Figli ritrovati e occasioni sprecate
recensione di Pavel Belli Micati
RV-79
29.11.2024
Sul finire degli anni Sessanta, nel nuovo continente, New York vibra di una controcultura promossa dai futuri hippies, venues storiche come Fillmore East ospitano riformulazioni psichedeliche, alternative e sperimentali della musica rock, rappresentate da band come i Jefferson Airplane e i Grateful Dead. Dal vecchio mondo, a Londra, nuove etichette discografiche incidono le fondamenta di una nascente economia, tra diritti d’autore, copyrights e riproduzioni artistiche. La guerra non è finita, si è solo spostata; le riparazioni sono insufficienti, l’impalcatura occidentale dell’assetto famigliare vacilla. Si parla di liberazione sessuale, si discute di divorzio e si canta della gelosia coniugale. Jimi Hendrix esordisce con una elettrizzante cover di “Hey Joe”. Il brano cult, la cui paternità è attribuita a Billy Roberts - e racconta, attraverso l’amore e la perdita, la storia di un uomo che uccide la sua donna perché infedele - è forse la canzone più coverizzata, riadattata e riproposta nella storia musicale contemporanea.
Claudio Giovannesi, regista di Fiore (2016) e La paranza dei bambini (2019), torna a Napoli a girare il suo quinto lungometraggio di finzione Hey Joe, presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma. Siamo nel 1944, in piena liberazione dal nazifascismo. Caffè, cioccolata e sigarette, è la storia raccontata dai nonni italiani sugli alleati americani che sbarcano sulla penisola. Qui invece, un giovane marine di nome Dean porta carne in scatola, minestre liofilizzate e chewing-gum a una bella ragazza che si chiama Lucia - diavolerie che nessuno aveva mai visto prima d’allora. È con l’appellativo “Hey Joe” che gli italiani approcciano i soldati statunitensi di stanza nel bel paese, offrendo loro quello che hanno, pistole, donne e malaffari. Dean e Lucia si innamorano, lei rimane incinta. Lui deve andare in America, ma le promette che tornerà a Napoli.
New Jersey, 1971. Dean è invecchiato, reduce da tre guerre. Da veterano passa la giornata a tracannare alcolici in un pub, nascondendosi dalla ex-moglie che lo insegue per farsi dare gli alimenti. “Se la pensione non ti basta, puoi anche trovarti un lavoro”. Lui allora vende la sua macchina. È un uomo irriconoscibile, lontano dalla promessa che fece a Lucia e non mantenne. Un giorno riceve un telegramma dalla Croce Rossa, risalente a 13 anni prima: il contenuto del messaggio lo informa della morte della giovane donna e del desiderio, del figlio, di conoscere il padre biologico. Senza pensarci troppo, racimola un po’ di spicci e si imbarca per l’Italia, ricordando i momenti di felicità lontana. Approdato a Napoli, la città è immutata, tra una balera dove suonano “Love me tender love me sweet” di Elvis, la base Nato trafficata da giovani marines e i vicoli pullulanti di vecchi ciarlatani, si convince che il tempo non è perduto e che il passato può ancora essere riscattato.
Appoggiato al bancone, un whisky nella mano e sigaretta nell’altra, Dean fa la conoscenza di Bambi, un’avvenente scugnizza dei Quartieri Spagnoli che truffa gli uomini promettendo in cambio amore. Gli italiani sono furbi, ma gli americani non sono scemi: l’uomo, minaccioso, aspetta la ragazza fuori dal pub. Se non gli restituisce i soldi rubati, lui la porta dalla polizia. Bambi col bottino ci ha comprato la merce da contrabbando, allora lei gli propone di entrare in affari. Nella dialettica contrattuale che fin da subito s’instaura tra i due, la ragazza gli promette di aiutarlo a trovare Enzo, il figlio illegittimo avuto con Lucia. Seguendo voci di quartiere e vecchie commari, l’americano rintraccia il giovane, ora adulto che lavora in una piazzetta di spaccio e vive di piccoli espedienti. Enzo scambia il padre per un cliente, gli vende dell’hashish. Dean sorride, come divertito. Alla ricerca di un rapporto da recuperare, tra i due nasce un’insolita amicizia dove l’intelligibilità della logica americana si confronta con l’indecifrabilità dell’ermeneutica italiana.
