Un filo rosso collega il cinema di oggi
all’invenzione di Dario Argento,
di Virgil Darelli
TR-09
10.07.2020
Uno spettro colorato si aggira nel cinema horror contemporaneo: Suspiria. Quella di Dario Argento e Luciano Tovoli fu una vera e propria rivoluzione. Il visual del terrore diventò innaturale, fatto di colori puri ‘sparati’ sugli incarnati; colori semoventi sconfinanti nell’ambiente, a violare la neutralità della pioggia e a urtare sulla scenografia geometrica. L’impatto del film nel mondo, che all’epoca fu un grandissimo successo al botteghino, è noto. Non si trattava solo dei colori: la musica era in primo piano, altrettanto violenta, e il male era assoluto e ingiustificato. Suspiria (1977) fu anche l’ultimo film italiano in Technicolor e uno dei primi a usare la stereofonia.
Tovoli, il direttore della fotografia, non aveva mai fatto un horror. D’altronde si trattava della prima esperienza anche per Argento, che si lasciava così alle spalle il thrill psicologico di quel genere chiamato “giallo all’italiana”. Tovoli racconta che l’horror, anzi, lo impressionava al punto che chiese di usare un sangue il più finto possibile. Non fu un problema per Argento, che aspirava poco al realismo e molto alle distorsioni geometriche e alle imbibizioni monocromatiche del cinema espressionista. Inseguendo l’immaginario gotico del dopoguerra tedesco finì a girare a Friburgo, con la Foresta Nera a circondare l’accademia di danza di Susy, e nella Königsplatz di Monaco di Baviera, la stessa dove Hitler faceva i suoi discorsi.
Il modo più semplice, e forse il più giusto, per definire quell’uso del colore è proprio questo: espressionista. Un colore, cioè, che non fa parte del mondo finzionale, per di più realizzato in modo artigianale e artistico. Con l’uso di potenti luci direzionali ad arco chiamate “bruti”, Tovoli riusciva a disegnare a piacere la propria drammaturgia del colore. La luce veniva colorata semplicemente mettendo dei teli davanti ai proiettori. Suspiria ricercò il colore primario, netto, plastico, proprio in un momento in cui, a detta di Tovoli, il cinema d’autore vedeva il colore quasi come un disturbo. Nel ricercare un’ulteriore scorrettezza fotografica, al momento della stampa in Technicolor furono rimossi i filtri diffusori che servono a nascondere eventuali sfasature tra i tre strati colorati dell’emulsione.
Il riferimento era la pittura, in modo che il colore non fosse un semplice attributo della pellicola. A questo proposito era stata importante la collaborazione di Tovoli con Michelangelo Antonioni, formando così un ponte ideale tra il Deserto Rosso e il Profondo Rosso, anche se i due film precedettero il suo incontro con entrambi i registi. Antonioni lo scelse quando vide la fotografia di un film chiamato Una macchia rosa, uno studio sul colore in India, e insieme realizzarono Professione: Reporter. Più tardi, i due sperimenteranno il cinema elettronico con Il mistero di Oberwald. Forte di questa esperienza pregressa, il direttore della fotografia si presentò al colloquio con la famiglia Argento con l’idea bislacca di lanciare vernice in faccia agli attori. Cosa che fece poi solo idealmente nella scena di Susy nel taxi: le luci erano inserite in due cilindri rotanti muniti di feritoie di diversi colori, i quali si alternavano così sul primo piano di Jessica Harper. Il camera car, invece, fu realizzato mettendo i bruti in vari punti della strada, colorando di rosso e verde la pioggia.
Suspiria fu un grande successo, ma fu anche molto criticato. Comunque, è innegabile che la sua influenza sia stata enorme nel tempo e sia viva ancora oggi. Basti pensare al remake del 2018 di Luca Guadagnino e ai numerosi restauri, tra cui quello recente del 2017, sotto la supervisione di Tovoli stesso, che ha permesso al film di tornare in sala: Suspiria appartiene al grande schermo, un puro spettacolo di colori e musica. Non avrebbe senso non menzionare la colonna sonora dei Goblin, ma è abbastanza famosa per parlare da sola.
