Il mostro cinematografico come metafora delle tensioni sociali,
dalla genesi dell’horror fino ad oggi,
di Beatrice Gangi
TR-110
31.10.2024
Nei termini della concezione dizionaristica, l’appellativo di mostro è circoscrivibile ad un essere le cui caratteristiche siano estranee al consueto ordine naturale, bizzarre e, di conseguenza, spiacevoli. Aspetti come deformità o cattiveria sono, tra le tante, esplicite manifestazioni di questa, imprescindibile, anomalia di fondo.
Eterno protagonista del panorama horror, il mostro è la figura cardine di un genere condiviso, per sua natura, come manifestazione simbolica di “tutto ciò che la nostra civiltà reprime o opprime” (Robin Wood, 1979), alias delle paure collettive che la società, negli anni, ha tentato o tenta di esorcizzare. Che si tratti di minacce realmente aberranti (quali la guerra), o derivative di una cultura retrogada (il sesso), le tensioni culturali via via ritratte nel cinema dell’orrore hanno sempre rimarcato ciò che, in un dato periodo storico, ha disgregato con maggior impatto il normale ordine prestabilito. Tensioni incarnate, su tutto, nella figura che ne fa da diretta metafora, quella del mostro. L’essere, sempre secondo Wood, "destinato ad essere sconfitto, controllato o distrutto, in quanto facendo ciò, la società afferma il suo diritto a mantenere lo status quo eliminando ciò che considera anormale o inaccettabile”. Per ogni paura da esorcizzare corrisponde quindi una nuova creatura da cui liberarsi.
Considerando la posizione di privilegio, del mostro e del suo ruolo, di rappresentante primario delle paure collettive delle diverse epoche, risulta senza dubbio interessante ripercorrerne brevemente la parabola storica, dall’esordio del genere fino al presente. Dunque, per quanto sia impossibile approfondirne in modo esauriente la storia in un singolo trattamento, è avvincente tentare di sondare una panoramica dei principali archetipi storici, ovvero delle paure che ne hanno segnato genesi, sviluppo e maturazione.
I primi mostri del cinema dell'orrore
Benché esista una manciata di opere precedenti agli anni 20 a fare da archetipo al genere, è nel secondo decennio del ‘900 che il cinema horror assume un’identità propria. È infatti nell’arco temporale dell’Età Interbellica (1918-1939) che la percezione della paura si consolida, naturalmente, come strettamente legata all’idea di guerra, al trauma di quella passata, al timore di una sua replica futura, alla memoria dei suoi effetti e all’apprensione per i suoi artefici. Ne consegue una caratterizzazione dei primi mostri a specchio delle tensioni internazionali, quindi in forma di una minaccia posta al di fuori della società, altera, e dalle motivazioni talvolta sfuggenti. Vi si distinguono, principalmente, due tipologie di mostri. Il primo è un mostro creato, estensione del potere di un demiurgo. Il secondo, sovente lo stesso demiurgo, è un mostro straniero, proveniente da un luogo esterno o altro rispetto a quello da lui posto sotto minaccia.
In riferimento alla prima categoria, è impossibile non citare tra i primissimi artefici del maligno il Dottor Caligari, apparso nel 1920 nel capolavoro espressionista Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari) del tedesco Robert Wiene. La sua creazione, Cesare, è un uomo-marionetta, posto sotto ipnosi e costretto all'obbedienza, quindi a commettere atti violenti in vece del suo “dio-padre”. Il personaggio del dottore, uno psichiatra errante che si sposta di fiera in fiera, prefigura le dinamiche di distorsione della verità, controllo psicologico, e manipolazione di massa che sarebbero emerse nei regimi totalitari, rendendo il primo un demiurgo orrorifico, di fatto analogo alla figura di un dittatore.
Con il passare del decennio, il potere del creatore appare inoltre sempre più legato a una presunta titolarità della scienza e del suo controllo, in particolare nella pretesa del progresso sia sullo spargimento di morte, che sulla creazione di vita. Ne è esempio il Dr. Frankenstein di James Whale - ma anche l’ Ardath Bey di The Mummy (La mummia, 1932) - che, nel 1931, crea, artificialmente, una vita che non è però in grado di dominare.
Al 1922, risale invece uno dei primi “stranieri” del cinema dell’orrore e, con il Nosferatu di F.W. Murnau, la figura del vampiro diventa la più caratteristica della minaccia di una, indefinita, invasione estera. Originaria dell’Europa dell’Est, è una creatura corrotta che si sposta verso l’Occidente (generalmente l’Europa centrale o l’Inghilterra), destabilizzando e maledicendo i popoli che si trovano lungo il suo percorso. Il conte Orlok è il diverso, l’estraneo, e colui che, come una guerra o disastri simili, trascina dietro di sé pestilenza e morte. Fisicamente e moralmente decadente, si nutre del sangue altrui per sopravvivere, diffondendo il suo degrado in tutto ciò che lo circonda. Il concetto, invariato nel successivo adattamento americano del romanzo Dracula (1931) diretto da George Melford, consacrerà l’horror come un genere codificato, da allora saldamente legato alla mitologia del vampirismo.
Nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, e in concomitanza ai primi anni della Guerra Fredda, vi sono gli ultimi esempi di questo tipo di creature, connotate però, come nel caso di Creature from the Black Lagoon (Il mostro della laguna nera, 1954) di Jack Arnold, da una maggiore vaghezza. Probabilmente in virtù della profonda incertezza del tempo, vi si riflette un’ansia atavica verso l’ignoto, ma anche uno dei primi esempi di tensione tra mondo naturale e mondo civile (connaturata dal periodo di Rinascita Economica e dalle sue relative apprensioni).
L’opera di Arnold chiude questi primi fondamentali anni, consolidando un’idea di mostruoso valida ancora oggi, una più ampia concezione di paura legata a una minaccia esterna al nucleo di appartenenza, caratterizzata da imprevedibilità, alterità, e propensione al bestiale. Sarà poi quello degli anni ’70 il decennio a cui risalirà il più iconico dei mostri derivati da questo archetipo, il gigante bianco di Jaws (Lo squalo, 1975), di Steven Spielberg. Sinonimo per antonomasia della vulnerabilità collettiva della società di fronte a minacce inaspettate, lo squalo incarna, in forma viscerale, la paura del predatore esterno alla vista, in attesa e invisibile, se non nel momento dell’attacco.
Gli anni della guerra fredda e i mostri di massa
Nell’America delle prime fasi della Guerra Fredda, i mostri iniziano a mancare, in primo luogo, di una loro connotazione individuale e di un’identità propria, in secondo luogo, di una vera e propria pericolosità se sottratti alla “massa” di cui sono comunemente parte. Così come era rappresentato il comunista in America, il mostro è parte di un collettivo, è anonimo, ed è conforme. Vi si riflettono gli invasori alieni di Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, 1956) di Don Siegel, che sostituendosi agli esseri umani, li assimilano, così da crearne copie perfette ma prive di anima. Dunque, una minaccia estranea, bramosa di usurpare il singolo della propria individualità, così da farne una nuova massa a sé omologabile.
E vi si riflettono, nel 1968, i non morti di Romero. In Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi), l’orda di mostri è infatti mostrata come in assedio di un simbolo: la casa americana. Casa, i cui “individualisti” ospiti, non sono in grado di proteggere in modo organizzato, causa l’incapacità di funzionare in forma di gruppo anziché di individuo. In senso più ampio, il mostro diviene “di massa” non solo come distorsione dell’ideologia sovietica, ma in risposta alla nascita della società americana del consumo negli anni ‘60, alla pressione collettiva verso un modello di vita omologato e mutuamente stimolabile.
Con il prolungamento delle tensioni politiche e dei conflitti globali, l’indistinta paura della “massa”, o nel caso di The Birds (Gli uccelli, 1963) di Alfred Hitchcock, dello stormo, si focalizza sull’ansia del suo fine ultimo: l’infiltrazione e la destabilizzazione della comunità. Ne è esempio The Thing (La Cosa, 1982), l’essere mutaforma che, nel film di John Carpenter, si insinua in una base di ricerca statunitense, disintegrandola dall’interno. La creatura, in grado di imitare alla perfezione le altre forme di vita, genera una diffusa paranoia dell’altro e sfiducia interpersonale, devastando il gruppo non tanto tramite la propria forza, quanto facilitandone l’autodistruzione.
