possibili. Il linguaggio, nella pellicola del 2014, non è più un collante universale, non è più adibito a potere unificatore, non è più un mezzo che accomuna, quanto piuttosto un mezzo che si occupa di dividere l’umanità. Il cineasta della Nouvelle Vague ne identifica l’attitudine completamente separatoria, evidenziando il suo ruolo nel contemporaneo, in cui ha perso ogni funzionalità. Adieu Au Langage, sotto questo punto di vista, è l’astrazione suprema e la continuazione più naturale del lavoro godardiano degli ultimi venticinque anni, passati a scardinare non più le convenzioni narrative e tecniche, quanto quelle legate al dispositivo cinematografico e, di conseguenza, alla grammatica. Proprio in virtù di questo, in questo atto semi-terminale del suo cinema c’è ancora spazio per opportunità inedite, possibilità filmiche mai viste basate completamente sulla visualità e sul suo ruolo predominante nel contemporaneo.
L’immagine è, infatti, l’unica materia che permette allo spettatore di assumere e di formare un proprio pensiero critico, uno spirito interpretativo che lo spinga a non fermarsi, come il post-moderno insegna, al mero accumulo di semplici significanti, quanto piuttosto ad andare oltre e creare/fornire una nuova semantica dell’immagine, che non ha bisogno di un senso effettivo quanto, piuttosto, di uno spettatore che possa continuare la sua “lotta” nel tentativo di diventare partecipe di questo atto di morte e rinascita - che si può identificare come un vero e proprio ciclo vitale del dispositivo cinematografico nell’epoca contemporanea, nonché il modo (forse l’unico) di poter intendere la Settima Arte al giorno d’oggi.
Allora, forse, il cinema per Godard non è mai stato un semplice mezzo d’intrattenimento, ma piuttosto una lotta. Lotta politica, lotta all’autore, lotta ai dogmi e lotta ai linguaggi. Più semplicemente: cinema contro il cinema.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere Fino all’ultimo respiro, Il Disprezzo, Crepa padrone, tutto va bene e Addio al linguaggio e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.