di Luca Romani
NC-258
07.12.2024
L’horror, nel contesto cinematografico italiano, si è sicuramente sviluppato in maniera maggiormente tardiva rispetto al resto del mondo. Il nostro cinema ha cominciato ad aprire le porte a questo genere solamente sul finire degli anni '50, prima di allora la produzione italiana si teneva ben lontana dalla rappresentazione del soprannaturale e del tetro. Il primo film horror nostrano fu I Vampiri (1957), per la regia di Riccardo Freda, un’opera che permise al genere di andare incontro ad un periodo di copiosa produzione, dando vita al cosiddetto “decennio d'oro del gotico”. Diversi furono i registi che si cimentarono in questa nuova avventura: nella cerchia degli esponenti non possono assolutamente mancare Antonio Margheriti, autore del celebre Danza macabra (1964) e I lunghi capelli della morte (1964), Renato Polselli con il suo L'amante del vampiro (1960), Luciano Ricci e Lorenzo Sabatini, fautori di Il castello dei morti vivi (1964), e Massimo Pupillo con Il boia scarlatto (1965).
Oltre a questi nomi illustri, spicca un regista tanto fondamentale nello sviluppo della settima arte, quanto ingiustamente dimenticato dai più: Mario Bava. Descrivere l’operato di Bava è una questione assai complessa. La sua ecletticità artistica ci ha regalato perle in ogni genere: horror, thriller, noir e persino fantasy. In ogni sua prova, Bava si è distinto per aver cambiato le regole del gioco e, in molti casi, per averle create. Questo autore unico ha prodotto immaginari rimasti iconici nella cultura cinematografica, rappresentando una fonte dalla quale hanno attinto in moltissimi, chi più intellettualmente onesto da ammetterlo e chi meno..
Le pagine di storia spesso celano i precursori, figure chiave dimenticate a sacrificio di un bene superiore. Come una florida e potente dinastia, il cinema continua a prosperare, lanciando rapide occhiate a un impolverato quadro raffigurante il capostipite della stirpe, ormai finito nell’oblio. Così Mario Bava viene ricordato dai cinefili di tutto il mondo: un titanico precursore che vive ancora oggi nelle opere di autori iconici del cinema contemporaneo come Ridley Scott, Quentin Tarantino, John Carpenter o Tim Burton.
La sensibilità artistica è sempre stata di casa. Il regista nacque nel 1914 a San Remo, tra cinema e magia, figlio di Eugenio Bava, direttore della fotografia del rivoluzionario Cabiria (1914) e pioniere degli effetti speciali in territorio nostrano. Bava manifestò già in tenera età una notevolissima abilità pittorica e, condizionato dal contesto artistico in cui crebbe, imparò i trucchi del padre, che si riveleranno poi di cruciale importanza nelle creazione delle sue opere. Fu proprio grazie al genitore che il giovane Mario cominciò ad intraprendere la strada del cinema, aiutandolo nella sottotitolazione e nella creazione dei titoli di apertura e chiusura di alcune pellicole mute.
L’anno di svolta arrivò però nel 1939, quando il venticinquenne Bava si trovò a lavorare a stretto contatto, come operatore cinematografico, con Roberto Rossellini. Nei successivi sette anni apprese i segreti del set, immergendosi totalmente nella produzione cinematografica e dando vita a una serie di documentari. La maestria nella conduzione della macchina da presa lo rese presto ambito da molte case di produzione. Bava apportò diverse novità attraverso il suo particolare stile di montaggio e nei suoi netti, e destabilizzanti, movimenti di camera, che rendevano la dinamicità centrale nei suoi primi girati. I suoi lavori di gioventù, ricchi di cambiamenti di ritmo e colmi di varietà, riuscivano brillantemente a mantenere alta la concentrazione dello spettatore per tutta la durata del girato.
Centrale nella rivoluzione cinematografica apportata dal cineasta è la messa in scena degli effetti speciali, concreti e assolutamente credibili, capostipiti di un immaginario che tutt'ora permea l'horror e il gotico. In men che non si dica Bava fece passi da gigante, passando al ruolo di assistente regista per Riccardo Freda, con cui prese parte al già citato I vampiri. Come per un volere superiore che traccia i misteriosi sentieri dei grandi, Freda ebbe un diverbio con la produzione che lo allontanò dal set, e fu così che Bava venne incaricato di ultimare l'opera. Proprio grazie alla fama giunta da I vampiri, il cineasta riuscì a racimolare un piccolo budget per girare il film che, al pari delle opere titaniche di stampo surrealista dei primi anni '10 e '20, rappresenta la sublimazione dell'horror: La maschera del demonio (1960).
La maschera del demonio trascende il cinema, travolgendo il pubblico con uno scenario gotico che farà scuola nelle decadi successive. Risulta incredibile dover raccontare la quantità di soluzioni di messa in scena ideate da Bava, ed è sufficiente una sola visione del lungometraggio per rendersi conto di quanto il cinema gli sia debitore. La pellicola è interamente permeata da un carattere gotico/grottesco, dalle suggestive e inquietanti scenografie fino alla meravigliosa fotografia, grave e marcata, madre dell'horror. Non c'è luce che Bava non sapesse valorizzare al meglio. Nelle sequenze di maggior tensione il buio rappresenta un vero e proprio personaggio, avvalendosi del geniale espediente del non mostrare, poiché sarà la personale immaginazione dello spettatore a osservare i propri demoni sorgere dalle ombre.