Spostandosi in Europa, ne è invece esempio il microcosmo familiare che Andrzej Żuławski racconta in Possession (1981). In anticipo sui tempi, Żuławski associa alla psicologia del tradimento e alla divisione ideologica tipiche della Guerra Fredda, la tematica intimista della dissoluzione relazionale. Focalizzandosi, per semplicità, sulla lettura politica, il mostro del film è una delle più complesse raffigurazioni del risultato del conflitto globale. Concepito a Berlino, città simbolo della divisione tra Est e Ovest, è la decomposizione di un’unione, un aborto. Denominato “Possibilità”, le sue caratteristiche fondamentali non sono dissimili dalla Cosa di Carpenter, e la sua gestazione contro-natura conduce, implicitamente, verso la rovina di una terza guerra mondiale.
I mostri interni e la crisi morale degli anni Settanta
Nel 1970, con la fondazione dell’EPA, nascono le politiche ecologiche moderne, a seguito dell'intensificazione dei disastri ambientali. Gli anni subito successivi sono segnati da eventi di uguale importanza storica sia negli Stati Uniti (lo scandalo Watergate, la pubblicazione dei Pentagon Papers, la sentenza Roe v. Wade della Corte Suprema), sia, ovviamente, nel resto del mondo, come la crisi energetica globale del 1973 e la Caduta di Saigon nel 1975. I dibattiti sulle tensioni armate onnipresenti e sulla bioetica, la sfiducia verso le istituzioni, la rivendicazione dei diritti primari dell’individuo e la crescente secolarizzazione hanno segnato gli anni ‘70 come un periodo di crisi generalizzata: morale, religiosa, economica e di costume.
Di conseguenza, la sfiducia che nel periodo delle guerre mondiali si orientava prevalentemente verso l’esterno nella forma di un “loro” contro un “noi”, del “diverso” contro il “familiare”, inizia a vacillare, causa la sempre maggiore consapevolezza di come il “minaccioso” sia tanto esterno alla società quanto una sua parte insita per natura. E, quando nel 1973, esce al cinema The Exorcist (L’Esorcista) di William Friedkin, il suo mostro blasfemo non è né un alieno, né una creatura favolistica, e neanche un invasore dell’est, è una bambina privilegiata posseduta dal demonio.
Nel rivoluzionario horror di Friedkin, il concetto di possessione si estende quindi nel contesto urbano della classe sociale medio-alta (appunto la casa di Georgetown di Chris MacNeil, affermata attrice di Hollywood) e, ufficialmente, il male entra in famiglia. In riferimento alle vittime, si fa molestia della vita quotidiana della “persona qualunque”, ovvero chi più è esposto o più risente dello smarrimento generale di una società disillusa da un sistema di valori ormai compromesso.
Risale inoltre agli stessi anni il consolidamento di Tobe Hooper come altro grande innovatore del genere. Viene distribuito in sala, nel 1974, The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta), e il nuovo archetipo di cinema dell’orrore si riconferma, dopo The Exorcist, nella violenza come interna alla comunità, minaccia del nucleo privato degli amici e della famiglia. Ma in questo caso, il mostro non è semplicemente un pericolo circoscritto al nucleo privato, è egli stesso un nucleo privato. Di fatti, per quanto Leatherface sia diventato negli anni un’icona cult e volto dell’intera saga, il vero mostro di The Texas Chainsaw Massacre è la famiglia. Una famiglia, la famiglia Sawyer, priva di pietà, priva di rimorso, composta da una perversione dei suoi ruoli maschili tradizionali (il padre, il nonno, il figlio maggiore, il figlio minore), disintegrata e disumana. I Sawyer compongono un esempio di maligno radicatosi nelle periferie, definibile come il diretto risultato della crisi morale del 1970, il prodotto umano privo di fede, privo di valori, privo di sicurezza e controllo.
All’approccio maschile di The Texas Chainsaw Massacre, si affianca poi un contraltare femminile, derivativo dalla Seconda Ondata del movimento femminista iniziato negli anni ‘60. Dai dibattiti sulla liberazione sessuale, la parità di genere e l’autodeterminazione del corpo, nonché dalla nascita della controcultura hippie derivò un’agitazione condivisa sulla figura della donna, considerata alla stregua di una minaccia moderna all’ordine sociale tradizionale. Ancora una volta, nasce un nuovo mostro: la femmina.
In Carrie (1976) di Brain De Palma, l’horror si fa ritratto della paura della fertilità e del sesso. La diatriba tra libertà e repressione, anticipata nello Psycho (1960) di Hitchcock - ma addirittura già nel 1942, in Cat People (Il bacio della pantera) di Jacques Tourneur - si chiude in Carrie con un gioco a somma zero, in cui gli “esponenti” delle due fazioni si disintegrano a vicenda. Proprio grazie al film di De Palma, si è poi consolidato il tropo orrorifico della maturazione sessuale come trasformativa della donna in una creatura destabilizzante. Esempio aggiornato della tendenza è, nel 2000, il cult di genere Licantropia Evolution (Ginger Snaps), allegorico della pubertà. In questo film di John Fawcett, all’elemento satanico si sostituisce l’idea di una licantropia concomitante al primo ciclo mestruale, ovvio riferimento allo stigma della donna sessualmente attiva come aggressiva, lasciva, e quindi assimilabile al bestiale.
Le ansie di un decennio, a livello internazionale, trasformativo e complesso come quello degli anni ‘70 sono infine facilmente riassumibili grazie a un’icona tra le più rivoluzionarie della storia del cinema, lo Xenomorfo. Apparso per la prima volta in Alien (1979), lo Xenomorfo è molto di più di un semplice mostro cinematografico, è l’apoteosi delle paure universali di una società sfiduciata. Una creatura postmoderna, asessuata, l’alieno di Ridley Scott nasce, adattandosi ed evolvendosi tramite il codice genetico della vittima, mediante l’aberrazione dell’atto del parto.
Rappresenta un nuovo organismo, perfetto, efficiente, evoluto, per cui l’essere umano è puramente strumentale. Così come progettato dal disegnatore originale, HR Giger, è inoltre il primo mostro biomeccanico della storia del cinema, un essere sia nato che fatto, trascendente il naturale, e quindi associabile al risultato di un processo di ingegneria biologica. Di conseguenza, il perfezionamento di una creatura oltre l’umano, rispetto a cui l’umano è strutturalmente più debole e quindi arretrato, fuori tempo. Riflette, in poche parole, la retrocessione dell’uomo da creatura dominante a semplice preda.
Gli anni Ottanta: violenza seriale e violenza del corpo
Sul finire degli anni ‘70, conclusosi il periodo d’oro della rivoluzione sessuale e della cultura hippie americana, la moralità giovanile persiste nell’essere etichettata come un elemento societario tendenzialmente problematico. Il mostro, ormai continuativamente parte della collettività americana, è sempre ambiguo, violento, e distorto ma, al contempo, diventa punitore di una gioventù “altrettanto corrotta”. In tuta da meccanico e maschera cerata, Michael Myers (Halloween, 1978) fa ritorno nella sua cittadina natale, Haddonfield, dove assassina una serie di ragazzi. Considerando la sua prospettiva, li sceglie senza un particolare criterio.
Per il pubblico, sono giovani che hanno intrapreso (o hanno intenzione di intraprendere) un rapporto sessuale, che hanno bevuto alcool o che, in via generale, hanno “trasgredito” al buon costume. Una scelta casuale, una lettura negata dallo stesso Carpenter, ma che ha contribuito alla nascita del boogeyman moralista. Analoghi a Michael Myers, sono proprio il demone del sonno Freddy Krueger (Nightmare, 1984), e Jason, il killer armato di machete di Venerdì 13 (1980). Un timore e senso di colpa, quello del sesso e delle sue conseguenze, che si trascina ancora oggi, in creature come “l’esso” di It Follows (2014), allegoria del rischio intrinseco al rapporto sessuale.
Assolutamente da citare per gli anni ‘80, è quindi il tema del corpo in senso stretto e, con la nascita del body horror, della sua deformazione. Il genere nasce, da registi quali Cronenberg, come diretto risultato del panico generato dalla diffusione dell’AIDS (il cui primo caso riportato risale al 1981), al tempo percepita come trasmissibile anche tramite il semplice contatto fisico. Dunque propagabile con la stessa casuale semplicità che porta Seth Brundle, in The Fly (La mosca, 1986), a fondere inavvertitamente i propri geni con quelli di una mosca. Progressivamente, ma inesorabilmente, il corpo di Seth muta, l’infezione si propaga, l’umano lascia spazio al bestiale, diventando quello della “Brundlemosca”, un ritratto grafico e disturbante del terrore del contagio e della malattia. Con Cronenberg, la paura del corpo si sostituisce alla primaria paura del sesso, e a sconvolgere non è più il dibattito etico sulla sua pratica ma il suo potenziale effetto contaminante.