Molti temi si intrecciano in una storia di padri e figli di difficile identificazione. Il copione, scritto in collaborazione con Maurizio Braucci e Massimo Gaudioso, porterebbe in analisi l’accattivante identità americana filtrata dall’occhio disincantato degli italiani. L’anonimato del soldato semplice, il John Doe di turno, è qui trasfigurato nel veterano di guerra, eroe privato dell’onore alla ricerca di ciò che rimane delle sue vecchie conquiste. Il confronto con la complessità nostrana, secolarizzata dai legami familiari inscindibili, è dolce e ironico, come quando padre e figlio mettono a paragone le loro ferite - quelle di Dean da guerra, quelle di Enzo da coltellate - o quando l’idea di divertimento di Bambi è guardare la tv. Dean, che deve rimanere in città per recuperare denaro a sufficienza e tornarsene in America, vuole solo parlare col ragazzo, ma a poco a poco entra nei suoi meccanismi e conquista la sua fiducia. Il problema è che il pargolo ritrovato non spaccia solo fumo e coca, è invischiato in brutti giri: l’incontro con il padre adottivo, il mafioso Don Vittorio, innesca un duello dove il futuro di Enzo diventa l’oggetto di contenzioso.
I riferimenti all’ethos dei meridionali, la logica del contratto, la semantica del crimine e altri luoghi comuni strappano un sorriso, ma non sfatano alcun mito. Sul piano poetico, il desiderio di paternità di un uomo solitario non solo rimane inesplorato, ma la profondità emotiva che l’apparato drammaturgico vuole infondere alla narrazione, trascinata da una nenia petulante da carillon, riposa tutta su un James Franco che più che affranto, risulta affaticato. I numerosi primi piani sul protagonista, invece di suggerire emozioni, restituiscono la tipica confusione dell’americano in viaggio nel Mediterraneo. Eppure, le controparti italiane, caricature ingessate dei loro stessi attori, sono così bidimensionali che al confronto quella di Franco pare un’interpretazione da premiare...con il Telegatto, però. Se il divo di Hollywood, dopo le accuse e i contraccolpi del MeToo, desiderava ricominciare dall’Italia, con Hey Joe è la volta buona che ci rimane.
Altrettanto gratuiti i flashback nel passato: volti a giustificare il soggiorno emotivo che lo stanco veterano prolunga ad oltranza, questi inserti diventano stucchevoli così come le immagini d’archivio di guerra. Altri clichés, come l’amore che nasce tra Bambi e Dean, le missioni del contrabbando e le cene in osteria con tanto di stornelli, perorano la superficialità di una storia che, se a stento si regge in piedi, cade rovinosamente con l’affettazione del set design: luci soffuse, interni bui e scenografie da fiction di costume restituiscono un’atmosfera così artificiale, pulita e lucidata che la Napoli di Giovannesi sembra piuttosto la Livorno di Paolo Virzì. Pure i riferimenti storici, per quanto precisi, non redimono una narrazione che vorrebbe rompere l’impenetrabilità del maschile, decostruire la figura del soldato ed elevare l’affetto incondizionato che ciascun padre riserva ai figli - anche quelli che non ha mai riconosciuto. La visione non elogia né il personaggio di Dean né il talento di Franco, non sconfessa l’esperienza militare né ci dà modo di affezionarci alla realtà descritta.
Troppi interrogativi accompagnano la produzione di un lavoro che non è il migliore di nessuna delle parti coinvolte. Nel caso Hey Joe nasca dal desiderio di sfatare il mito americano, i dialoghi sono invecchiati molto in fretta; se invece, attraverso il traffico dei prodotti americani in Italia, il focus della storia fosse sulla legalità, anche qui le commedie di Sybilia con Edoardo Leo sono più informative; infine, nell’ipotesi ultima di smascherare l’eroismo maschile e approfondire il tema della paternità, ci ha già pensato l’Ulysses di Joyce più di un secolo fa. Hey Joe si risolve quindi in un tentativo fallimentare di creolizzazione audiovisiva e culturale. Della famosa canzone di Hendrix, l’ultima fatica del regista romano prende solo il titolo, mentre colpisce e affonda il potenziale dei temi dibattuti in quel periodo di profondi cambiamenti.
