NC-256
01.12.2024
Nonostante per la maggior parte dei registi rappresentino delle occasioni per esordire dietro la macchina da presa, nonostante la breve durata che ci permette di fruirli in qualsiasi momento della giornata, è davvero difficile avere accesso ai cortometraggi. Al di fuori dalle cornici festivaliere o delle rassegne, questa forma breve ed estremamente democratica di audiovisivo è una sorta di fantasma destinato, quasi per natura, all’occasionalità e all’effimero.
Ancora più raro e paradossale è avere accesso - non soltanto in rete - a cortometraggi di grandi autori i cui film sono sulla bocca di tutti. Fortunatamente, negli ultimi anni, Mubi sta contribuendo alla riscoperta dei cortometraggi di registi provenienti da tutto il mondo e, ad oggi, l’offerta di corti sulla piattaforma è decisamente elevata.
Troviamo quindi corti di registi con poca filmografia alla spalle ma che hanno già fatto parlare molto di sé (come Bi Gan, Coralie Fargeat o l’italiano Tommaso Santambrogio), grandi nomi del cinema del passato (come Joris Ivens e Jean-Marie Straub) e celebri autori del cinema contemporaneo (come Radu Jude, Aki Kaurismäki, Lucrecia Martel, Roy Andersson e Ruben Östlund).
In particolare, vogliamo soffermarci su cinque cortometraggi che verranno proiettati pubblicamente (sono previste sei sessioni nell'arco di tre giorni) nella sezione Short Films Big Names del Mubi Fest, un evento assolutamente imperdibile che si terrà a Milano dal 13 al 15 dicembre e che presenta un programma ricco di spunti e interessanti sorprese.
Corti di grandi registe e registi della nostra contemporaneità che costituiscono tasselli fondamentali nella loro filmografie. Piccoli film nei quali possiamo scorgere i germi di motivi, temi e stili che diverranno predominanti nelle carriere dei loro autori, o di cogliere in essi la sintesi perfetta della loro poetica.
Troviamo quindi Wasp (2003), culmine della breve produzione della cineasta britannica Andrea Arnold, un cortometraggio spiazzante che ottenne l’Oscar nel 2005 e che presenta in sé alcuni elementi cardine dello stile e delle tematiche della sua regista: camera a mano che si addossa ai protagonisti comunicando tutto il loro nervosismo e la loro ansia, personaggi che vivono in situazioni disagianti da cui tentano di fuggire, la rappresentazione di un malessere destinato ad esplodere sullo schermo in tutta la sua potenza e il naturalismo della recitazione, del suono e della fotografia, elementi che portano il cinema della Arnold a protendere verso quel realismo che rappresenta - sin dagli esordi - il suo marchio di fabbrica.
Fra i corti troviamo anche l’esordio di un’altra grande regista inglese, Joanna Hogg, il cui Caprice (1986) ha fra i meriti quello di regalare una delle prime, grandi, interpretazioni di una giovanissima Tilda Swinton. Frutto di un progetto di laurea per la National Film and Television School di Londra, il corto racconta di un’accanita lettrice di un magazine glamour che viene risucchiata dalle pagine della rivista entrando così in un universo alternativo fatto di apparenza e votato unicamente al consumo e alla commercializzazione. Girato con uno stile che ricalca molto quello di alcuni esponenti del cinéma du look francese, il corto della Hogg trasuda eighties da ogni frame e si presta a un interessante confronto con la successiva filmografia dell’autrice, che esordirà nel lungometraggio solo nel 2007 con Unrelated.
Un altro interessante cortometraggio è Incoherence (1994), fra i primi lavori di uno dei più acclamati autori degli ultimi anni: Bong Joon-ho. In tre brevi storie e un epilogo il regista di Memories of Murder (Memorie di un assassino, 2003) e Parasite (2019) compie un aspro ritratto dell’intellighenzia coreana, che sarà poi il principale bersaglio della sua satira nelle opere successive. Particolari, in questa pellicola, sono alcune soluzioni che Bong Joon-ho prova a mettere in atto nel montaggio. Soluzioni non del tutto riuscite, ma simboli fondamentali della creatività e della volontà del regista di sperimentare e giocare con il linguaggio cinematografico prima di arrivare a opere più mature, come Barking Dogs Never Bite (Cane che abbaia non morde, 2000) e The Host (2006). L’epilogo del corto, comunque, vale da solo i 30 minuti di visione.