Sempre negli stessi anni, ai killer di “vittime trasgressive” iniziano ad accostarsi assassini di vittime effettivamente casuali, se non stereotipicamente innocenti. E’ il caso di Pennywise (It, 1990), tra i predatori più noti dell’intero panorama horror, clown assassino di bambini, adolescenti, e giovani uomini. Pennywise ha esordito nella cultura popolare solo a pochi anni dall’arresto di John Wayne Gacy (avvenuto nel 1978), criminale noto per la sua duplice identità. In pubblico, rispettabile uomo d’affari e clown per piccole feste, nel privato, predatore degenere di almeno 33 vittime.
Parallelamente, il Killer dello Zodiaco, Ted Bundy, Jeffrey Dahmer, e Richard Ramirez diventarono i primi serial killer del lessico popolare, associandosi a un generale aumento del tasso di omicidi e all’utilizzo di armi da fuoco. Si alimentò, negli Stati Uniti, la cultura della paura, una forma di copertura sensazionalistica quanto estesa del crimine, che scolpì l’idea, mai realmente superata neanche al giorno d’oggi, del criminale invisibile come epidemico e onnipresente. Il mostro rimane parte della collettività, ma al contempo, è più difficile da notare. Prende di mira, per divertimento, i più vulnerabili e gli isolati. É sadico, cinico, spietato, apparentemente istintivo ma allo stesso tempo strategico. Sa come e dove nascondersi.
Da prototipi come Judd, l’albergatore reietto di Eaten Alive! (Quel motel vicino alla palude, 1976), a John Ryder (The Hitcher, 1986), che prima di uccidere “gioca” con i suoi bersagli, fino a Chucky - Child's Play (La bambola assassina, 1988) - bambolotto intriso dell’anima di un omicida, il personaggio del serial killer è probabilmente uno dei più riproposti sul finire degli anni ‘80. Ne è l’apoteosi l’Hannibal Lecter di The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, 1991), il subdolo genio psicopatico per eccellenza che, in soli 16 minuti di scena, si è affermato come uno dei cattivi più celebri della storia di Hollywood.
Il "maligno mediatico" e la responsabilità morale negli anni Novanta
Ai mostri da notiziario, si accosta la demonizzazione di quello che ne è il mediatore con la persona comune: il televisore. Citando nuovamente un’opera di Hooper, Poltergeist (1982) è il primo film in cui l’entità malvagia, più che infiltrarsi nella sicurezza domestica, dispone del veicolo elettronico come mezzo preesistente per carpirne gli abitanti. Poltergeist riflette, attraverso il suo simbolo centrale, la crescente percezione della tecnologia come un agente alienante piuttosto che benefico. Questa sfiducia verso la trasmissione del male attraverso i media non sarà mai destinata ad esaurirsi, ma a progredire con essi, culminando, nel 1998, con il famosissimo Ring (1998) di Hideo Nakata. Sadako, uno spirito vendicativo di per sé "banale", è entrata nella storia del cinema grazie al veicolo con cui diffonde la propria maledizione: un breve filmato formato videocassetta.
In corrispondenza della maggiore consapevolezza del ruolo attivo dei media nella dietrologia e iper-esposizione alla violenza, il cattivo da slasher diventa anch’esso consapevole del suo ruolo di intrattenitore macabro. Si dibatte e si teme che l’esposizione alla violenza porti a una desensibilizzazione dei giovani, rendendo l’orrore un divertimento da emulare. In Scream (1996) il costume parodistico di Ghostface, del fantasma ululante, è intercambiabile tra chi, per vendetta o per curiosità, vuole sperimentare l’ebbrezza del ferire e uccidere.
Quella di Scream è un’autoconsapevolezza portata all’estremo solo l’anno successivo, nel disturbante Funny Games (1997) di Michael Haneke. Peter e Paul, mentre si divertono a torturare e umiliare una famiglia, ammiccano allo spettatore e, compiaciuti, rompono ripetutamente la quarta parete. Banalmente crudeli, sono consapevoli della presenza del pubblico come complice primario ma passivo del loro sadismo. Sanno che lo spettatore prova gusto verso ciò che sta guardando, che desidera essere intrattenuto, e che più agiranno in modo estremo più egli sarà soddisfatto. Sanno anche che, come loro, lo spettatore non ha rispetto per le vittime. Meno che umana, la vittima esiste come un oggetto da maneggiare e distruggere a piacimento.
Non solo la manipolazione mediatica, all’alba del nuovo millennio Funny Games di Haneke mette in discussione la responsabilità morale del singolo in un contesto diffuso di ambiguità morale. Così, nell’epoca successiva all’11 Settembre, aumentano le discussioni sulla giustizia punitiva, sul merito, sulla colpa, e sulla loro sorveglianza. Allo stesso tempo, l’idea di punizione del comportamento trasgressivo dei primi slasher si evolve nell’idea di punizione di una più complessa e intima amoralità. L’utilizzo di alcool e il sesso prematrimoniale non sono più comportamenti castigabili. L’indifferenza verso la sofferenza altrui lo è. Così come lo sono la menzogna, l’infedeltà, l’egoismo. E così come lo è la mancanza di rispetto per la vita.
L’Enigmista (Saw) nasce, nel 2004, a incarnazione del giudice iniquo di colpevoli “indegni di esistere”. Jigsaw non sevizia per il gusto di farlo ma in virtù di una grottesca offerta di redenzione in un sistema arbitrario di colpe, da lui sentenziato e da lui sanzionabile. L’orrore, si riflette nel sistema punitivo che ne consegue, parziale rispetto al “crimine” compiuto dall’imputato. Non solo l’Enigmista, sono titolari del potere giudiziario numerosi antagonisti degli anni, tra cui il personaggio della zingara di Sam Raimi, che in Drag me to hell (2009) apre, letteralmente, la porta dell’Inferno a una giovane ragazza che, per eccessiva ambizione, le nega la proroga di un mutuo già ampiamente esteso.
Infine, al giudizio sulla moralità etica si accosta quello sulla moralità affettiva, quale il comune delitto di un amore disonesto. Takashi Miike dirige Audition (1999), la storia di un vedovo che organizza delle audizioni per un film fittizio, così da selezionare la prossima moglie tra le aspiranti attrici. Incontra Asami, come lui una manipolatrice, come lui profondamente sola, e gli viene chiesta una cosa: “ama solamente me”. Asami evolve l’archetipo del mostro femmina, dalla semplice donna a quella "ideale": il risultato di secoli di pressioni e aspettative maschili sul ruolo della donna nella società. Asami è, al contempo, giudice morale della sfera privata e incarnazione della perdita di controllo in una relazione primaria (ovvero romantica o familiare), dal 2000, uno dei soggetti principali del cinema horror.
Il nuovo millennio: il mostro affettivo e il mostro ereditato
Negli ultimi anni, il mostruoso delle relazioni primarie è diventato sempre più dominante. A differenza delle prime aberrazioni sociali del passato (quindi i già citati The Exorcist e The Texas Chainsaw Massacre, ma anche figure come il Jack Torrance di Shining), non si tratta di “devianze” facilmente percettibili, ma nascoste dietro la falsa garanzia di un ruolo sociale desiderabile, dalla donna ideale (come nel caso di Asami), al marito devoto, fino al figlio perfetto. Nel 2020, la maggiore attenzione verso il tema dell’abuso da parte del partner e della violenza domestica, ha generato uno dei cattivi più noti dell’anno: l’uomo invisibile. Nel film di Leigh Whannell (rilettura dell’omonima pellicola del 1933) l’uomo invisibile è, in una relazione, il maschio abusante. Fino a pochi anni fa, una “creatura” impercettibile, difficile da dimostrare e di dubbia credibilità, e, nei confronti della vittima, in una posizione di potere e di controllo.