Figli ritrovati e occasioni sprecate
recensione di Pavel Belli Micati
RV-79
29.11.2024
Sul finire degli anni Sessanta, nel nuovo continente, New York vibra di una controcultura promossa dai futuri hippies, venues storiche come Fillmore East ospitano riformulazioni psichedeliche, alternative e sperimentali della musica rock, rappresentate da band come i Jefferson Airplane e i Grateful Dead. Dal vecchio mondo, a Londra, nuove etichette discografiche incidono le fondamenta di una nascente economia, tra diritti d’autore, copyrights e riproduzioni artistiche. La guerra non è finita, si è solo spostata; le riparazioni sono insufficienti, l’impalcatura occidentale dell’assetto famigliare vacilla. Si parla di liberazione sessuale, si discute di divorzio e si canta della gelosia coniugale. Jimi Hendrix esordisce con una elettrizzante cover di “Hey Joe”. Il brano cult, la cui paternità è attribuita a Billy Roberts - e racconta, attraverso l’amore e la perdita, la storia di un uomo che uccide la sua donna perché infedele - è forse la canzone più coverizzata, riadattata e riproposta nella storia musicale contemporanea.
Claudio Giovannesi, regista di Fiore (2016) e La paranza dei bambini (2019), torna a Napoli a girare il suo quinto lungometraggio di finzione Hey Joe, presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma. Siamo nel 1944, in piena liberazione dal nazifascismo. Caffè, cioccolata e sigarette, è la storia raccontata dai nonni italiani sugli alleati americani che sbarcano sulla penisola. Qui invece, un giovane marine di nome Dean porta carne in scatola, minestre liofilizzate e chewing-gum a una bella ragazza che si chiama Lucia - diavolerie che nessuno aveva mai visto prima d’allora. È con l’appellativo “Hey Joe” che gli italiani approcciano i soldati statunitensi di stanza nel bel paese, offrendo loro quello che hanno, pistole, donne e malaffari. Dean e Lucia si innamorano, lei rimane incinta. Lui deve andare in America, ma le promette che tornerà a Napoli.
New Jersey, 1971. Dean è invecchiato, reduce da tre guerre. Da veterano passa la giornata a tracannare alcolici in un pub, nascondendosi dalla ex-moglie che lo insegue per farsi dare gli alimenti. “Se la pensione non ti basta, puoi anche trovarti un lavoro”. Lui allora vende la sua macchina. È un uomo irriconoscibile, lontano dalla promessa che fece a Lucia e non mantenne. Un giorno riceve un telegramma dalla Croce Rossa, risalente a 13 anni prima: il contenuto del messaggio lo informa della morte della giovane donna e del desiderio, del figlio, di conoscere il padre biologico. Senza pensarci troppo, racimola un po’ di spicci e si imbarca per l’Italia, ricordando i momenti di felicità lontana. Approdato a Napoli, la città è immutata, tra una balera dove suonano “Love me tender love me sweet” di Elvis, la base Nato trafficata da giovani marines e i vicoli pullulanti di vecchi ciarlatani, si convince che il tempo non è perduto e che il passato può ancora essere riscattato.
Appoggiato al bancone, un whisky nella mano e sigaretta nell’altra, Dean fa la conoscenza di Bambi, un’avvenente scugnizza dei Quartieri Spagnoli che truffa gli uomini promettendo in cambio amore. Gli italiani sono furbi, ma gli americani non sono scemi: l’uomo, minaccioso, aspetta la ragazza fuori dal pub. Se non gli restituisce i soldi rubati, lui la porta dalla polizia. Bambi col bottino ci ha comprato la merce da contrabbando, allora lei gli propone di entrare in affari. Nella dialettica contrattuale che fin da subito s’instaura tra i due, la ragazza gli promette di aiutarlo a trovare Enzo, il figlio illegittimo avuto con Lucia. Seguendo voci di quartiere e vecchie commari, l’americano rintraccia il giovane, ora adulto che lavora in una piazzetta di spaccio e vive di piccoli espedienti. Enzo scambia il padre per un cliente, gli vende dell’hashish. Dean sorride, come divertito. Alla ricerca di un rapporto da recuperare, tra i due nasce un’insolita amicizia dove l’intelligibilità della logica americana si confronta con l’indecifrabilità dell’ermeneutica italiana.