È possibile seguire alcune tracce che si diramano da Suspiria, sempre mettendo al centro il colore. Gli anni Duemila hanno visto lo sfruttamento del genere horror soprattutto grazie ai remake e all’estetica found footage, esaltando la bassa definizione e la freddezza delle immagini. Il male, se non era semplicemente la follia assassina dello slasher movie, era uno spettro, legato alla religione cristiana e alla possessione. Oggi, se domina il lato psicologico, spesso prende una strada per lo meno misteriosa, se non proprio fantascientifica e ‘antropologica’. Senza dimenticare i nuovi incassi e le pretese arthouse del genere.
L’esempio forse più noto è quello di The Neon Demon, dove il male è rappresentato dall’estetica stessa e dalle luci dei set fotografici. Come le ragazze di Suspiria (che Argento avrebbe voluto molto più piccole, e che tentò di rimpicciolire facendo costruire le maniglie delle porte più in alto del dovuto), le protagoniste sono ragazzine in competizione tra loro. Esplicitamente influenzato da Dario Argento, che esalta in varie occasioni, Nicholas Winding Refn ha fatto del contrasto blu-rosso e del richiamo agli anni Ottanta dei neon uno dei suoi marchi di fabbrica. Basti pensare al blu-rosso di Solo dio perdona e alla sperimentazione con la cangiante color correction di Drive.
C’è però una differenza importante nella natura dell’orrore. Se il male di Suspiria era intenzionale e corrispondeva a precisi individui, le Tre Madri ispirate da Thomas De Quincey, quello di The Neon Demon appare pervasivo, come se emergesse da una certa “cultura dell’immagine”. Per questo, horror antropologico. Il maligno ha un rapporto diretto con quei colori, che infatti, al contrario del film di Argento, fanno parte del mondo diegetico.
Quando Argento decise di cambiare genere, voleva lasciarsi radicalmente dietro il whodunit, il mistero giallesco del “chi” è il killer, senza più presupporre motivazioni psicologiche o sociali dietro il delitto. Voleva invece il male assoluto. Viaggiò per l’Europa alla ricerca di streghe da incontrare, ma senza successo. Si tratta anche di un male imparentato con il New Age, come testimoniato dalla sua visita a un’accademia neopitagorica greca. La Tanz Akademie del film è appunto ispirata a una scuola steineriana di Basilea, nel “triangolo magico” europeo. Infine in Inferno, il sequel di Suspiria, viene evocato Gurdjeff, il mistico armeno che finì per aprire una scuola di balli religiosi a Parigi.
È proprio Inferno a fare da ponte con un altro film recente. Nel 1990, Richard Stanley aveva appena finito Hardware, un film di fantascienza divenuto di culto per la rossa ambientazione post apocalissi ambientale nel quale Iggy Pop diceva “La natura non li conosce colori simili”. Stanley si trovava a New York per finire il film, prodotto dalla Miramax, e lì conobbe Dario Argento, che divenne il suo mentore, mentre lui gli procurava l’erba. Dopo un giorno insieme, Stanley comprò una statuetta di una Madonna nera che gli ricordava Mater Tenebrarum, la strega di Inferno. Qualche ora dopo era in Spagna dove, perdendosi fuori dall’autostrada, si imbatté in un monastero. Per nessuna ragione particolare decise di andare a dare un’occhiata e scoprì tra i pellegrini l’icona originale della Madonna che ancora aveva addosso.
Stanley ha una concezione particolare della magia, in cui crede. Pensa che sia sottovalutata, ma soprattutto che non sia per forza malefica. Dopo varie disavventure e diversi documentari sull’esoterismo (tra cui uno sul Voodoo e uno sulla ricerca del Graal da parte dei nazisti), nel 2020 è tornato alla regia di un lungometraggio di fiction. Color Out of Space è tratto da un racconto di H.P. Lovecraft, lo scrittore dell’inimmaginabile e dunque dell’infilmabile. Il colore di cui parla Lovecraft non è mai stato visto dall’uomo, non è neanche pensabile. Il risultato è un body horror psichedelico con Nicolas Cage in bilico tra la follia e l’eroismo. Di che colore è il colore dallo spazio? Semplice, è l’unione dei due colori del terrore, blu e rosso: un violetto brillante. Il male in questo caso non è assoluto, come in Argento, è piuttosto indifferente. È la natura, come il clima in Hardware, ad avere una logica tutta sua, inesorabile. In questo, anticipa una tendenza della fantascienza contemporanea a interessarsi del cambiamento climatico, la cosiddetta cli-fi. Di questa tendenza si trovano echi in Annihilation, tratto dal romanzo di successo di Jeff Vandermeer. Anche in quel caso, si tratta di un ambiente alieno che ha il terrore proprio nell’innaturalezza dei colori.