Vi si accosta la concezione sempre più consapevole e diversificata della maternità. Il ruolo della madre, comunemente inteso come protettivo, benevolo, e fonte di amore incondizionato, assume tratti, sin dal finire dei primi anni 2000, e con riferimento a fondamentali precursori del genere, quali Rosemary's Baby (1968) di Roman Polański, sempre più ambivalenti. Nel 2009, Kate, protagonista di Orphan, adotta una bambina, Esther, a compensare un precedente aborto e la colpa di una condotta irresponsabile. Eppure, dietro l’innocente facciata di Esther, si nasconde una donna adulta e psicotica. Secondo alcune letture, rappresenta il taboo della perversione e della deviazione dell’infanzia, l’estremizzazione del timore di correre un rischio, procreare, per poi doversi confrontare con un’eventuale “anormalità” del risultato.
Ancora più esplicita, è la figura del Babadook (dall’omonimo film del 2014 di Jennifer Kent), personificazione del trauma non elaborato e della depressione genitoriale. Abnorme se lasciato senza controllo, il Babadook non può essere ucciso né sconfitto, e, come i disturbi che rappresenta, più viene negato più diviene resistente. Ma, sempre al pari di questi disturbi, può essere ridimensionato, ridotto a rifugiarsi in cantina, mansueto, e a nutrirsi di vermi, in attesa di qualcuno che passi a dargli conforto.
Nel 2018 esce poi Hereditary di Ari Aster, horror per eccellenza del nucleo familiare come luogo orrorifico. Attenendosi alla tematica intergenerazionale Aster considera come i nostri genitori, i nostri geni, le nostre inclinazioni, le nostre sciagure, così come i nostri privilegi, siano elementi, in larga misura, ereditati. Tra questi elementi, l'ereditarietà del titolo riguarda il male che si propaga, come un virus, da una generazione all'altra. Il mostro, una matriarca untrice, diviene così una figura presente nella storia solo tramite il suo lascito, in quanto deceduta prima dell’inizio dei fatti. Di conseguenza, il vero antagonista di Hereditary si trova nel passato, nell’idea di un progenitore egoista le cui colpe condannano, e ricadono, nel presente e per via ereditaria. Da un certo punto di vista, l’eredità in senso lato, intesa come l’eredità condivisa del contemporaneo, è un concetto di primo piano nell’horror degli ultimissimi anni. In un’evoluzione dell’idea di punizione morale delle scelte personali, si sviluppa l’idea di punizione per colpe acquisite dal passato, sia in relazione all’altro (quindi in riferimento a concetti come l’ineguaglianza e la divisione sociale), che nei confronti di macro-temi quali l’attuale crisi ambientale.
Del primo caso, sono sicuramente esemplari due lungometraggi di Jordan Peele, Get Out (2017) e Us (2019). In Get Out, la famiglia Armitage, bianca, di classe borghese, “progressista”, prova un feticismo morboso per i corpi delle persone nere, considerati come oggetti di cui appropriarsi in virtù di aspetti fisici considerati desiderabili. Get Out è una critica a comunità che si presentano come “post-razziali”, apparentemente rispettose, ma in cui le dinamiche di potere tradizionale persistono, attualizzate e meglio celate. Nel successivo Us, invece, l’antagonista è il “Tethered”, ovvero il doppio, una versione di noi stessi che è stata abbandonata, rifiutata, emarginata, relegata all’invisibilità e condannata a vivere, letteralmente, sotto. In un periodo di disparità sociale sempre più ampia, dove le posizioni di privilegio sono spesso frutto di un’eredità fortuita, l’ansia collettiva nasce dal senso di colpa e dalla responsabilità morale nel beneficiare di un benessere costruito a spese di altri.
Esempio dell’altra macro-categoria è uno dei primi mostri nati dalla negligenza ambientale, l’essere mutante anfibio di The Host (2006) di Bong Joon-ho. Una moderna creatura della laguna nera nata da un versamento di sostanze chimiche nel fiume Han, è ideata dal regista coreano come icona esplicita delle conseguenze della negligenza ambientale e delle politiche irresponsabili che ne sono alla base. Un’altra interessante rappresentazione della tematica si trova poi nel film del 2018 Annihilation (Annientamento), diretto da Alex Garland, monito della subordinazione dell’uomo rispetto alla natura da lui abitata. Nell’ecosistema anarchico dell’Area X, le forme viventi che vi nascono o che vi entrano, ovvero gli umani, vengono continuamente rimescolate, alterate, distrutte e ricomposte. L’idea, è quella della potenziale crudeltà di un'inversione dei ruoli, ovvero in un ambiente naturale che anziché adattarsi all’abuso umano, vincola l’umano stesso ad adattarsi ai suoi squilibri. La creatura che abita nel suo centro, è l’apoteosi di come la natura esposta a minacce esterne (quali l’intervento umano) non rischi di perirne, ma di rifletterne una, caotica, riconfigurazione.
Lo stato delle cose
Arrivando al tempo presente, la costante rivalutazione del passato si associa a un profondo scetticismo tanto sul futuro quanto sul contemporaneo, incarnati, il primo dalla dipendenza tecnologica, il secondo dalla società dell’apparenza. Ben manifesta è la diffusa avversione verso l’intelligenza artificiale, infrastrutturale alla società contemporanea quanto priva di etica propria, di conseguenza, tra i più quotati mostri moderni. In via esplicita, si riflette in veri e propri automi, quali M3GAN (M3GAN, 2022), surrogato materno e relazionale, o STEM (Upgrade, 2018), un impianto cibernetico avanzato (emule malvagio dell’ HAL 9000 di Kubrick) che, impiantato in un corpo umano, ne può prendere facilmente il sopravvento.
In via meno diretta, film quali Possessor (di Brandon Cronenberg, 2020) propongono la tecnologia come un mezzo non semplicemente alienante, ma disintegratore dell’identità personale umana. La protagonista, Tasya, fa infatti uso di un dispositivo che le permette di “collegarsi” a corpi altrui, sfruttandoli come avatar personali, in un evidente parallelismo con la moderna frammentazione tra identità reale e identità online (quindi strumentale ad assumere la voluta maschera).
Apparire in un certo modo, essere riconosciuti, i riflettori e la fama, abitano il panorama horror come persistenti ossessioni della modernità. Da un lato per questioni di ego, quali la ricerca di validazione, dall’altro in reazione all’impatto culturale del successo rapido, quindi all’idea delle piattaforme connesse come mezzo di successo facile. La Trilogia X di Ti West (X, Pearl e MaXXXine, girati tra 2022 e il 2024) ben incarna quella ricerca di gratificazione, prevalentemente femminile, che si aspira ad ottenere grazie a un pubblico. Vi si accosta la critica alla sempreverde criminalizzazione verso la vecchiaia, che fin da What Ever Happened to Baby Jane? (Che fine ha fatto Baby Jane?, 1962) di Robert Aldrich si rispecchia nella metamorfosi della donna anziana in una “gorgone maligna”.
La più interessante incarnazione del concetto di fama facile è invece trasposta in Nope (Jordan Peele, 2022), nella creatura denominata ironicamente Jean Jacket. L’essere, inizialmente dall’aspetto stereotipato di un ufo, fa la sua comparsa e, più che generare convenuta paura, genera una rincorsa verso il “colpo perfetto”, ovvero all’azione di scattargli una foto esclusiva con cui diventare famosi. Nella più ampia critica di Peele sulla mercificazione (specificatamente del trauma) propria al mondo dello spettacolo, Jean Jacket è il mostro “notorietà”, la sensazione da rincorrere, a rischio e pericolo, per ottenere i tanto agognati 15 minuti di celebrità con cui cambiarsi la vita.
Con la corruzione dell’idea di legittimazione personale, si arriva quindi al giorno d’oggi. Un percorso, quello del mostro, tuttora in trasformazione in cui è interessante però sottolineare delle prime conclusioni. In particolare, una macro-tendenza riscontrabile nell’intero secolo. Escludendo dalla considerazione la costante riproposizione di archetipi passati, i mostri “inediti” nel tempo generati dalla società appaiono continuativamente più intimi. Da invasori esterni, a reietti della comunità, fino ad amanti, a madri, padri, figli. Se cento anni fa i mostri abitavano all’esterno di una chimerica eticità condivisa, con l’evoluzione del genere ne sono diventati prodotti diretti. Diventa evidente: è la società che genera i mostri.