Imperdibile è invece il breve poema d’esordio di Sofia Coppola, Lick the Star (1998), vero e proprio prologo di The Virgin Suicide (Il giardino delle vergini suicide, 1999) in cui la regista indaga le difficili relazioni fra un gruppo di studentesse di un college americano. In soli tredici minuti Coppola tratteggia i contorni di un mondo precario, dominato da un susseguirsi rapido di eventi destabilizzanti in grado di alterare i suoi equilibri. La macchina da presa si muove libera nelle tinte di un bianco e nero estremamente curato che sembra anticipare gli estetismi della produzione futura dell’autrice statunitense.
Un ultimo occhio di riguardo merita invece Tavern Man, cortometraggio del 2013 diretto da Aki Kaurismäki. Il lavoro, che si colloca nell’ultima fase della produzione del grande maestro finlandese, è una piccola summa del suo modo di raccontare e di rappresentare. Girato a Guimarães e parte di un più grande film a episodi incentrato sulla città portoghese, il corto di Kaurismäki recupera il linguaggio del cinema muto per mettere in scena il classico personaggio vinto del cinema del regista, una figura che trascorre la propria giornata alla ricerca di piccole gioie, per poi essere - inevitabilmente - condannato alla solitudine. Con il solito, magistrale, lavoro sui cromatismi - che verrà poi portato all’estremo nei successivi L’altro volto della speranza (2017) e Come foglie al vento (2023) - Kaurismäki immerge lo spettatore in un’atmosfera sospesa, fuori dal tempo, tanto che, nel finale, è persino in grado di farci scendere una lacrima.
Abbiamo collaborato con MUBI per presentarvi un evento imprescindibile per ogni cinefilo che si rispetti, clicca qui per scoprire il programma del Mubi Fest.
NC-256
01.12.2024
Nonostante per la maggior parte dei registi rappresentino delle occasioni per esordire dietro la macchina da presa, nonostante la breve durata che ci permette di fruirli in qualsiasi momento della giornata, è davvero difficile avere accesso ai cortometraggi. Al di fuori dalle cornici festivaliere o delle rassegne, questa forma breve ed estremamente democratica di audiovisivo è una sorta di fantasma destinato, quasi per natura, all’occasionalità e all’effimero.
Ancora più raro e paradossale è avere accesso - non soltanto in rete - a cortometraggi di grandi autori i cui film sono sulla bocca di tutti. Fortunatamente, negli ultimi anni, Mubi sta contribuendo alla riscoperta dei cortometraggi di registi provenienti da tutto il mondo e, ad oggi, l’offerta di corti sulla piattaforma è decisamente elevata.
Troviamo quindi corti di registi con poca filmografia alla spalle ma che hanno già fatto parlare molto di sé (come Bi Gan, Coralie Fargeat o l’italiano Tommaso Santambrogio), grandi nomi del cinema del passato (come Joris Ivens e Jean-Marie Straub) e celebri autori del cinema contemporaneo (come Radu Jude, Aki Kaurismäki, Lucrecia Martel, Roy Andersson e Ruben Östlund).
In particolare, vogliamo soffermarci su cinque cortometraggi che verranno proiettati pubblicamente (sono previste sei sessioni nell'arco di tre giorni) nella sezione Short Films Big Names del Mubi Fest, un evento assolutamente imperdibile che si terrà a Milano dal 13 al 15 dicembre e che presenta un programma ricco di spunti e interessanti sorprese.
Corti di grandi registe e registi della nostra contemporaneità che costituiscono tasselli fondamentali nella loro filmografie. Piccoli film nei quali possiamo scorgere i germi di motivi, temi e stili che diverranno predominanti nelle carriere dei loro autori, o di cogliere in essi la sintesi perfetta della loro poetica.