Nicolas Cage, con la sua ormai famosa recitazione sopra le righe, è il filo che unisce a un altro esempio di horror colorato contemporaneo. Guarda caso, il nome del suo personaggio nel Mandy di Panos Cosmatos è “Red”. Il film è effettivamente molto rosso. Anche qui, alla macchina a mano vengono privilegiate attrezzature pesanti e lenti anamorfiche. L’estetica precede il realismo nell’ordine delle preoccupazioni. La notte predomina, ed è una notte colorata, come in Suspiria. I colori sono realizzati il più possibile sul set, con l’uso di luci led, props lights (ovvero luci diegetiche) e filtri colorati. La differenza con il film di Argento è che i colori sono profondamente promiscui, impuri.
L’ambientazione è quella degli anni Ottanta, che richiama la videofilia di genere a cui contribuì anche il padre di Cosmatos, George Pan, ad esempio con Cobra, interpretato da un altro attore ingombrante come Sylvester Stallone – altro italoamericano molto vendicativo, per coincidenza. Come in Cobra, in Mandy il pericolo è rappresentato da una setta di hippy in stile Charles Manson, oltre che da mostruosi bikers drogati molto simili ai cenobiti di Hellraiser (mentre curiosamente in Cobra bikers e hippy erano tutt’uno). Il male qui non è naturale, come quello di Color Out of Space, ma non è nemmeno propriamente intenzionale: è l’impulso a guidare la vendetta di Red, aiutato dalla droga e da motoseghe giganti, come se il Cattivo tenente (quello interpretato sempre da Cage) avesse incontrato Ash di Evil Dead. Anche le azioni dei cattivi sono più vicine al delirio compulsivo delle ragazze di Neon Demon che al dominio pacato e sicuro esercitato dalle streghe di Suspiria o dalla natura aliena di Stanley.
Panos Cosmatos, con il suo precedente film, Beyond The Black Rainbow, oltre a sperimentare già con il colore, segnava il passaggio dalla ricerca spirituale New Age alla magia vera e propria, ma rimaneva su quel confine (che è anche il confine della salute mentale). Una clinica dove ritrovare se stessi, insieme alle droghe psichedeliche, come ne esistevano negli anni Sessanta e come ne esistono ancora, specie in California. Un tema che interessa anche Argento, che nel suo libro Paura cita tra le sue idee non realizzate un film su Charles Manson e uno su dei rivoluzionari che cercano di dare vita a una delirante società utopica (ha però scritto sullo stesso tema il film La Setta, poi realizzato da Michele Soavi). Era un po’ lo spirito del tempo, presente anche quando, tra i vari “incidenti inspiegabili” del set di Suspiria, la troupe scampò per poco a un attentato della Rote Armee Fraktion. Marxismo e New Age rappresentano le due facce della controcultura che si ritrovano anche in Argento, comunista ma interessato al sovrannaturale. È degno di nota il fatto che la stessa R.A.F. sia entrata prepotentemente nel mondo di Suspiria, nel remake del 2018.
Suspiria è come un videoclip, ma da vedere al cinema. L’enfasi è sui colori e sulla musica, per creare un ambiente immersivo. Lo stesso interesse per la ricerca visiva e musicale lo si ritrova oggi nei film citati (personalmente trovo molto interessante la colonna sonora di Color Out of Space). La comunanza esiste anche in certi temi, come il Voodoo, che accomuna Argento e Stanley, o le comunità New Age, dagli hippy alle scuole di danza fino alla ancor più delirante comunità delle modelle di Los Angeles. L’ambiente resta il protagonista: può riflettere il maligno che lo abita, come in Suspiria o in Mandy, o diventare di per sé oppressivo, come l’ambiente sociale di The Neon Demon e quello naturale di Color Out of Space.
Grazie alla congiuntura favorevole al genere horror, è possibile adesso vedere sperimentazioni simili a quelle di Suspiria. È esemplare il caso della casa di produzione SpectreVision, che ha come obiettivo quello di legittimare l’horror come arte, fino a portarlo agli Oscar, il loro sogno dichiarato. Sono loro ad aver prodotto Color Out of Space e Mandy. Tra l’altro, Elijah Wood e Daniel Noah, due dei fondatori, hanno un interessante podcast di interviste intime a registi e non solo, tra cui anche Panos Cosmatos e Richard Stanley.