E, se all’inizio si tratta di criminali, di assassini, e di deviati, al peggio dei nostri affetti, alla fine sono diventati parti dell’individuo stesso. Sono cominciati a nascere dal senso di colpa, dal disturbo mentale, dal trauma e, se si parla di società dello spettacolo, a far paura non per i loro effetti fisici, ma per il loro impatto distruttivo su ciò chè c’è di più intimo, l’io. Quindi sui limiti dell’identità, sul suo controllo, sulla sua espropriazione, su ciò che ne convalida l’esistenza. In chiusura, si potrebbe sottolineare come l’horror non sia, diversamente a quanto largamente condiviso, un genere cinematografico di secondaria importanza. Al contrario, è forse quello che, su tutti, è in grado di incarnare, con estrema efficienza, una parabola collettiva delicata come quella dei nostri mostri, collettivamente generati, collettivamente temuti, e collettivamente repressi.
Il mostro cinematografico
come metafora delle tensioni sociali,
dalla genesi dell’horror fino ad oggi,
di Beatrice Gangi
TR-110
31.10.2024
Nei termini della concezione dizionaristica, l’appellativo di mostro è circoscrivibile ad un essere le cui caratteristiche siano estranee al consueto ordine naturale, bizzarre e, di conseguenza, spiacevoli. Aspetti come deformità o cattiveria sono, tra le tante, esplicite manifestazioni di questa, imprescindibile, anomalia di fondo.
Eterno protagonista del panorama horror, il mostro è la figura cardine di un genere condiviso, per sua natura, come manifestazione simbolica di “tutto ciò che la nostra civiltà reprime o opprime” (Robin Wood, 1979), alias delle paure collettive che la società, negli anni, ha tentato o tenta di esorcizzare. Che si tratti di minacce realmente aberranti (quali la guerra), o derivative di una cultura retrogada (il sesso), le tensioni culturali via via ritratte nel cinema dell’orrore hanno sempre rimarcato ciò che, in un dato periodo storico, ha disgregato con maggior impatto il normale ordine prestabilito. Tensioni incarnate, su tutto, nella figura che ne fa da diretta metafora, quella del mostro. L’essere, sempre secondo Wood, "destinato ad essere sconfitto, controllato o distrutto, in quanto facendo ciò, la società afferma il suo diritto a mantenere lo status quo eliminando ciò che considera anormale o inaccettabile”. Per ogni paura da esorcizzare corrisponde quindi una nuova creatura da cui liberarsi.
Considerando la posizione di privilegio, del mostro e del suo ruolo, di rappresentante primario delle paure collettive delle diverse epoche, risulta senza dubbio interessante ripercorrerne brevemente la parabola storica, dall’esordio del genere fino al presente. Dunque, per quanto sia impossibile approfondirne in modo esauriente la storia in un singolo trattamento, è avvincente tentare di sondare una panoramica dei principali archetipi storici, ovvero delle paure che ne hanno segnato genesi, sviluppo e maturazione.
I primi mostri del cinema dell'orrore
Benché esista una manciata di opere precedenti agli anni 20 a fare da archetipo al genere, è nel secondo decennio del ‘900 che il cinema horror assume un’identità propria. È infatti nell’arco temporale dell’Età Interbellica (1918-1939) che la percezione della paura si consolida, naturalmente, come strettamente legata all’idea di guerra, al trauma di quella passata, al timore di una sua replica futura, alla memoria dei suoi effetti e all’apprensione per i suoi artefici. Ne consegue una caratterizzazione dei primi mostri a specchio delle tensioni internazionali, quindi in forma di una minaccia posta al di fuori della società, altera, e dalle motivazioni talvolta sfuggenti. Vi si distinguono, principalmente, due tipologie di mostri. Il primo è un mostro creato, estensione del potere di un demiurgo. Il secondo, sovente lo stesso demiurgo, è un mostro straniero, proveniente da un luogo esterno o altro rispetto a quello da lui posto sotto minaccia.
In riferimento alla prima categoria, è impossibile non citare tra i primissimi artefici del maligno il Dottor Caligari, apparso nel 1920 nel capolavoro espressionista Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari) del tedesco Robert Wiene. La sua creazione, Cesare, è un uomo-marionetta, posto sotto ipnosi e costretto all'obbedienza, quindi a commettere atti violenti in vece del suo “dio-padre”. Il personaggio del dottore, uno psichiatra errante che si sposta di fiera in fiera, prefigura le dinamiche di distorsione della verità, controllo psicologico, e manipolazione di massa che sarebbero emerse nei regimi totalitari, rendendo il primo un demiurgo orrorifico, di fatto analogo alla figura di un dittatore.
Con il passare del decennio, il potere del creatore appare inoltre sempre più legato a una presunta titolarità della scienza e del suo controllo, in particolare nella pretesa del progresso sia sullo spargimento di morte, che sulla creazione di vita. Ne è esempio il Dr. Frankenstein di James Whale - ma anche l’ Ardath Bey di The Mummy (La mummia, 1932) - che, nel 1931, crea, artificialmente, una vita che non è però in grado di dominare.
Al 1922, risale invece uno dei primi “stranieri” del cinema dell’orrore e, con il Nosferatu di F.W. Murnau, la figura del vampiro diventa la più caratteristica della minaccia di una, indefinita, invasione estera. Originaria dell’Europa dell’Est, è una creatura corrotta che si sposta verso l’Occidente (generalmente l’Europa centrale o l’Inghilterra), destabilizzando e maledicendo i popoli che si trovano lungo il suo percorso. Il conte Orlok è il diverso, l’estraneo, e colui che, come una guerra o disastri simili, trascina dietro di sé pestilenza e morte. Fisicamente e moralmente decadente, si nutre del sangue altrui per sopravvivere, diffondendo il suo degrado in tutto ciò che lo circonda. Il concetto, invariato nel successivo adattamento americano del romanzo Dracula (1931) diretto da George Melford, consacrerà l’horror come un genere codificato, da allora saldamente legato alla mitologia del vampirismo.
Nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, e in concomitanza ai primi anni della Guerra Fredda, vi sono gli ultimi esempi di questo tipo di creature, connotate però, come nel caso di Creature from the Black Lagoon (Il mostro della laguna nera, 1954) di Jack Arnold, da una maggiore vaghezza. Probabilmente in virtù della profonda incertezza del tempo, vi si riflette un’ansia atavica verso l’ignoto, ma anche uno dei primi esempi di tensione tra mondo naturale e mondo civile (connaturata dal periodo di Rinascita Economica e dalle sue relative apprensioni).
L’opera di Arnold chiude questi primi fondamentali anni, consolidando un’idea di mostruoso valida ancora oggi, una più ampia concezione di paura legata a una minaccia esterna al nucleo di appartenenza, caratterizzata da imprevedibilità, alterità, e propensione al bestiale. Sarà poi quello degli anni ’70 il decennio a cui risalirà il più iconico dei mostri derivati da questo archetipo, il gigante bianco di Jaws (Lo squalo, 1975), di Steven Spielberg. Sinonimo per antonomasia della vulnerabilità collettiva della società di fronte a minacce inaspettate, lo squalo incarna, in forma viscerale, la paura del predatore esterno alla vista, in attesa e invisibile, se non nel momento dell’attacco.
Gli anni della guerra fredda e i mostri di massa
Nell’America delle prime fasi della Guerra Fredda, i mostri iniziano a mancare, in primo luogo, di una loro connotazione individuale e di un’identità propria, in secondo luogo, di una vera e propria pericolosità se sottratti alla “massa” di cui sono comunemente parte. Così come era rappresentato il comunista in America, il mostro è parte di un collettivo, è anonimo, ed è conforme. Vi si riflettono gli invasori alieni di Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, 1956) di Don Siegel, che sostituendosi agli esseri umani, li assimilano, così da crearne copie perfette ma prive di anima. Dunque, una minaccia estranea, bramosa di usurpare il singolo della propria individualità, così da farne una nuova massa a sé omologabile.
E vi si riflettono, nel 1968, i non morti di Romero. In Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi), l’orda di mostri è infatti mostrata come in assedio di un simbolo: la casa americana. Casa, i cui “individualisti” ospiti, non sono in grado di proteggere in modo organizzato, causa l’incapacità di funzionare in forma di gruppo anziché di individuo. In senso più ampio, il mostro diviene “di massa” non solo come distorsione dell’ideologia sovietica, ma in risposta alla nascita della società americana del consumo negli anni ‘60, alla pressione collettiva verso un modello di vita omologato e mutuamente stimolabile.