Troviamo quindi Wasp (2003), culmine della breve produzione della cineasta britannica Andrea Arnold, un cortometraggio spiazzante che ottenne l’Oscar nel 2005 e che presenta in sé alcuni elementi cardine dello stile e delle tematiche della sua regista: camera a mano che si addossa ai protagonisti comunicando tutto il loro nervosismo e la loro ansia, personaggi che vivono in situazioni disagianti da cui tentano di fuggire, la rappresentazione di un malessere destinato ad esplodere sullo schermo in tutta la sua potenza e il naturalismo della recitazione, del suono e della fotografia, elementi che portano il cinema della Arnold a protendere verso quel realismo che rappresenta - sin dagli esordi - il suo marchio di fabbrica.
Fra i corti troviamo anche l’esordio di un’altra grande regista inglese, Joanna Hogg, il cui Caprice (1986) ha fra i meriti quello di regalare una delle prime, grandi, interpretazioni di una giovanissima Tilda Swinton. Frutto di un progetto di laurea per la National Film and Television School di Londra, il corto racconta di un’accanita lettrice di un magazine glamour che viene risucchiata dalle pagine della rivista entrando così in un universo alternativo fatto di apparenza e votato unicamente al consumo e alla commercializzazione. Girato con uno stile che ricalca molto quello di alcuni esponenti del cinéma du look francese, il corto della Hogg trasuda eighties da ogni frame e si presta a un interessante confronto con la successiva filmografia dell’autrice, che esordirà nel lungometraggio solo nel 2007 con Unrelated.
Un altro interessante cortometraggio è Incoherence (1994), fra i primi lavori di uno dei più acclamati autori degli ultimi anni: Bong Joon-ho. In tre brevi storie e un epilogo il regista di Memories of Murder (Memorie di un assassino, 2003) e Parasite (2019) compie un aspro ritratto dell’intellighenzia coreana, che sarà poi il principale bersaglio della sua satira nelle opere successive. Particolari, in questa pellicola, sono alcune soluzioni che Bong Joon-ho prova a mettere in atto nel montaggio. Soluzioni non del tutto riuscite, ma simboli fondamentali della creatività e della volontà del regista di sperimentare e giocare con il linguaggio cinematografico prima di arrivare a opere più mature, come Barking Dogs Never Bite (Cane che abbaia non morde, 2000) e The Host (2006). L’epilogo del corto, comunque, vale da solo i 30 minuti di visione.
Imperdibile è invece il breve poema d’esordio di Sofia Coppola, Lick the Star (1998), vero e proprio prologo di The Virgin Suicide (Il giardino delle vergini suicide, 1999) in cui la regista indaga le difficili relazioni fra un gruppo di studentesse di un college americano. In soli tredici minuti Coppola tratteggia i contorni di un mondo precario, dominato da un susseguirsi rapido di eventi destabilizzanti in grado di alterare i suoi equilibri. La macchina da presa si muove libera nelle tinte di un bianco e nero estremamente curato che sembra anticipare gli estetismi della produzione futura dell’autrice statunitense.
Un ultimo occhio di riguardo merita invece Tavern Man, cortometraggio del 2013 diretto da Aki Kaurismäki. Il lavoro, che si colloca nell’ultima fase della produzione del grande maestro finlandese, è una piccola summa del suo modo di raccontare e di rappresentare. Girato a Guimarães e parte di un più grande film a episodi incentrato sulla città portoghese, il corto di Kaurismäki recupera il linguaggio del cinema muto per mettere in scena il classico personaggio vinto del cinema del regista, una figura che trascorre la propria giornata alla ricerca di piccole gioie, per poi essere - inevitabilmente - condannato alla solitudine. Con il solito, magistrale, lavoro sui cromatismi - che verrà poi portato all’estremo nei successivi L’altro volto della speranza (2017) e Come foglie al vento (2023) - Kaurismäki immerge lo spettatore in un’atmosfera sospesa, fuori dal tempo, tanto che, nel finale, è persino in grado di farci scendere una lacrima.
Abbiamo collaborato con MUBI per presentarvi un evento imprescindibile per ogni cinefilo che si rispetti, clicca qui per scoprire il programma del Mubi Fest.