Contrasti netti tra bianchi e neri dipingono scenari dolci e sgraziati, raffinati e eccessivi, consacrando l'estro creativo di Bava in un capolavoro che, tutt'ora, detta i tempi narrativi di un genere. Apertura d'impatto, promesse di vendetta e successiva profanazione di un luogo sacro. Intreccio tra concreto e astratto, scientifico e superstizioso, colpi di scena e suspance per una risoluzione romantica. John Carpenter ammise di essersi ispirato a quest'opera durante la realizzazione di Halloween (1978), infatti diversi momenti in cui è presente in scena il celeberrimo killer Michael Myers sono ripresi quasi integralmente dal capolavoro di Bava, emblematica su tutti la sequenza più iconica del cult: l'omicidio di Bob per mano di Myers.
La costruzione della scena è un grande omaggio al cineasta italiano: movimenti di camera che pedinano Bob e insistenti rumori ambientali (Bava utilizzava molto spesso il vento) che insospettiscono il malcapitato, vittima di una minaccia nascosta e palpabile. Myers stanzia dietro una porta attendendo che l’uomo (e lo spettatore) plachi i suoi sospetti, cogliendolo di sorpresa in un immagine indelebile:Bob inchiodato al muro dalla lama di Myers.
L'intera filmografia di Tim Burton, ad esempio, è un gigantesco omaggio al “gotico Baviano”, pregna di citazioni evidenti, che troviamo fino al recente Beetlejuice Beetlejuice (2024). In un dialogo si fa riferimento a Operazione Paura (1966) di Bava e una sequenza del film viene totalmente ripresa da La maschera del demonio. Nella scena proposta da Barton vediamo il protagonista antieroe Beetlejuice (Michael Keaton) raccontare come ha conosciuto e ucciso la sua ex moglie Delores (Monica Bellucci), riprendendo la fotografia e l'atmosfera surrealista del fondatore dell’horror italiano. Non a caso, fu proprio durante una conferenza a Roma per promuovere il suo capolavoro Sleepy Hollow (Il mistero di Sleepy Hollow, 1999), pellicola di assoluto citazionismo verso il cineasta di San Remo, che Burton confessò il suo amore per la filmografia Baviana.
Anche i successivi lavori di Bava hanno innegabilmente segnato il cinema contemporaneo, insidiandosi nell'immaginario collettivo del pubblico mainstream. Il concetto di magia cinematografica come rappresentazione di un mondo illusorio proiettato sullo schermo prende letteralmente vita nelle sue opere. La domanda che sorge spontanea è solamente una: come è possibile realizzare una messa in scena così forte e impattante con un budget misero? La risposta non esiste, sarebbe come svelare il trucco di un mago o scoprire la risposta ad un rompicapo mostruosamente complesso. Ciò che conta è la concretezza del suo operato, Bava riusciva con quasi nulla a mettere in scena ambienti e atmosfere indiscutibilmente credibili grazie a una maniacale perizia per i dettagli. Questo è il ruolo dell'autore, trovare qualunque espediente possibile per liberare la propria genialità.
Considerato da molti come la vera punta di diamante nella carriera del regista, Sei donne per l'assassino (1964) crea uno spartiacque ideologico sulla figura dell'horror maniac italiano. In molti, erroneamente, pensano che la paternità dell'assassino seriale del cinema nostrano risalga a Dario Argento, non considerando l'influenza incredibile che ha esercitato circa otto anni prima la pellicola di Bava. Per la prima volta l'horror non dà molta importanza alla scrittura di una trama, il cinema si tramuta in forma stilistica, creando una tipologia di film che successivamente verrà battezzata slasher, dove lo sviluppo della storia è solamente un pretesto per mostrare l'efferatezza degli omicidi.
L'iconografia cult dell'horror maniac prende forma proprio in questa pellicola: cappello nero, cappotto ingombrante tirato a lucido e volto mascherato, una miscela di elementi che, se combinati l'uno con l'altro, danno vita al costume di un grottesco e imponente assassino. Solo da questa descrizione, risulta lampante la derivatività dei killer di Argento, brillante allievo di una scuola di registi creata proprio da Bava.
Sei donne per l'assassino fu di cruciale importanza anche nella creazione di un altro personaggio simbolo dell'horror: il Freddy Krueger di Nightmare On Elm Street (Nightmare, 1984). Wes Craven si ispirò all'efferatezza dell'assassino senza volto e rubò due parti del suo costume: il cappello (riutilizzato per Freddy) e l'iconico guanto ferrato. La prima apparizione di questo oggetto sacro nel mondo dell'horror si trova proprio nel lungometraggio di Bava, durante il cruento omicidio di una donna. Craven ripropone questa scena in salsa maggiormente evocativa tramite l'utilizzo del controluce, rivelando al mondo, per la prima volta, la figura di Krueger.