Con il prolungamento delle tensioni politiche e dei conflitti globali, l’indistinta paura della “massa”, o nel caso di The Birds (Gli uccelli, 1963) di Alfred Hitchcock, dello stormo, si focalizza sull’ansia del suo fine ultimo: l’infiltrazione e la destabilizzazione della comunità. Ne è esempio The Thing (La Cosa, 1982), l’essere mutaforma che, nel film di John Carpenter, si insinua in una base di ricerca statunitense, disintegrandola dall’interno. La creatura, in grado di imitare alla perfezione le altre forme di vita, genera una diffusa paranoia dell’altro e sfiducia interpersonale, devastando il gruppo non tanto tramite la propria forza, quanto facilitandone l’autodistruzione.
Spostandosi in Europa, ne è invece esempio il microcosmo familiare che Andrzej Żuławski racconta in Possession (1981). In anticipo sui tempi, Żuławski associa alla psicologia del tradimento e alla divisione ideologica tipiche della Guerra Fredda, la tematica intimista della dissoluzione relazionale. Focalizzandosi, per semplicità, sulla lettura politica, il mostro del film è una delle più complesse raffigurazioni del risultato del conflitto globale. Concepito a Berlino, città simbolo della divisione tra Est e Ovest, è la decomposizione di un’unione, un aborto. Denominato “Possibilità”, le sue caratteristiche fondamentali non sono dissimili dalla Cosa di Carpenter, e la sua gestazione contro-natura conduce, implicitamente, verso la rovina di una terza guerra mondiale.
I mostri interni e la crisi morale degli anni Settanta
Nel 1970, con la fondazione dell’EPA, nascono le politiche ecologiche moderne, a seguito dell'intensificazione dei disastri ambientali. Gli anni subito successivi sono segnati da eventi di uguale importanza storica sia negli Stati Uniti (lo scandalo Watergate, la pubblicazione dei Pentagon Papers, la sentenza Roe v. Wade della Corte Suprema), sia, ovviamente, nel resto del mondo, come la crisi energetica globale del 1973 e la Caduta di Saigon nel 1975. I dibattiti sulle tensioni armate onnipresenti e sulla bioetica, la sfiducia verso le istituzioni, la rivendicazione dei diritti primari dell’individuo e la crescente secolarizzazione hanno segnato gli anni ‘70 come un periodo di crisi generalizzata: morale, religiosa, economica e di costume.
Di conseguenza, la sfiducia che nel periodo delle guerre mondiali si orientava prevalentemente verso l’esterno nella forma di un “loro” contro un “noi”, del “diverso” contro il “familiare”, inizia a vacillare, causa la sempre maggiore consapevolezza di come il “minaccioso” sia tanto esterno alla società quanto una sua parte insita per natura. E, quando nel 1973, esce al cinema The Exorcist (L’Esorcista) di William Friedkin, il suo mostro blasfemo non è né un alieno, né una creatura favolistica, e neanche un invasore dell’est, è una bambina privilegiata posseduta dal demonio.
Nel rivoluzionario horror di Friedkin, il concetto di possessione si estende quindi nel contesto urbano della classe sociale medio-alta (appunto la casa di Georgetown di Chris MacNeil, affermata attrice di Hollywood) e, ufficialmente, il male entra in famiglia. In riferimento alle vittime, si fa molestia della vita quotidiana della “persona qualunque”, ovvero chi più è esposto o più risente dello smarrimento generale di una società disillusa da un sistema di valori ormai compromesso.
Risale inoltre agli stessi anni il consolidamento di Tobe Hooper come altro grande innovatore del genere. Viene distribuito in sala, nel 1974, The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta), e il nuovo archetipo di cinema dell’orrore si riconferma, dopo The Exorcist, nella violenza come interna alla comunità, minaccia del nucleo privato degli amici e della famiglia. Ma in questo caso, il mostro non è semplicemente un pericolo circoscritto al nucleo privato, è egli stesso un nucleo privato. Di fatti, per quanto Leatherface sia diventato negli anni un’icona cult e volto dell’intera saga, il vero mostro di The Texas Chainsaw Massacre è la famiglia. Una famiglia, la famiglia Sawyer, priva di pietà, priva di rimorso, composta da una perversione dei suoi ruoli maschili tradizionali (il padre, il nonno, il figlio maggiore, il figlio minore), disintegrata e disumana. I Sawyer compongono un esempio di maligno radicatosi nelle periferie, definibile come il diretto risultato della crisi morale del 1970, il prodotto umano privo di fede, privo di valori, privo di sicurezza e controllo.
All’approccio maschile di The Texas Chainsaw Massacre, si affianca poi un contraltare femminile, derivativo dalla Seconda Ondata del movimento femminista iniziato negli anni ‘60. Dai dibattiti sulla liberazione sessuale, la parità di genere e l’autodeterminazione del corpo, nonché dalla nascita della controcultura hippie derivò un’agitazione condivisa sulla figura della donna, considerata alla stregua di una minaccia moderna all’ordine sociale tradizionale. Ancora una volta, nasce un nuovo mostro: la femmina.
In Carrie (1976) di Brain De Palma, l’horror si fa ritratto della paura della fertilità e del sesso. La diatriba tra libertà e repressione, anticipata nello Psycho (1960) di Hitchcock - ma addirittura già nel 1942, in Cat People (Il bacio della pantera) di Jacques Tourneur - si chiude in Carrie con un gioco a somma zero, in cui gli “esponenti” delle due fazioni si disintegrano a vicenda. Proprio grazie al film di De Palma, si è poi consolidato il tropo orrorifico della maturazione sessuale come trasformativa della donna in una creatura destabilizzante. Esempio aggiornato della tendenza è, nel 2000, il cult di genere Licantropia Evolution (Ginger Snaps), allegorico della pubertà. In questo film di John Fawcett, all’elemento satanico si sostituisce l’idea di una licantropia concomitante al primo ciclo mestruale, ovvio riferimento allo stigma della donna sessualmente attiva come aggressiva, lasciva, e quindi assimilabile al bestiale.
Le ansie di un decennio, a livello internazionale, trasformativo e complesso come quello degli anni ‘70 sono infine facilmente riassumibili grazie a un’icona tra le più rivoluzionarie della storia del cinema, lo Xenomorfo. Apparso per la prima volta in Alien (1979), lo Xenomorfo è molto di più di un semplice mostro cinematografico, è l’apoteosi delle paure universali di una società sfiduciata. Una creatura postmoderna, asessuata, l’alieno di Ridley Scott nasce, adattandosi ed evolvendosi tramite il codice genetico della vittima, mediante l’aberrazione dell’atto del parto.
Rappresenta un nuovo organismo, perfetto, efficiente, evoluto, per cui l’essere umano è puramente strumentale. Così come progettato dal disegnatore originale, HR Giger, è inoltre il primo mostro biomeccanico della storia del cinema, un essere sia nato che fatto, trascendente il naturale, e quindi associabile al risultato di un processo di ingegneria biologica. Di conseguenza, il perfezionamento di una creatura oltre l’umano, rispetto a cui l’umano è strutturalmente più debole e quindi arretrato, fuori tempo. Riflette, in poche parole, la retrocessione dell’uomo da creatura dominante a semplice preda.
Gli anni Ottanta: violenza seriale e violenza del corpo
Sul finire degli anni ‘70, conclusosi il periodo d’oro della rivoluzione sessuale e della cultura hippie americana, la moralità giovanile persiste nell’essere etichettata come un elemento societario tendenzialmente problematico. Il mostro, ormai continuativamente parte della collettività americana, è sempre ambiguo, violento, e distorto ma, al contempo, diventa punitore di una gioventù “altrettanto corrotta”. In tuta da meccanico e maschera cerata, Michael Myers (Halloween, 1978) fa ritorno nella sua cittadina natale, Haddonfield, dove assassina una serie di ragazzi. Considerando la sua prospettiva, li sceglie senza un particolare criterio.
Per il pubblico, sono giovani che hanno intrapreso (o hanno intenzione di intraprendere) un rapporto sessuale, che hanno bevuto alcool o che, in via generale, hanno “trasgredito” al buon costume. Una scelta casuale, una lettura negata dallo stesso Carpenter, ma che ha contribuito alla nascita del boogeyman moralista. Analoghi a Michael Myers, sono proprio il demone del sonno Freddy Krueger (Nightmare, 1984), e Jason, il killer armato di machete di Venerdì 13 (1980). Un timore e senso di colpa, quello del sesso e delle sue conseguenze, che si trascina ancora oggi, in creature come “l’esso” di It Follows (2014), allegoria del rischio intrinseco al rapporto sessuale.