Un filo rosso collega il cinema di oggi
all’invenzione di Dario Argento,
di Virgil Darelli
TR-09
10.07.2020
Uno spettro colorato si aggira nel cinema horror contemporaneo: Suspiria. Quella di Dario Argento e Luciano Tovoli fu una vera e propria rivoluzione. Il visual del terrore diventò innaturale, fatto di colori puri ‘sparati’ sugli incarnati; colori semoventi sconfinanti nell’ambiente, a violare la neutralità della pioggia e a urtare sulla scenografia geometrica. L’impatto del film nel mondo, che all’epoca fu un grandissimo successo al botteghino, è noto. Non si trattava solo dei colori: la musica era in primo piano, altrettanto violenta, e il male era assoluto e ingiustificato. Suspiria (1977) fu anche l’ultimo film italiano in Technicolor e uno dei primi a usare la stereofonia.
Tovoli, il direttore della fotografia, non aveva mai fatto un horror. D’altronde si trattava della prima esperienza anche per Argento, che si lasciava così alle spalle il thrill psicologico di quel genere chiamato “giallo all’italiana”. Tovoli racconta che l’horror, anzi, lo impressionava al punto che chiese di usare un sangue il più finto possibile. Non fu un problema per Argento, che aspirava poco al realismo e molto alle distorsioni geometriche e alle imbibizioni monocromatiche del cinema espressionista. Inseguendo l’immaginario gotico del dopoguerra tedesco finì a girare a Friburgo, con la Foresta Nera a circondare l’accademia di danza di Susy, e nella Königsplatz di Monaco di Baviera, la stessa dove Hitler faceva i suoi discorsi.
Il modo più semplice, e forse il più giusto, per definire quell’uso del colore è proprio questo: espressionista. Un colore, cioè, che non fa parte del mondo finzionale, per di più realizzato in modo artigianale e artistico. Con l’uso di potenti luci direzionali ad arco chiamate “bruti”, Tovoli riusciva a disegnare a piacere la propria drammaturgia del colore. La luce veniva colorata semplicemente mettendo dei teli davanti ai proiettori. Suspiria ricercò il colore primario, netto, plastico, proprio in un momento in cui, a detta di Tovoli, il cinema d’autore vedeva il colore quasi come un disturbo. Nel ricercare un’ulteriore scorrettezza fotografica, al momento della stampa in Technicolor furono rimossi i filtri diffusori che servono a nascondere eventuali sfasature tra i tre strati colorati dell’emulsione.
Il riferimento era la pittura, in modo che il colore non fosse un semplice attributo della pellicola. A questo proposito era stata importante la collaborazione di Tovoli con Michelangelo Antonioni, formando così un ponte ideale tra il Deserto Rosso e il Profondo Rosso, anche se i due film precedettero il suo incontro con entrambi i registi. Antonioni lo scelse quando vide la fotografia di un film chiamato Una macchia rosa, uno studio sul colore in India, e insieme realizzarono Professione: Reporter. Più tardi, i due sperimenteranno il cinema elettronico con Il mistero di Oberwald. Forte di questa esperienza pregressa, il direttore della fotografia si presentò al colloquio con la famiglia Argento con l’idea bislacca di lanciare vernice in faccia agli attori. Cosa che fece poi solo idealmente nella scena di Susy nel taxi: le luci erano inserite in due cilindri rotanti muniti di feritoie di diversi colori, i quali si alternavano così sul primo piano di Jessica Harper. Il camera car, invece, fu realizzato mettendo i bruti in vari punti della strada, colorando di rosso e verde la pioggia.
Suspiria fu un grande successo, ma fu anche molto criticato. Comunque, è innegabile che la sua influenza sia stata enorme nel tempo e sia viva ancora oggi. Basti pensare al remake del 2018 di Luca Guadagnino e ai numerosi restauri, tra cui quello recente del 2017, sotto la supervisione di Tovoli stesso, che ha permesso al film di tornare in sala: Suspiria appartiene al grande schermo, un puro spettacolo di colori e musica. Non avrebbe senso non menzionare la colonna sonora dei Goblin, ma è abbastanza famosa per parlare da sola.