Sei donne per l'assassino rappresenta una tessera di infinita rilevanza nel puzzle del thriller all'italiana, con una potenza grafica che non arretra di un centimetro persino a sessant'anni dalla sua uscita. Il ritmo e il modo di raccontare risultano estremamente moderni, e vengono spalleggiati da un montaggio serrato e mai fuori posto. Bava crea un nuovo modo di fruire il thriller, ponendo la sceneggiatura a servizio della messa in scena e disinteressando il pubblico alla risoluzione del caso, poiché rapito dalla crudeltà degli omicidi. Questa formula è costantemente ripresa dal cinema moderno, ultima su tutti la trilogia Terrifier (2016-2024) di Damien Leone, dove la trama non contiene spunti di riflessione o denuncia sociale, rivelandosi uno strumento che adopera le uccisioni come “dispositivo d’impatto” sullo spettatore.
Per onestà intellettuale, bisogna riportare una scuola di pensiero (accreditata da alcuni critici italiani) secondo la quale sarebbe un altro lungometraggio del regista ad aver generato lo slasher, ovvero Reazione a Catena (1971). Il mistero rimane, ma che sia l'uno o l'altro film il risultato resta invariato: in entrambi i casi Bava si afferma come padre del genere.
Venerdì 13 (1980), per la regia di Sean S. Cunningham, risulta una copia quasi speculare di Reazione a catena, tanto da sembrare un fan film poco ispirato e girato senza la mano di un autore. Spesso il destino ha giocato strani scherzi a Bava, genio incompreso dalla critica del tempo, ingiustamente considerato solamente come un abile tecnico della fotografia.
Il maestro Ridley Scott, attualmente nelle sale cinematografiche con Gladiator 2 (Il Gladiatore 2), deve tutto a Terrore nello spazio (1965) di Bava, lungometraggio creatore di ambientazioni fantascientifiche girato quattordici anni prima del suo Alien (1979). La sceneggiatura è molto semplice (ma fantastica nella sua schiettezza) e segue le vicende di un gruppo di astronauti dirottati su un pianeta sconosciuto e costretti a dover fronteggiare una specie aliena che, tramite dei parassiti, si impossessa del corpo umano.
Le comparazioni con il cult di Scott e The Thing (La cosa, 1982) di John Carpenter, pietre miliari del genere, vengono da sé. Nel primo caso c'è del citazionismo puro da parte di Scott, che, anche attraverso la messa in scena, rievoca prepotentemente Terrore nello spazio, specialmente nella sua iconografia. Molti elementi, dalla caratterizzazione del set dell’astronave fino alla fotografia, le luci e i movimenti di camera, sono (sot)tratti dall’opera del 1965.
Analizzando la figura dello Xenomorfo, mostruoso alieno e minaccia del film, si nota l'ennesimo richiamo al regista italiano.
In Alien lo Xenomorfo rappresenta la forma di vita perfetta, indistruttibile e instancabile, pronto a uccidere qualsiasi cosa ostacoli il suo scopo di riprodursi. Il processo di creazione dello Xenomorfo avviene tramite una forma di vita aliena, il così detto "Face Hugger", in grado di parassitare l'essere umano e far nascere al suo interno un piccolo mostro.
InTerrore nello spazio un gruppo di astronauti atterra su un pianeta ostile e sconosciuto, abitato da una forma di vita aliena che per riprodursi e sopravvivere ha bisogno di parassitare l'uomo per poterne controllare le azioni. Nonostante la diversità delle creature in questione, non si può fare a meno di riscontrare una certa corrispondenza.
Nel caso di Carpenter, l’opera di Bava è stata di evidente ispirazione nell’ideazione diThe Thing , dove un mutante alieno è in grado di prendere le sembianze delle forme di vita dopo averle assimilate.
Gli esempi sono molteplici, e arrivano fino alla cinematografia di Quentin Tarantino, fortemente ispirata da Bava, specialmente Reservoir Dogs (Le iene, 1992), pellicola thriller crime fortemente derivativa di Cani Arrabbiati (1974).
I due film hanno moltissimi elementi in comune, dalla messa in scena ai tempi narrativi, passando per personaggi estremamente simili tra loro fino alla risoluzione dell'intreccio finale. Cani Arrabbiati racconta le vicende di quattro criminali durante una rapina finita nel sangue. Il film di Bava era di una crudeltà sconvolgente per l'epoca, brutale,violento e di forte impattando sulla sensibilità dello spettatore. L'opera criticava le dinamiche del machismo, condannando la crudeltà degli uomini, che sembrano quasi incarnare una spirale infinita di violenza e disumanità.
La potenza fotografica di Bava qui risulta più semplice, dando il meglio di sè in una sequenza interamente giocata in un tunnel. La messa in scena si avvale di inquadrature strettissime, soprattutto primissimi piani dei personaggi, e crea un clima di tensione concreta.
Inoltre, la maggior parte della pellicola si svolge in macchina, e adopera l'attaccamento dei corpi dei personaggi per produrre una visione claustrofobica che suscita un grande stato di ansia in chi osserva. Le comparazioni con Tarantino sono diverse: le scene ambientate nelle vetture in Reservoir Dogs hanno una certa corrispondenza con Cani Arrabbiati, in similitudini contestuali e movimenti di macchina da presa. Risulta alla luce del sole l'affinità tra le due trame e tra i personaggi primari. Per atteggiamenti e caratterizzazione "Bisturi" (interpretato da Don Backy) nel film di Bava è accostabile a Mr.Blonde (Michael Madsen), rappresentando, in entrambi i casi, il cane sciolto impossibile da controllare. Inoltre Tarantino riprenderà un monologo di Bisturi per riadattarlo nella scena più rappresentativa di Reservoir Dogs: la tortura di Marvin Nash (Kirk Baltz).