Molti temi si intrecciano in una storia di padri e figli di difficile identificazione. Il copione, scritto in collaborazione con Maurizio Braucci e Massimo Gaudioso, porterebbe in analisi l’accattivante identità americana filtrata dall’occhio disincantato degli italiani. L’anonimato del soldato semplice, il John Doe di turno, è qui trasfigurato nel veterano di guerra, eroe privato dell’onore alla ricerca di ciò che rimane delle sue vecchie conquiste. Il confronto con la complessità nostrana, secolarizzata dai legami familiari inscindibili, è dolce e ironico, come quando padre e figlio mettono a paragone le loro ferite - quelle di Dean da guerra, quelle di Enzo da coltellate - o quando l’idea di divertimento di Bambi è guardare la tv. Dean, che deve rimanere in città per recuperare denaro a sufficienza e tornarsene in America, vuole solo parlare col ragazzo, ma a poco a poco entra nei suoi meccanismi e conquista la sua fiducia. Il problema è che il pargolo ritrovato non spaccia solo fumo e coca, è invischiato in brutti giri: l’incontro con il padre adottivo, il mafioso Don Vittorio, innesca un duello dove il futuro di Enzo diventa l’oggetto di contenzioso.
I riferimenti all’ethos dei meridionali, la logica del contratto, la semantica del crimine e altri luoghi comuni strappano un sorriso, ma non sfatano alcun mito. Sul piano poetico, il desiderio di paternità di un uomo solitario non solo rimane inesplorato, ma la profondità emotiva che l’apparato drammaturgico vuole infondere alla narrazione, trascinata da una nenia petulante da carillon, riposa tutta su un James Franco che più che affranto, risulta affaticato. I numerosi primi piani sul protagonista, invece di suggerire emozioni, restituiscono la tipica confusione dell’americano in viaggio nel Mediterraneo. Eppure, le controparti italiane, caricature ingessate dei loro stessi attori, sono così bidimensionali che al confronto quella di Franco pare un’interpretazione da premiare...con il Telegatto, però. Se il divo di Hollywood, dopo le accuse e i contraccolpi del MeToo, desiderava ricominciare dall’Italia, con Hey Joe è la volta buona che ci rimane.
Altrettanto gratuiti i flashback nel passato: volti a giustificare il soggiorno emotivo che lo stanco veterano prolunga ad oltranza, questi inserti diventano stucchevoli così come le immagini d’archivio di guerra. Altri clichés, come l’amore che nasce tra Bambi e Dean, le missioni del contrabbando e le cene in osteria con tanto di stornelli, perorano la superficialità di una storia che, se a stento si regge in piedi, cade rovinosamente con l’affettazione del set design: luci soffuse, interni bui e scenografie da fiction di costume restituiscono un’atmosfera così artificiale, pulita e lucidata che la Napoli di Giovannesi sembra piuttosto la Livorno di Paolo Virzì. Pure i riferimenti storici, per quanto precisi, non redimono una narrazione che vorrebbe rompere l’impenetrabilità del maschile, decostruire la figura del soldato ed elevare l’affetto incondizionato che ciascun padre riserva ai figli - anche quelli che non ha mai riconosciuto. La visione non elogia né il personaggio di Dean né il talento di Franco, non sconfessa l’esperienza militare né ci dà modo di affezionarci alla realtà descritta.
Troppi interrogativi accompagnano la produzione di un lavoro che non è il migliore di nessuna delle parti coinvolte. Nel caso Hey Joe nasca dal desiderio di sfatare il mito americano, i dialoghi sono invecchiati molto in fretta; se invece, attraverso il traffico dei prodotti americani in Italia, il focus della storia fosse sulla legalità, anche qui le commedie di Sybilia con Edoardo Leo sono più informative; infine, nell’ipotesi ultima di smascherare l’eroismo maschile e approfondire il tema della paternità, ci ha già pensato l’Ulysses di Joyce più di un secolo fa. Hey Joe si risolve quindi in un tentativo fallimentare di creolizzazione audiovisiva e culturale. Della famosa canzone di Hendrix, l’ultima fatica del regista romano prende solo il titolo, mentre colpisce e affonda il potenziale dei temi dibattuti in quel periodo di profondi cambiamenti.