È possibile seguire alcune tracce che si diramano da Suspiria, sempre mettendo al centro il colore. Gli anni Duemila hanno visto lo sfruttamento del genere horror soprattutto grazie ai remake e all’estetica found footage, esaltando la bassa definizione e la freddezza delle immagini. Il male, se non era semplicemente la follia assassina dello slasher movie, era uno spettro, legato alla religione cristiana e alla possessione. Oggi, se domina il lato psicologico, spesso prende una strada per lo meno misteriosa, se non proprio fantascientifica e ‘antropologica’. Senza dimenticare i nuovi incassi e le pretese arthouse del genere.
L’esempio forse più noto è quello di The Neon Demon, dove il male è rappresentato dall’estetica stessa e dalle luci dei set fotografici. Come le ragazze di Suspiria (che Argento avrebbe voluto molto più piccole, e che tentò di rimpicciolire facendo costruire le maniglie delle porte più in alto del dovuto), le protagoniste sono ragazzine in competizione tra loro. Esplicitamente influenzato da Dario Argento, che esalta in varie occasioni, Nicholas Winding Refn ha fatto del contrasto blu-rosso e del richiamo agli anni Ottanta dei neon uno dei suoi marchi di fabbrica. Basti pensare al blu-rosso di Solo dio perdona e alla sperimentazione con la cangiante color correction di Drive.
C’è però una differenza importante nella natura dell’orrore. Se il male di Suspiria era intenzionale e corrispondeva a precisi individui, le Tre Madri ispirate da Thomas De Quincey, quello di The Neon Demon appare pervasivo, come se emergesse da una certa “cultura dell’immagine”. Per questo, horror antropologico. Il maligno ha un rapporto diretto con quei colori, che infatti, al contrario del film di Argento, fanno parte del mondo diegetico.
Quando Argento decise di cambiare genere, voleva lasciarsi radicalmente dietro il whodunit, il mistero giallesco del “chi” è il killer, senza più presupporre motivazioni psicologiche o sociali dietro il delitto. Voleva invece il male assoluto. Viaggiò per l’Europa alla ricerca di streghe da incontrare, ma senza successo. Si tratta anche di un male imparentato con il New Age, come testimoniato dalla sua visita a un’accademia neopitagorica greca. La Tanz Akademie del film è appunto ispirata a una scuola steineriana di Basilea, nel “triangolo magico” europeo. Infine in Inferno, il sequel di Suspiria, viene evocato Gurdjeff, il mistico armeno che finì per aprire una scuola di balli religiosi a Parigi.
È proprio Inferno a fare da ponte con un altro film recente. Nel 1990, Richard Stanley aveva appena finito Hardware, un film di fantascienza divenuto di culto per la rossa ambientazione post apocalissi ambientale nel quale Iggy Pop diceva “La natura non li conosce colori simili”. Stanley si trovava a New York per finire il film, prodotto dalla Miramax, e lì conobbe Dario Argento, che divenne il suo mentore, mentre lui gli procurava l’erba. Dopo un giorno insieme, Stanley comprò una statuetta di una Madonna nera che gli ricordava Mater Tenebrarum, la strega di Inferno. Qualche ora dopo era in Spagna dove, perdendosi fuori dall’autostrada, si imbatté in un monastero. Per nessuna ragione particolare decise di andare a dare un’occhiata e scoprì tra i pellegrini l’icona originale della Madonna che ancora aveva addosso.
Stanley ha una concezione particolare della magia, in cui crede. Pensa che sia sottovalutata, ma soprattutto che non sia per forza malefica. Dopo varie disavventure e diversi documentari sull’esoterismo (tra cui uno sul Voodoo e uno sulla ricerca del Graal da parte dei nazisti), nel 2020 è tornato alla regia di un lungometraggio di fiction. Color Out of Space è tratto da un racconto di H.P. Lovecraft, lo scrittore dell’inimmaginabile e dunque dell’infilmabile. Il colore di cui parla Lovecraft non è mai stato visto dall’uomo, non è neanche pensabile. Il risultato è un body horror psichedelico con Nicolas Cage in bilico tra la follia e l’eroismo. Di che colore è il colore dallo spazio? Semplice, è l’unione dei due colori del terrore, blu e rosso: un violetto brillante. Il male in questo caso non è assoluto, come in Argento, è piuttosto indifferente. È la natura, come il clima in Hardware, ad avere una logica tutta sua, inesorabile. In questo, anticipa una tendenza della fantascienza contemporanea a interessarsi del cambiamento climatico, la cosiddetta cli-fi. Di questa tendenza si trovano echi in Annihilation, tratto dal romanzo di successo di Jeff Vandermeer. Anche in quel caso, si tratta di un ambiente alieno che ha il terrore proprio nell’innaturalezza dei colori.