L'ennesimo riferimento all'opera di Bava lo troviamo nel modo che hanno alcuni personaggi di reagire alle intemperie, riprendiamo in causa Bisturi e la morte del suo amico e compagno "Trentadue" (George Eastman) e confrontiamolo con la sparatoria in cui rimane mortalmente ferito Mr. Orange (Tim Roth):
In Cani Arrabbiati,Trentadue viene ucciso dal capo banda "Dottore" durante un tentato stupro. Successivamente Bisturi metterà in dubbio la lealtà di Dottore, finendo per delirare in un disperato tentativo di far rinvenire il "malcapitato" rimasto ucciso. In questa sequenza Bisturi cerca di tranquillizzare il compagno in maniera puerilmente tragicomica.
In Le iene, Mr.Orange rimane ferito gravemente in seguito a una rapina disastrosa, scappa in macchina insieme al leader della banda Mr.White (Harvey Keitel) verso un rifugio prestabilito in caso qualcosa andasse storto. I discorsi, le movenze e persino l'espressività di Mr.White sono identiche a quelle di Bisturi in Cani Arrabbiati.
Riassumendo in poche parole: Mario Bava ha fortemente influenzato Tarantino, gettando i semi della sua cultura pulp vent'anni prima del suo debutto, e suggerendo intrecci narrativi e risoluzioni delle macro trame che spesso sfociano in massacri. Gran parte della filosofia Tarantiniana è debitrice nei confronti dell'operato di Bava.
I richiami a Bava sono infiniti anche in altri autori, tanto per citarne uno Sam Raimi in The Evil Dead (La casa,1981) e in Army of Darkness (L'armata delle tenebre, 1992), due dei film più importanti nella filmografia del cineasta di Royal Oak. Bava, in Ercole al centro della terra (1961), è il primo a fondere un film di avventura tradizionale con sentori horror e splatter. Fondamentale in Ercole al centro della terra è l'ironia Baviana, non riposta tanto nelle battute quanto nella messa in scena. Ancora una volta il cineasta riesce a creare un immaginario credibile con un budget estremamente misero per l'epoca, figuriamoci metterlo in relazione alle produzioni moderne.
Scenografia e fotografia, come al solito in stato di grazia, traghettano lo spettatore in un lungometraggio che, pur non essendo un capolavoro, risulta godibile e, per l’epoca, estremamente avanguardistico. Raimi riprenderà tutto di questo film per realizzare proprio Army of Darkness, ricreando, in tutto e per tutto, le ambientazioni ideate da Bava: narrazione, costruzione della trama e persino l'estetica dei mostri in scena, una ri-proposta statunitense dell'ironia gotica della messa in scena Baviana.
Tra le opere di Bava degne di nota non può assolutamente mancare La ragazza che sapeva troppo (1963), pellicola che, seppur di natura chiaramente derivativa dall’opera di Alfred Hitchcock, contribuirà enormemente a definire i parametri del giallo all'italiana grazie ai suoi tagli di inquadratura e al sapiente utilizzo delle soggettive, successivamente riprese da chiunque si cimentasse nella realizzazione di un film di questo tipo.
I tre volti della paura (1963), conosciuto all'estero con il nome di Black Sabath , si sviluppa invece in una divisione della trama in 3 micro storie che rispecchiano pienamente la visione dell'horror per Bava: thriller, fantastico gotico e racconti di fantasmi. Fu grazie a I tre volti della paura che il cineasta venne riconosciuto come un maestro del macabro fuori dai confini italiani.
Bava non potrà mai essere sostituito o emulato, un genio che ha abbracciato il classico fato dei visionari: l'incomprensione da parte degli uomini del loro tempo.
Tutta l'erronea “visione italiana” nei suoi confronti si può riscontrare in un'intervista per Rai 3 da parte del conduttore Luciano Rispoli, che mentre pone delle domande al regista lo tratta come un semplice ingegnere degli effetti speciali, non rendendosi minimamente conto del gigante seduto dinanzi a sè. Un uomo che ha ideato l'immaginario alla base del cinema moderno, costruendo, mattone dopo mattone, un'inscalfibile colonna portante sopra la quale si ergono grandi figure cinematografiche del cinema contemporaneo.