Assolutamente da citare per gli anni ‘80, è quindi il tema del corpo in senso stretto e, con la nascita del body horror, della sua deformazione. Il genere nasce, da registi quali Cronenberg, come diretto risultato del panico generato dalla diffusione dell’AIDS (il cui primo caso riportato risale al 1981), al tempo percepita come trasmissibile anche tramite il semplice contatto fisico. Dunque propagabile con la stessa casuale semplicità che porta Seth Brundle, in The Fly (La mosca, 1986), a fondere inavvertitamente i propri geni con quelli di una mosca. Progressivamente, ma inesorabilmente, il corpo di Seth muta, l’infezione si propaga, l’umano lascia spazio al bestiale, diventando quello della “Brundlemosca”, un ritratto grafico e disturbante del terrore del contagio e della malattia. Con Cronenberg, la paura del corpo si sostituisce alla primaria paura del sesso, e a sconvolgere non è più il dibattito etico sulla sua pratica ma il suo potenziale effetto contaminante.
Sempre negli stessi anni, ai killer di “vittime trasgressive” iniziano ad accostarsi assassini di vittime effettivamente casuali, se non stereotipicamente innocenti. E’ il caso di Pennywise (It, 1990), tra i predatori più noti dell’intero panorama horror, clown assassino di bambini, adolescenti, e giovani uomini. Pennywise ha esordito nella cultura popolare solo a pochi anni dall’arresto di John Wayne Gacy (avvenuto nel 1978), criminale noto per la sua duplice identità. In pubblico, rispettabile uomo d’affari e clown per piccole feste, nel privato, predatore degenere di almeno 33 vittime.
Parallelamente, il Killer dello Zodiaco, Ted Bundy, Jeffrey Dahmer, e Richard Ramirez diventarono i primi serial killer del lessico popolare, associandosi a un generale aumento del tasso di omicidi e all’utilizzo di armi da fuoco. Si alimentò, negli Stati Uniti, la cultura della paura, una forma di copertura sensazionalistica quanto estesa del crimine, che scolpì l’idea, mai realmente superata neanche al giorno d’oggi, del criminale invisibile come epidemico e onnipresente. Il mostro rimane parte della collettività, ma al contempo, è più difficile da notare. Prende di mira, per divertimento, i più vulnerabili e gli isolati. É sadico, cinico, spietato, apparentemente istintivo ma allo stesso tempo strategico. Sa come e dove nascondersi.
Da prototipi come Judd, l’albergatore reietto di Eaten Alive! (Quel motel vicino alla palude, 1976), a John Ryder (The Hitcher, 1986), che prima di uccidere “gioca” con i suoi bersagli, fino a Chucky - Child's Play (La bambola assassina, 1988) - bambolotto intriso dell’anima di un omicida, il personaggio del serial killer è probabilmente uno dei più riproposti sul finire degli anni ‘80. Ne è l’apoteosi l’Hannibal Lecter di The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, 1991), il subdolo genio psicopatico per eccellenza che, in soli 16 minuti di scena, si è affermato come uno dei cattivi più celebri della storia di Hollywood.
Il "maligno mediatico" e la responsabilità morale negli anni Novanta
Ai mostri da notiziario, si accosta la demonizzazione di quello che ne è il mediatore con la persona comune: il televisore. Citando nuovamente un’opera di Hooper, Poltergeist (1982) è il primo film in cui l’entità malvagia, più che infiltrarsi nella sicurezza domestica, dispone del veicolo elettronico come mezzo preesistente per carpirne gli abitanti. Poltergeist riflette, attraverso il suo simbolo centrale, la crescente percezione della tecnologia come un agente alienante piuttosto che benefico. Questa sfiducia verso la trasmissione del male attraverso i media non sarà mai destinata ad esaurirsi, ma a progredire con essi, culminando, nel 1998, con il famosissimo Ring (1998) di Hideo Nakata. Sadako, uno spirito vendicativo di per sé "banale", è entrata nella storia del cinema grazie al veicolo con cui diffonde la propria maledizione: un breve filmato formato videocassetta.
In corrispondenza della maggiore consapevolezza del ruolo attivo dei media nella dietrologia e iper-esposizione alla violenza, il cattivo da slasher diventa anch’esso consapevole del suo ruolo di intrattenitore macabro. Si dibatte e si teme che l’esposizione alla violenza porti a una desensibilizzazione dei giovani, rendendo l’orrore un divertimento da emulare. In Scream (1996) il costume parodistico di Ghostface, del fantasma ululante, è intercambiabile tra chi, per vendetta o per curiosità, vuole sperimentare l’ebbrezza del ferire e uccidere.
Quella di Scream è un’autoconsapevolezza portata all’estremo solo l’anno successivo, nel disturbante Funny Games (1997) di Michael Haneke. Peter e Paul, mentre si divertono a torturare e umiliare una famiglia, ammiccano allo spettatore e, compiaciuti, rompono ripetutamente la quarta parete. Banalmente crudeli, sono consapevoli della presenza del pubblico come complice primario ma passivo del loro sadismo. Sanno che lo spettatore prova gusto verso ciò che sta guardando, che desidera essere intrattenuto, e che più agiranno in modo estremo più egli sarà soddisfatto. Sanno anche che, come loro, lo spettatore non ha rispetto per le vittime. Meno che umana, la vittima esiste come un oggetto da maneggiare e distruggere a piacimento.
Non solo la manipolazione mediatica, all’alba del nuovo millennio Funny Games di Haneke mette in discussione la responsabilità morale del singolo in un contesto diffuso di ambiguità morale. Così, nell’epoca successiva all’11 Settembre, aumentano le discussioni sulla giustizia punitiva, sul merito, sulla colpa, e sulla loro sorveglianza. Allo stesso tempo, l’idea di punizione del comportamento trasgressivo dei primi slasher si evolve nell’idea di punizione di una più complessa e intima amoralità. L’utilizzo di alcool e il sesso prematrimoniale non sono più comportamenti castigabili. L’indifferenza verso la sofferenza altrui lo è. Così come lo sono la menzogna, l’infedeltà, l’egoismo. E così come lo è la mancanza di rispetto per la vita.
L’Enigmista (Saw) nasce, nel 2004, a incarnazione del giudice iniquo di colpevoli “indegni di esistere”. Jigsaw non sevizia per il gusto di farlo ma in virtù di una grottesca offerta di redenzione in un sistema arbitrario di colpe, da lui sentenziato e da lui sanzionabile. L’orrore, si riflette nel sistema punitivo che ne consegue, parziale rispetto al “crimine” compiuto dall’imputato. Non solo l’Enigmista, sono titolari del potere giudiziario numerosi antagonisti degli anni, tra cui il personaggio della zingara di Sam Raimi, che in Drag me to hell (2009) apre, letteralmente, la porta dell’Inferno a una giovane ragazza che, per eccessiva ambizione, le nega la proroga di un mutuo già ampiamente esteso.
Infine, al giudizio sulla moralità etica si accosta quello sulla moralità affettiva, quale il comune delitto di un amore disonesto. Takashi Miike dirige Audition (1999), la storia di un vedovo che organizza delle audizioni per un film fittizio, così da selezionare la prossima moglie tra le aspiranti attrici. Incontra Asami, come lui una manipolatrice, come lui profondamente sola, e gli viene chiesta una cosa: “ama solamente me”. Asami evolve l’archetipo del mostro femmina, dalla semplice donna a quella "ideale": il risultato di secoli di pressioni e aspettative maschili sul ruolo della donna nella società. Asami è, al contempo, giudice morale della sfera privata e incarnazione della perdita di controllo in una relazione primaria (ovvero romantica o familiare), dal 2000, uno dei soggetti principali del cinema horror.
Il nuovo millennio: il mostro affettivo e il mostro ereditato
Negli ultimi anni, il mostruoso delle relazioni primarie è diventato sempre più dominante. A differenza delle prime aberrazioni sociali del passato (quindi i già citati The Exorcist e The Texas Chainsaw Massacre, ma anche figure come il Jack Torrance di Shining), non si tratta di “devianze” facilmente percettibili, ma nascoste dietro la falsa garanzia di un ruolo sociale desiderabile, dalla donna ideale (come nel caso di Asami), al marito devoto, fino al figlio perfetto. Nel 2020, la maggiore attenzione verso il tema dell’abuso da parte del partner e della violenza domestica, ha generato uno dei cattivi più noti dell’anno: l’uomo invisibile. Nel film di Leigh Whannell (rilettura dell’omonima pellicola del 1933) l’uomo invisibile è, in una relazione, il maschio abusante. Fino a pochi anni fa, una “creatura” impercettibile, difficile da dimostrare e di dubbia credibilità, e, nei confronti della vittima, in una posizione di potere e di controllo.
