di Beatrice Gangi
NC-253
22.11.2024
Tra le qualità tradizionalmente associate alla sfera del femminile sono in genere citate doti come l'empatia, la ricettività, e la grazia. In particolare, in lingua inglese, è facile imbattersi in un termine dalla traduzione non immediata, che si riferisce ad una persona provvista di tali caratteristiche con l’appellativo di ‘nurturing’, o ‘nurturing person’. È un attributo con cui si esprime la capacità di aver cura di qualcosa di esterna al sé, quindi di “nutrirla”, e di provvedere a un particolare tipo di attenzione in grado, non semplicemente di crescerla, ma di renderla bella. L’ovvio riferimento è la premura di una madre verso il proprio bambino.
Per parlare di femminilità, nel saggio-documentario Witches, da oggi disponibile su MUBI, Elizabeth Sankey discute di streghe. Di origine britannica e qui al suo secondo lavoro di regia, la Sankey ha dimostrato, sin dall’esordio, la capacità di ri-contestualizzare frammenti di opere e riferimenti pre-esistenti in una narrazione inedita. CitandoThe Wonderful Wizard of Oz (Il meraviglioso Mago di Oz), esordisce infatti con un binomio, quello tra Glinda la strega buona ed Elphaba la strega cattiva: la strega buona è colei che detiene le già citate doti associate a una femminilità positiva (tra esse la propensione ad assumere un ruolo materno nei confronti della giovane protagonista, Dorothy), mentre la strega cattiva è colei che le disattende. Colei, dunque, che non dispone degli attributi fondamentali per sostenere e rendere più bello ciò che la circonda. Ed è un’ovvia impossibilità in quanto, essa stessa, non è qualcosa di bello.
Per Sankey, le streghe cattive nel cinema e nella storia sono un veicolo rappresentativo socialmente condiviso di un “fallimento” del femminile. Diluendo quest’idea di maligno in una narrazione autobiografica, la regista ripercorre il suo personale vissuto di “megera”, ovvero di madre apparentemente inidonea alla maternità, associando la sua esperienza a quella delle donne che, a partire dal XV secolo, si sono spontaneamente confessate streghe. Come soggetto del documentario, quindi, viene analizzata una delle condizioni maggiormente e storicamente stigmatizzate dalla collettività: la malattia mentale nel periodo perinatale. L'obbiettivo dell’opera è infatti quello di apportare un contributo al ridimensionamento di questo stigma, poiché prestando il proprio volto, e la propria storia, Elizabeth Sankey regala una voce a un disagio molto più diffuso di quanto si possa pensare, ma taciuto di default in una società in cui gli aspetti più grigi della gravidanza e del concepimento non sono né perdonabili né concepibili. È infatti un sentire comune che procreare e crescere un figlio debba essere un’esperienza (almeno qualora nasca sano) univocamente desiderabile e che, eventuali disagi da parte della madre, siano tendenzialmente ridimensionabili a un’eccessiva emotività.
Nel corso della sua analisi, Witches prende in esame la percezione comune per cui la figura materna è innatamente associata all’idea di sicurezza, in una correlazione assiomatica favorevole allo sviluppo del bambino durante l’infanzia. Una donna colpita da depressione post-partum, forme di psicosi, o da un generale alteramento psicologico derivante da una così profonda trasformazione corporea e ormonale, non è conseguentemente considerabile una brava madre, una brava donna, e forse neanche una brava persona. E, piuttosto che una sensibilizzazione su queste condizioni come reali patologie, il biasimo collettivo verso le “madri difettate” è così ancorato che sono esse stesse a condannarsi in prima persona. Provano vergogna, senso di colpa, di solitudine, e, come dimostrano i dati relativi alla mortalità delle donne in stato di gravidanza negli ultimi anni, sempre più spesso si tolgono la vita. La rilevanza di Witches si trova proprio nella sua testimonianza di come queste esperienze siano, in primo luogo frequenti, e in secondo luogo normalmente trattabili.
Inizialmente poco evidente, il parallelismo con l’immaginario della stregoneria attraverso i secoli (con puntuali riferimenti alla storia del cinema) media il messaggio della regista in un linguaggio universale e immediatamente comprensibile, attraverso l’uso consapevole di semplici frammenti. Brevi sequenze senza contesto. Isabelle Adjani che, in Possession (1981), alza la testa verso un crocefisso stringendo tra le mani una borsa bianca, Mia Farrow, in Rosemary’s Baby (1968), che esce dallo studio del ginecologo, Anya Taylor-joy che, in The Witch (2015), cerca un bambino rapito dal diavolo, o Veronica Lake che in I Married a Witch (Ho sposato una strega, 1942) sorride ambiguamente. Sguardi e gesti che sembrano snudare un disagio molto più quotidiano rispetto a una, di certo poco comune, possessione o presenza satanica. Similmente, Sankey sottolinea come le testimonianze delle confesse streghe citate nel documentario, tra cui Anna Moats, Elizabeth Clarke, e Mary Scrutton, suonino sorprendentemente simili alle recenti esperienze di donne come Catherine Cho, convinta della presenza del diavolo negli occhi del figlio neonato.