Sotterrare gli apripista smarriti nell'immensità del tempo è purtroppo vizio antropologico dell'uomo moderno, che, incline a rifiutare “il vecchio”, limita il proprio sguardo esclusivamente verso “il nuovo”, così Mario Bava si è perso nella memoria collettiva. Ma, nonostante tutto, questo immenso autore dimenticato vive in ogni inquadratura, rappresentazione gotica e opera horror moderna. Emblematiche sono le parole di Martin Scorsese nei suoi riguardi: "Adoro i film di Bava, soprattutto per la loro atmosfera onirica, sembra cinema allo stato puro: un sogno, un’allucinazione”.
di Luca Romani
NC-258
07.12.2024
L’horror, nel contesto cinematografico italiano, si è sicuramente sviluppato in maniera maggiormente tardiva rispetto al resto del mondo. Il nostro cinema ha cominciato ad aprire le porte a questo genere solamente sul finire degli anni '50, prima di allora la produzione italiana si teneva ben lontana dalla rappresentazione del soprannaturale e del tetro. Il primo film horror nostrano fu I Vampiri (1957), per la regia di Riccardo Freda, un’opera che permise al genere di andare incontro ad un periodo di copiosa produzione, dando vita al cosiddetto “decennio d'oro del gotico”. Diversi furono i registi che si cimentarono in questa nuova avventura: nella cerchia degli esponenti non possono assolutamente mancare Antonio Margheriti, autore del celebre Danza macabra (1964) e I lunghi capelli della morte (1964), Renato Polselli con il suo L'amante del vampiro (1960), Luciano Ricci e Lorenzo Sabatini, fautori di Il castello dei morti vivi (1964), e Massimo Pupillo con Il boia scarlatto (1965).
Oltre a questi nomi illustri, spicca un regista tanto fondamentale nello sviluppo della settima arte, quanto ingiustamente dimenticato dai più: Mario Bava. Descrivere l’operato di Bava è una questione assai complessa. La sua ecletticità artistica ci ha regalato perle in ogni genere: horror, thriller, noir e persino fantasy. In ogni sua prova, Bava si è distinto per aver cambiato le regole del gioco e, in molti casi, per averle create. Questo autore unico ha prodotto immaginari rimasti iconici nella cultura cinematografica, rappresentando una fonte dalla quale hanno attinto in moltissimi, chi più intellettualmente onesto da ammetterlo e chi meno..
Le pagine di storia spesso celano i precursori, figure chiave dimenticate a sacrificio di un bene superiore. Come una florida e potente dinastia, il cinema continua a prosperare, lanciando rapide occhiate a un impolverato quadro raffigurante il capostipite della stirpe, ormai finito nell’oblio. Così Mario Bava viene ricordato dai cinefili di tutto il mondo: un titanico precursore che vive ancora oggi nelle opere di autori iconici del cinema contemporaneo come Ridley Scott, Quentin Tarantino, John Carpenter o Tim Burton.
La sensibilità artistica è sempre stata di casa. Il regista nacque nel 1914 a San Remo, tra cinema e magia, figlio di Eugenio Bava, direttore della fotografia del rivoluzionario Cabiria (1914) e pioniere degli effetti speciali in territorio nostrano. Bava manifestò già in tenera età una notevolissima abilità pittorica e, condizionato dal contesto artistico in cui crebbe, imparò i trucchi del padre, che si riveleranno poi di cruciale importanza nelle creazione delle sue opere. Fu proprio grazie al genitore che il giovane Mario cominciò ad intraprendere la strada del cinema, aiutandolo nella sottotitolazione e nella creazione dei titoli di apertura e chiusura di alcune pellicole mute.
L’anno di svolta arrivò però nel 1939, quando il venticinquenne Bava si trovò a lavorare a stretto contatto, come operatore cinematografico, con Roberto Rossellini. Nei successivi sette anni apprese i segreti del set, immergendosi totalmente nella produzione cinematografica e dando vita a una serie di documentari. La maestria nella conduzione della macchina da presa lo rese presto ambito da molte case di produzione. Bava apportò diverse novità attraverso il suo particolare stile di montaggio e nei suoi netti, e destabilizzanti, movimenti di camera, che rendevano la dinamicità centrale nei suoi primi girati. I suoi lavori di gioventù, ricchi di cambiamenti di ritmo e colmi di varietà, riuscivano brillantemente a mantenere alta la concentrazione dello spettatore per tutta la durata del girato.
Centrale nella rivoluzione cinematografica apportata dal cineasta è la messa in scena degli effetti speciali, concreti e assolutamente credibili, capostipiti di un immaginario che tutt'ora permea l'horror e il gotico. In men che non si dica Bava fece passi da gigante, passando al ruolo di assistente regista per Riccardo Freda, con cui prese parte al già citato I vampiri. Come per un volere superiore che traccia i misteriosi sentieri dei grandi, Freda ebbe un diverbio con la produzione che lo allontanò dal set, e fu così che Bava venne incaricato di ultimare l'opera. Proprio grazie alla fama giunta da I vampiri, il cineasta riuscì a racimolare un piccolo budget per girare il film che, al pari delle opere titaniche di stampo surrealista dei primi anni '10 e '20, rappresenta la sublimazione dell'horror: La maschera del demonio (1960).
La maschera del demonio trascende il cinema, travolgendo il pubblico con uno scenario gotico che farà scuola nelle decadi successive. Risulta incredibile dover raccontare la quantità di soluzioni di messa in scena ideate da Bava, ed è sufficiente una sola visione del lungometraggio per rendersi conto di quanto il cinema gli sia debitore. La pellicola è interamente permeata da un carattere gotico/grottesco, dalle suggestive e inquietanti scenografie fino alla meravigliosa fotografia, grave e marcata, madre dell'horror. Non c'è luce che Bava non sapesse valorizzare al meglio. Nelle sequenze di maggior tensione il buio rappresenta un vero e proprio personaggio, avvalendosi del geniale espediente del non mostrare, poiché sarà la personale immaginazione dello spettatore a osservare i propri demoni sorgere dalle ombre.