Nicolas Cage, con la sua ormai famosa recitazione sopra le righe, è il filo che unisce a un altro esempio di horror colorato contemporaneo. Guarda caso, il nome del suo personaggio nel Mandy di Panos Cosmatos è “Red”. Il film è effettivamente molto rosso. Anche qui, alla macchina a mano vengono privilegiate attrezzature pesanti e lenti anamorfiche. L’estetica precede il realismo nell’ordine delle preoccupazioni. La notte predomina, ed è una notte colorata, come in Suspiria. I colori sono realizzati il più possibile sul set, con l’uso di luci led, props lights (ovvero luci diegetiche) e filtri colorati. La differenza con il film di Argento è che i colori sono profondamente promiscui, impuri.
L’ambientazione è quella degli anni Ottanta, che richiama la videofilia di genere a cui contribuì anche il padre di Cosmatos, George Pan, ad esempio con Cobra, interpretato da un altro attore ingombrante come Sylvester Stallone – altro italoamericano molto vendicativo, per coincidenza. Come in Cobra, in Mandy il pericolo è rappresentato da una setta di hippy in stile Charles Manson, oltre che da mostruosi bikers drogati molto simili ai cenobiti di Hellraiser (mentre curiosamente in Cobra bikers e hippy erano tutt’uno). Il male qui non è naturale, come quello di Color Out of Space, ma non è nemmeno propriamente intenzionale: è l’impulso a guidare la vendetta di Red, aiutato dalla droga e da motoseghe giganti, come se il Cattivo tenente (quello interpretato sempre da Cage) avesse incontrato Ash di Evil Dead. Anche le azioni dei cattivi sono più vicine al delirio compulsivo delle ragazze di Neon Demon che al dominio pacato e sicuro esercitato dalle streghe di Suspiria o dalla natura aliena di Stanley.
Panos Cosmatos, con il suo precedente film, Beyond The Black Rainbow, oltre a sperimentare già con il colore, segnava il passaggio dalla ricerca spirituale New Age alla magia vera e propria, ma rimaneva su quel confine (che è anche il confine della salute mentale). Una clinica dove ritrovare se stessi, insieme alle droghe psichedeliche, come ne esistevano negli anni Sessanta e come ne esistono ancora, specie in California. Un tema che interessa anche Argento, che nel suo libro Paura cita tra le sue idee non realizzate un film su Charles Manson e uno su dei rivoluzionari che cercano di dare vita a una delirante società utopica (ha però scritto sullo stesso tema il film La Setta, poi realizzato da Michele Soavi). Era un po’ lo spirito del tempo, presente anche quando, tra i vari “incidenti inspiegabili” del set di Suspiria, la troupe scampò per poco a un attentato della Rote Armee Fraktion. Marxismo e New Age rappresentano le due facce della controcultura che si ritrovano anche in Argento, comunista ma interessato al sovrannaturale. È degno di nota il fatto che la stessa R.A.F. sia entrata prepotentemente nel mondo di Suspiria, nel remake del 2018.
Suspiria è come un videoclip, ma da vedere al cinema. L’enfasi è sui colori e sulla musica, per creare un ambiente immersivo. Lo stesso interesse per la ricerca visiva e musicale lo si ritrova oggi nei film citati (personalmente trovo molto interessante la colonna sonora di Color Out of Space). La comunanza esiste anche in certi temi, come il Voodoo, che accomuna Argento e Stanley, o le comunità New Age, dagli hippy alle scuole di danza fino alla ancor più delirante comunità delle modelle di Los Angeles. L’ambiente resta il protagonista: può riflettere il maligno che lo abita, come in Suspiria o in Mandy, o diventare di per sé oppressivo, come l’ambiente sociale di The Neon Demon e quello naturale di Color Out of Space.
Grazie alla congiuntura favorevole al genere horror, è possibile adesso vedere sperimentazioni simili a quelle di Suspiria. È esemplare il caso della casa di produzione SpectreVision, che ha come obiettivo quello di legittimare l’horror come arte, fino a portarlo agli Oscar, il loro sogno dichiarato. Sono loro ad aver prodotto Color Out of Space e Mandy. Tra l’altro, Elijah Wood e Daniel Noah, due dei fondatori, hanno un interessante podcast di interviste intime a registi e non solo, tra cui anche Panos Cosmatos e Richard Stanley.