Appare chiaro in Witches come queste streghe moderne non siano, a discapito dei pregiudizi, donne dissennate, malvagie, o che avrebbero fatto meglio a non diventare madri. Al contrario, hanno forse dovuto affrontare sfide particolarmente pesanti per poter crescere il proprio bambino, così da conquistare quell’indole materna apparentemente così sfuggente. Per quanto alcune interpretazioni della Sankey possano risultare aleatorie, è innegabile la sottile riflessione della regista su come la persecuzione millenaria di ciò che esonda dalla femminilità tradizionale, anziché rafforzarla, non faccia che renderla potenzialmente sempre più fragile. Nel romanzo della scrittrice britannica e premio Nobel Doris Lessing, The Fifth Child (Il Quinto Figlio), la protagonista Harriet Lovatt è una madre che odia attivamente il proprio bambino. Al contempo, lo ama come lo amerebbe qualsiasi altra madre. Ben è cattivo, strano, scontroso, brutto. Lei pensa che non sia neanche umano. Parlando con il marito sostiene che siano stati puniti, puniti per aver preteso troppo. Per aver supposto una vita felice, e aver deciso, a priori, che la loro felicità si sarebbe basata sul concepire figli.
Come nel romanzo della Lessing, Elizabeth Sankey non dubita del legame - incontestabile - tra madre e figlio. Dubita, semplicemente, della falsa univocità dell’esperienza femminile nel vivere la maternità. La riflessione, al contrario di quanto si teme affrontando un soggetto così delicato, non rischia di contaminare l’assioma di madre come sicurezza, ma di ridimensionare l’aspettativa di perfezione attorno alla sua figura. La costruzione di Witches come di un viaggio guidato nell’area oscura della femminilità risulta, nella scelta di ogni riferimento, storia, e testimonianza, intenzionale al proponimento di questo messaggio.
Non un monito didascalico verso la scelta di procreare o meno, ma un emozionale invito ad accettare anche la “strega cattiva”. Concepire avversione e angoscia, timore, dubbio, o anche rimpianto. Provare disagio, stanchezza, malessere. Comprendere la fragilità e la delicatezza insite nel creare vita. Sentimenti spiacevoli. Ma che, come sottolinea Elizabeth Sankey, sono interdipendenti ai loro opposti.
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di Beatrice Gangi
NC-253
22.11.2024
Tra le qualità tradizionalmente associate alla sfera del femminile sono in genere citate doti come l'empatia, la ricettività, e la grazia. In particolare, in lingua inglese, è facile imbattersi in un termine dalla traduzione non immediata, che si riferisce ad una persona provvista di tali caratteristiche con l’appellativo di ‘nurturing’, o ‘nurturing person’. È un attributo con cui si esprime la capacità di aver cura di qualcosa di esterna al sé, quindi di “nutrirla”, e di provvedere a un particolare tipo di attenzione in grado, non semplicemente di crescerla, ma di renderla bella. L’ovvio riferimento è la premura di una madre verso il proprio bambino.
Per parlare di femminilità, nel saggio-documentario Witches, da oggi disponibile su MUBI, Elizabeth Sankey discute di streghe. Di origine britannica e qui al suo secondo lavoro di regia, la Sankey ha dimostrato, sin dall’esordio, la capacità di ri-contestualizzare frammenti di opere e riferimenti pre-esistenti in una narrazione inedita. CitandoThe Wonderful Wizard of Oz (Il meraviglioso Mago di Oz), esordisce infatti con un binomio, quello tra Glinda la strega buona ed Elphaba la strega cattiva: la strega buona è colei che detiene le già citate doti associate a una femminilità positiva (tra esse la propensione ad assumere un ruolo materno nei confronti della giovane protagonista, Dorothy), mentre la strega cattiva è colei che le disattende. Colei, dunque, che non dispone degli attributi fondamentali per sostenere e rendere più bello ciò che la circonda. Ed è un’ovvia impossibilità in quanto, essa stessa, non è qualcosa di bello.
Per Sankey, le streghe cattive nel cinema e nella storia sono un veicolo rappresentativo socialmente condiviso di un “fallimento” del femminile. Diluendo quest’idea di maligno in una narrazione autobiografica, la regista ripercorre il suo personale vissuto di “megera”, ovvero di madre apparentemente inidonea alla maternità, associando la sua esperienza a quella delle donne che, a partire dal XV secolo, si sono spontaneamente confessate streghe. Come soggetto del documentario, quindi, viene analizzata una delle condizioni maggiormente e storicamente stigmatizzate dalla collettività: la malattia mentale nel periodo perinatale. L'obbiettivo dell’opera è infatti quello di apportare un contributo al ridimensionamento di questo stigma, poiché prestando il proprio volto, e la propria storia, Elizabeth Sankey regala una voce a un disagio molto più diffuso di quanto si possa pensare, ma taciuto di default in una società in cui gli aspetti più grigi della gravidanza e del concepimento non sono né perdonabili né concepibili. È infatti un sentire comune che procreare e crescere un figlio debba essere un’esperienza (almeno qualora nasca sano) univocamente desiderabile e che, eventuali disagi da parte della madre, siano tendenzialmente ridimensionabili a un’eccessiva emotività.