Contrasti netti tra bianchi e neri dipingono scenari dolci e sgraziati, raffinati e eccessivi, consacrando l'estro creativo di Bava in un capolavoro che, tutt'ora, detta i tempi narrativi di un genere. Apertura d'impatto, promesse di vendetta e successiva profanazione di un luogo sacro. Intreccio tra concreto e astratto, scientifico e superstizioso, colpi di scena e suspance per una risoluzione romantica. John Carpenter ammise di essersi ispirato a quest'opera durante la realizzazione di Halloween (1978), infatti diversi momenti in cui è presente in scena il celeberrimo killer Michael Myers sono ripresi quasi integralmente dal capolavoro di Bava, emblematica su tutti la sequenza più iconica del cult: l'omicidio di Bob per mano di Myers.
La costruzione della scena è un grande omaggio al cineasta italiano: movimenti di camera che pedinano Bob e insistenti rumori ambientali (Bava utilizzava molto spesso il vento) che insospettiscono il malcapitato, vittima di una minaccia nascosta e palpabile. Myers stanzia dietro una porta attendendo che l’uomo (e lo spettatore) plachi i suoi sospetti, cogliendolo di sorpresa in un immagine indelebile:Bob inchiodato al muro dalla lama di Myers.
L'intera filmografia di Tim Burton, ad esempio, è un gigantesco omaggio al “gotico Baviano”, pregna di citazioni evidenti, che troviamo fino al recente Beetlejuice Beetlejuice (2024). In un dialogo si fa riferimento a Operazione Paura (1966) di Bava e una sequenza del film viene totalmente ripresa da La maschera del demonio. Nella scena proposta da Barton vediamo il protagonista antieroe Beetlejuice (Michael Keaton) raccontare come ha conosciuto e ucciso la sua ex moglie Delores (Monica Bellucci), riprendendo la fotografia e l'atmosfera surrealista del fondatore dell’horror italiano. Non a caso, fu proprio durante una conferenza a Roma per promuovere il suo capolavoro Sleepy Hollow (Il mistero di Sleepy Hollow, 1999), pellicola di assoluto citazionismo verso il cineasta di San Remo, che Burton confessò il suo amore per la filmografia Baviana.
Anche i successivi lavori di Bava hanno innegabilmente segnato il cinema contemporaneo, insidiandosi nell'immaginario collettivo del pubblico mainstream. Il concetto di magia cinematografica come rappresentazione di un mondo illusorio proiettato sullo schermo prende letteralmente vita nelle sue opere. La domanda che sorge spontanea è solamente una: come è possibile realizzare una messa in scena così forte e impattante con un budget misero? La risposta non esiste, sarebbe come svelare il trucco di un mago o scoprire la risposta ad un rompicapo mostruosamente complesso. Ciò che conta è la concretezza del suo operato, Bava riusciva con quasi nulla a mettere in scena ambienti e atmosfere indiscutibilmente credibili grazie a una maniacale perizia per i dettagli. Questo è il ruolo dell'autore, trovare qualunque espediente possibile per liberare la propria genialità.
Considerato da molti come la vera punta di diamante nella carriera del regista, Sei donne per l'assassino (1964) crea uno spartiacque ideologico sulla figura dell'horror maniac italiano. In molti, erroneamente, pensano che la paternità dell'assassino seriale del cinema nostrano risalga a Dario Argento, non considerando l'influenza incredibile che ha esercitato circa otto anni prima la pellicola di Bava. Per la prima volta l'horror non dà molta importanza alla scrittura di una trama, il cinema si tramuta in forma stilistica, creando una tipologia di film che successivamente verrà battezzata slasher, dove lo sviluppo della storia è solamente un pretesto per mostrare l'efferatezza degli omicidi.
L'iconografia cult dell'horror maniac prende forma proprio in questa pellicola: cappello nero, cappotto ingombrante tirato a lucido e volto mascherato, una miscela di elementi che, se combinati l'uno con l'altro, danno vita al costume di un grottesco e imponente assassino. Solo da questa descrizione, risulta lampante la derivatività dei killer di Argento, brillante allievo di una scuola di registi creata proprio da Bava.
Sei donne per l'assassino fu di cruciale importanza anche nella creazione di un altro personaggio simbolo dell'horror: il Freddy Krueger di Nightmare On Elm Street (Nightmare, 1984). Wes Craven si ispirò all'efferatezza dell'assassino senza volto e rubò due parti del suo costume: il cappello (riutilizzato per Freddy) e l'iconico guanto ferrato. La prima apparizione di questo oggetto sacro nel mondo dell'horror si trova proprio nel lungometraggio di Bava, durante il cruento omicidio di una donna. Craven ripropone questa scena in salsa maggiormente evocativa tramite l'utilizzo del controluce, rivelando al mondo, per la prima volta, la figura di Krueger.
Sei donne per l'assassino rappresenta una tessera di infinita rilevanza nel puzzle del thriller all'italiana, con una potenza grafica che non arretra di un centimetro persino a sessant'anni dalla sua uscita. Il ritmo e il modo di raccontare risultano estremamente moderni, e vengono spalleggiati da un montaggio serrato e mai fuori posto. Bava crea un nuovo modo di fruire il thriller, ponendo la sceneggiatura a servizio della messa in scena e disinteressando il pubblico alla risoluzione del caso, poiché rapito dalla crudeltà degli omicidi. Questa formula è costantemente ripresa dal cinema moderno, ultima su tutti la trilogia Terrifier (2016-2024) di Damien Leone, dove la trama non contiene spunti di riflessione o denuncia sociale, rivelandosi uno strumento che adopera le uccisioni come “dispositivo d’impatto” sullo spettatore.
Per onestà intellettuale, bisogna riportare una scuola di pensiero (accreditata da alcuni critici italiani) secondo la quale sarebbe un altro lungometraggio del regista ad aver generato lo slasher, ovvero Reazione a Catena (1971). Il mistero rimane, ma che sia l'uno o l'altro film il risultato resta invariato: in entrambi i casi Bava si afferma come padre del genere.
Venerdì 13 (1980), per la regia di Sean S. Cunningham, risulta una copia quasi speculare di Reazione a catena, tanto da sembrare un fan film poco ispirato e girato senza la mano di un autore. Spesso il destino ha giocato strani scherzi a Bava, genio incompreso dalla critica del tempo, ingiustamente considerato solamente come un abile tecnico della fotografia.
Il maestro Ridley Scott, attualmente nelle sale cinematografiche con Gladiator 2 (Il Gladiatore 2), deve tutto a Terrore nello spazio (1965) di Bava, lungometraggio creatore di ambientazioni fantascientifiche girato quattordici anni prima del suo Alien (1979). La sceneggiatura è molto semplice (ma fantastica nella sua schiettezza) e segue le vicende di un gruppo di astronauti dirottati su un pianeta sconosciuto e costretti a dover fronteggiare una specie aliena che, tramite dei parassiti, si impossessa del corpo umano.
Le comparazioni con il cult di Scott e The Thing (La cosa, 1982) di John Carpenter, pietre miliari del genere, vengono da sé. Nel primo caso c'è del citazionismo puro da parte di Scott, che, anche attraverso la messa in scena, rievoca prepotentemente Terrore nello spazio, specialmente nella sua iconografia. Molti elementi, dalla caratterizzazione del set dell’astronave fino alla fotografia, le luci e i movimenti di camera, sono (sot)tratti dall’opera del 1965.
Analizzando la figura dello Xenomorfo, mostruoso alieno e minaccia del film, si nota l'ennesimo richiamo al regista italiano.
In Alien lo Xenomorfo rappresenta la forma di vita perfetta, indistruttibile e instancabile, pronto a uccidere qualsiasi cosa ostacoli il suo scopo di riprodursi. Il processo di creazione dello Xenomorfo avviene tramite una forma di vita aliena, il così detto "Face Hugger", in grado di parassitare l'essere umano e far nascere al suo interno un piccolo mostro.
InTerrore nello spazio un gruppo di astronauti atterra su un pianeta ostile e sconosciuto, abitato da una forma di vita aliena che per riprodursi e sopravvivere ha bisogno di parassitare l'uomo per poterne controllare le azioni. Nonostante la diversità delle creature in questione, non si può fare a meno di riscontrare una certa corrispondenza.
Nel caso di Carpenter, l’opera di Bava è stata di evidente ispirazione nell’ideazione diThe Thing , dove un mutante alieno è in grado di prendere le sembianze delle forme di vita dopo averle assimilate.
Gli esempi sono molteplici, e arrivano fino alla cinematografia di Quentin Tarantino, fortemente ispirata da Bava, specialmente Reservoir Dogs (Le iene, 1992), pellicola thriller crime fortemente derivativa di Cani Arrabbiati (1974).
I due film hanno moltissimi elementi in comune, dalla messa in scena ai tempi narrativi, passando per personaggi estremamente simili tra loro fino alla risoluzione dell'intreccio finale. Cani Arrabbiati racconta le vicende di quattro criminali durante una rapina finita nel sangue. Il film di Bava era di una crudeltà sconvolgente per l'epoca, brutale,violento e di forte impattando sulla sensibilità dello spettatore. L'opera criticava le dinamiche del machismo, condannando la crudeltà degli uomini, che sembrano quasi incarnare una spirale infinita di violenza e disumanità.
La potenza fotografica di Bava qui risulta più semplice, dando il meglio di sè in una sequenza interamente giocata in un tunnel. La messa in scena si avvale di inquadrature strettissime, soprattutto primissimi piani dei personaggi, e crea un clima di tensione concreta.
Inoltre, la maggior parte della pellicola si svolge in macchina, e adopera l'attaccamento dei corpi dei personaggi per produrre una visione claustrofobica che suscita un grande stato di ansia in chi osserva. Le comparazioni con Tarantino sono diverse: le scene ambientate nelle vetture in Reservoir Dogs hanno una certa corrispondenza con Cani Arrabbiati, in similitudini contestuali e movimenti di macchina da presa. Risulta alla luce del sole l'affinità tra le due trame e tra i personaggi primari. Per atteggiamenti e caratterizzazione "Bisturi" (interpretato da Don Backy) nel film di Bava è accostabile a Mr.Blonde (Michael Madsen), rappresentando, in entrambi i casi, il cane sciolto impossibile da controllare. Inoltre Tarantino riprenderà un monologo di Bisturi per riadattarlo nella scena più rappresentativa di Reservoir Dogs: la tortura di Marvin Nash (Kirk Baltz).