Nel corso della sua analisi, Witches prende in esame la percezione comune per cui la figura materna è innatamente associata all’idea di sicurezza, in una correlazione assiomatica favorevole allo sviluppo del bambino durante l’infanzia. Una donna colpita da depressione post-partum, forme di psicosi, o da un generale alteramento psicologico derivante da una così profonda trasformazione corporea e ormonale, non è conseguentemente considerabile una brava madre, una brava donna, e forse neanche una brava persona. E, piuttosto che una sensibilizzazione su queste condizioni come reali patologie, il biasimo collettivo verso le “madri difettate” è così ancorato che sono esse stesse a condannarsi in prima persona. Provano vergogna, senso di colpa, di solitudine, e, come dimostrano i dati relativi alla mortalità delle donne in stato di gravidanza negli ultimi anni, sempre più spesso si tolgono la vita. La rilevanza di Witches si trova proprio nella sua testimonianza di come queste esperienze siano, in primo luogo frequenti, e in secondo luogo normalmente trattabili.
Inizialmente poco evidente, il parallelismo con l’immaginario della stregoneria attraverso i secoli (con puntuali riferimenti alla storia del cinema) media il messaggio della regista in un linguaggio universale e immediatamente comprensibile, attraverso l’uso consapevole di semplici frammenti. Brevi sequenze senza contesto. Isabelle Adjani che, in Possession (1981), alza la testa verso un crocefisso stringendo tra le mani una borsa bianca, Mia Farrow, in Rosemary’s Baby (1968), che esce dallo studio del ginecologo, Anya Taylor-joy che, in The Witch (2015), cerca un bambino rapito dal diavolo, o Veronica Lake che in I Married a Witch (Ho sposato una strega, 1942) sorride ambiguamente. Sguardi e gesti che sembrano snudare un disagio molto più quotidiano rispetto a una, di certo poco comune, possessione o presenza satanica. Similmente, Sankey sottolinea come le testimonianze delle confesse streghe citate nel documentario, tra cui Anna Moats, Elizabeth Clarke, e Mary Scrutton, suonino sorprendentemente simili alle recenti esperienze di donne come Catherine Cho, convinta della presenza del diavolo negli occhi del figlio neonato.
Appare chiaro in Witches come queste streghe moderne non siano, a discapito dei pregiudizi, donne dissennate, malvagie, o che avrebbero fatto meglio a non diventare madri. Al contrario, hanno forse dovuto affrontare sfide particolarmente pesanti per poter crescere il proprio bambino, così da conquistare quell’indole materna apparentemente così sfuggente. Per quanto alcune interpretazioni della Sankey possano risultare aleatorie, è innegabile la sottile riflessione della regista su come la persecuzione millenaria di ciò che esonda dalla femminilità tradizionale, anziché rafforzarla, non faccia che renderla potenzialmente sempre più fragile. Nel romanzo della scrittrice britannica e premio Nobel Doris Lessing, The Fifth Child (Il Quinto Figlio), la protagonista Harriet Lovatt è una madre che odia attivamente il proprio bambino. Al contempo, lo ama come lo amerebbe qualsiasi altra madre. Ben è cattivo, strano, scontroso, brutto. Lei pensa che non sia neanche umano. Parlando con il marito sostiene che siano stati puniti, puniti per aver preteso troppo. Per aver supposto una vita felice, e aver deciso, a priori, che la loro felicità si sarebbe basata sul concepire figli.
Come nel romanzo della Lessing, Elizabeth Sankey non dubita del legame - incontestabile - tra madre e figlio. Dubita, semplicemente, della falsa univocità dell’esperienza femminile nel vivere la maternità. La riflessione, al contrario di quanto si teme affrontando un soggetto così delicato, non rischia di contaminare l’assioma di madre come sicurezza, ma di ridimensionare l’aspettativa di perfezione attorno alla sua figura. La costruzione di Witches come di un viaggio guidato nell’area oscura della femminilità risulta, nella scelta di ogni riferimento, storia, e testimonianza, intenzionale al proponimento di questo messaggio.
Non un monito didascalico verso la scelta di procreare o meno, ma un emozionale invito ad accettare anche la “strega cattiva”. Concepire avversione e angoscia, timore, dubbio, o anche rimpianto. Provare disagio, stanchezza, malessere. Comprendere la fragilità e la delicatezza insite nel creare vita. Sentimenti spiacevoli. Ma che, come sottolinea Elizabeth Sankey, sono interdipendenti ai loro opposti.
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