L'ennesimo riferimento all'opera di Bava lo troviamo nel modo che hanno alcuni personaggi di reagire alle intemperie, riprendiamo in causa Bisturi e la morte del suo amico e compagno "Trentadue" (George Eastman) e confrontiamolo con la sparatoria in cui rimane mortalmente ferito Mr. Orange (Tim Roth):
In Cani Arrabbiati,Trentadue viene ucciso dal capo banda "Dottore" durante un tentato stupro. Successivamente Bisturi metterà in dubbio la lealtà di Dottore, finendo per delirare in un disperato tentativo di far rinvenire il "malcapitato" rimasto ucciso. In questa sequenza Bisturi cerca di tranquillizzare il compagno in maniera puerilmente tragicomica.
In Le iene, Mr.Orange rimane ferito gravemente in seguito a una rapina disastrosa, scappa in macchina insieme al leader della banda Mr.White (Harvey Keitel) verso un rifugio prestabilito in caso qualcosa andasse storto. I discorsi, le movenze e persino l'espressività di Mr.White sono identiche a quelle di Bisturi in Cani Arrabbiati.
Riassumendo in poche parole: Mario Bava ha fortemente influenzato Tarantino, gettando i semi della sua cultura pulp vent'anni prima del suo debutto, e suggerendo intrecci narrativi e risoluzioni delle macro trame che spesso sfociano in massacri. Gran parte della filosofia Tarantiniana è debitrice nei confronti dell'operato di Bava.
I richiami a Bava sono infiniti anche in altri autori, tanto per citarne uno Sam Raimi in The Evil Dead (La casa,1981) e in Army of Darkness (L'armata delle tenebre, 1992), due dei film più importanti nella filmografia del cineasta di Royal Oak. Bava, in Ercole al centro della terra (1961), è il primo a fondere un film di avventura tradizionale con sentori horror e splatter. Fondamentale in Ercole al centro della terra è l'ironia Baviana, non riposta tanto nelle battute quanto nella messa in scena. Ancora una volta il cineasta riesce a creare un immaginario credibile con un budget estremamente misero per l'epoca, figuriamoci metterlo in relazione alle produzioni moderne.
Scenografia e fotografia, come al solito in stato di grazia, traghettano lo spettatore in un lungometraggio che, pur non essendo un capolavoro, risulta godibile e, per l’epoca, estremamente avanguardistico. Raimi riprenderà tutto di questo film per realizzare proprio Army of Darkness, ricreando, in tutto e per tutto, le ambientazioni ideate da Bava: narrazione, costruzione della trama e persino l'estetica dei mostri in scena, una ri-proposta statunitense dell'ironia gotica della messa in scena Baviana.
Tra le opere di Bava degne di nota non può assolutamente mancare La ragazza che sapeva troppo (1963), pellicola che, seppur di natura chiaramente derivativa dall’opera di Alfred Hitchcock, contribuirà enormemente a definire i parametri del giallo all'italiana grazie ai suoi tagli di inquadratura e al sapiente utilizzo delle soggettive, successivamente riprese da chiunque si cimentasse nella realizzazione di un film di questo tipo.
I tre volti della paura (1963), conosciuto all'estero con il nome di Black Sabath , si sviluppa invece in una divisione della trama in 3 micro storie che rispecchiano pienamente la visione dell'horror per Bava: thriller, fantastico gotico e racconti di fantasmi. Fu grazie a I tre volti della paura che il cineasta venne riconosciuto come un maestro del macabro fuori dai confini italiani.
Bava non potrà mai essere sostituito o emulato, un genio che ha abbracciato il classico fato dei visionari: l'incomprensione da parte degli uomini del loro tempo.
Tutta l'erronea “visione italiana” nei suoi confronti si può riscontrare in un'intervista per Rai 3 da parte del conduttore Luciano Rispoli, che mentre pone delle domande al regista lo tratta come un semplice ingegnere degli effetti speciali, non rendendosi minimamente conto del gigante seduto dinanzi a sè. Un uomo che ha ideato l'immaginario alla base del cinema moderno, costruendo, mattone dopo mattone, un'inscalfibile colonna portante sopra la quale si ergono grandi figure cinematografiche del cinema contemporaneo.
Sotterrare gli apripista smarriti nell'immensità del tempo è purtroppo vizio antropologico dell'uomo moderno, che, incline a rifiutare “il vecchio”, limita il proprio sguardo esclusivamente verso “il nuovo”, così Mario Bava si è perso nella memoria collettiva. Ma, nonostante tutto, questo immenso autore dimenticato vive in ogni inquadratura, rappresentazione gotica e opera horror moderna. Emblematiche sono le parole di Martin Scorsese nei suoi riguardi: "Adoro i film di Bava, soprattutto per la loro atmosfera onirica, sembra cinema allo stato puro: un sogno, un’allucinazione”.