Vi si accosta la concezione sempre più consapevole e diversificata della maternità. Il ruolo della madre, comunemente inteso come protettivo, benevolo, e fonte di amore incondizionato, assume tratti, sin dal finire dei primi anni 2000, e con riferimento a fondamentali precursori del genere, quali Rosemary's Baby (1968) di Roman Polański, sempre più ambivalenti. Nel 2009, Kate, protagonista di Orphan, adotta una bambina, Esther, a compensare un precedente aborto e la colpa di una condotta irresponsabile. Eppure, dietro l’innocente facciata di Esther, si nasconde una donna adulta e psicotica. Secondo alcune letture, rappresenta il taboo della perversione e della deviazione dell’infanzia, l’estremizzazione del timore di correre un rischio, procreare, per poi doversi confrontare con un’eventuale “anormalità” del risultato.
Ancora più esplicita, è la figura del Babadook (dall’omonimo film del 2014 di Jennifer Kent), personificazione del trauma non elaborato e della depressione genitoriale. Abnorme se lasciato senza controllo, il Babadook non può essere ucciso né sconfitto, e, come i disturbi che rappresenta, più viene negato più diviene resistente. Ma, sempre al pari di questi disturbi, può essere ridimensionato, ridotto a rifugiarsi in cantina, mansueto, e a nutrirsi di vermi, in attesa di qualcuno che passi a dargli conforto.
Nel 2018 esce poi Hereditary di Ari Aster, horror per eccellenza del nucleo familiare come luogo orrorifico. Attenendosi alla tematica intergenerazionale Aster considera come i nostri genitori, i nostri geni, le nostre inclinazioni, le nostre sciagure, così come i nostri privilegi, siano elementi, in larga misura, ereditati. Tra questi elementi, l'ereditarietà del titolo riguarda il male che si propaga, come un virus, da una generazione all'altra. Il mostro, una matriarca untrice, diviene così una figura presente nella storia solo tramite il suo lascito, in quanto deceduta prima dell’inizio dei fatti. Di conseguenza, il vero antagonista di Hereditary si trova nel passato, nell’idea di un progenitore egoista le cui colpe condannano, e ricadono, nel presente e per via ereditaria. Da un certo punto di vista, l’eredità in senso lato, intesa come l’eredità condivisa del contemporaneo, è un concetto di primo piano nell’horror degli ultimissimi anni. In un’evoluzione dell’idea di punizione morale delle scelte personali, si sviluppa l’idea di punizione per colpe acquisite dal passato, sia in relazione all’altro (quindi in riferimento a concetti come l’ineguaglianza e la divisione sociale), che nei confronti di macro-temi quali l’attuale crisi ambientale.
Del primo caso, sono sicuramente esemplari due lungometraggi di Jordan Peele, Get Out (2017) e Us (2019). In Get Out, la famiglia Armitage, bianca, di classe borghese, “progressista”, prova un feticismo morboso per i corpi delle persone nere, considerati come oggetti di cui appropriarsi in virtù di aspetti fisici considerati desiderabili. Get Out è una critica a comunità che si presentano come “post-razziali”, apparentemente rispettose, ma in cui le dinamiche di potere tradizionale persistono, attualizzate e meglio celate. Nel successivo Us, invece, l’antagonista è il “Tethered”, ovvero il doppio, una versione di noi stessi che è stata abbandonata, rifiutata, emarginata, relegata all’invisibilità e condannata a vivere, letteralmente, sotto. In un periodo di disparità sociale sempre più ampia, dove le posizioni di privilegio sono spesso frutto di un’eredità fortuita, l’ansia collettiva nasce dal senso di colpa e dalla responsabilità morale nel beneficiare di un benessere costruito a spese di altri.
Esempio dell’altra macro-categoria è uno dei primi mostri nati dalla negligenza ambientale, l’essere mutante anfibio di The Host (2006) di Bong Joon-ho. Una moderna creatura della laguna nera nata da un versamento di sostanze chimiche nel fiume Han, è ideata dal regista coreano come icona esplicita delle conseguenze della negligenza ambientale e delle politiche irresponsabili che ne sono alla base. Un’altra interessante rappresentazione della tematica si trova poi nel film del 2018 Annihilation (Annientamento), diretto da Alex Garland, monito della subordinazione dell’uomo rispetto alla natura da lui abitata. Nell’ecosistema anarchico dell’Area X, le forme viventi che vi nascono o che vi entrano, ovvero gli umani, vengono continuamente rimescolate, alterate, distrutte e ricomposte. L’idea, è quella della potenziale crudeltà di un'inversione dei ruoli, ovvero in un ambiente naturale che anziché adattarsi all’abuso umano, vincola l’umano stesso ad adattarsi ai suoi squilibri. La creatura che abita nel suo centro, è l’apoteosi di come la natura esposta a minacce esterne (quali l’intervento umano) non rischi di perirne, ma di rifletterne una, caotica, riconfigurazione.
Lo stato delle cose
Arrivando al tempo presente, la costante rivalutazione del passato si associa a un profondo scetticismo tanto sul futuro quanto sul contemporaneo, incarnati, il primo dalla dipendenza tecnologica, il secondo dalla società dell’apparenza. Ben manifesta è la diffusa avversione verso l’intelligenza artificiale, infrastrutturale alla società contemporanea quanto priva di etica propria, di conseguenza, tra i più quotati mostri moderni. In via esplicita, si riflette in veri e propri automi, quali M3GAN (M3GAN, 2022), surrogato materno e relazionale, o STEM (Upgrade, 2018), un impianto cibernetico avanzato (emule malvagio dell’ HAL 9000 di Kubrick) che, impiantato in un corpo umano, ne può prendere facilmente il sopravvento.
In via meno diretta, film quali Possessor (di Brandon Cronenberg, 2020) propongono la tecnologia come un mezzo non semplicemente alienante, ma disintegratore dell’identità personale umana. La protagonista, Tasya, fa infatti uso di un dispositivo che le permette di “collegarsi” a corpi altrui, sfruttandoli come avatar personali, in un evidente parallelismo con la moderna frammentazione tra identità reale e identità online (quindi strumentale ad assumere la voluta maschera).
Apparire in un certo modo, essere riconosciuti, i riflettori e la fama, abitano il panorama horror come persistenti ossessioni della modernità. Da un lato per questioni di ego, quali la ricerca di validazione, dall’altro in reazione all’impatto culturale del successo rapido, quindi all’idea delle piattaforme connesse come mezzo di successo facile. La Trilogia X di Ti West (X, Pearl e MaXXXine, girati tra 2022 e il 2024) ben incarna quella ricerca di gratificazione, prevalentemente femminile, che si aspira ad ottenere grazie a un pubblico. Vi si accosta la critica alla sempreverde criminalizzazione verso la vecchiaia, che fin da What Ever Happened to Baby Jane? (Che fine ha fatto Baby Jane?, 1962) di Robert Aldrich si rispecchia nella metamorfosi della donna anziana in una “gorgone maligna”.
La più interessante incarnazione del concetto di fama facile è invece trasposta in Nope (Jordan Peele, 2022), nella creatura denominata ironicamente Jean Jacket. L’essere, inizialmente dall’aspetto stereotipato di un ufo, fa la sua comparsa e, più che generare convenuta paura, genera una rincorsa verso il “colpo perfetto”, ovvero all’azione di scattargli una foto esclusiva con cui diventare famosi. Nella più ampia critica di Peele sulla mercificazione (specificatamente del trauma) propria al mondo dello spettacolo, Jean Jacket è il mostro “notorietà”, la sensazione da rincorrere, a rischio e pericolo, per ottenere i tanto agognati 15 minuti di celebrità con cui cambiarsi la vita.
Con la corruzione dell’idea di legittimazione personale, si arriva quindi al giorno d’oggi. Un percorso, quello del mostro, tuttora in trasformazione in cui è interessante però sottolineare delle prime conclusioni. In particolare, una macro-tendenza riscontrabile nell’intero secolo. Escludendo dalla considerazione la costante riproposizione di archetipi passati, i mostri “inediti” nel tempo generati dalla società appaiono continuativamente più intimi. Da invasori esterni, a reietti della comunità, fino ad amanti, a madri, padri, figli. Se cento anni fa i mostri abitavano all’esterno di una chimerica eticità condivisa, con l’evoluzione del genere ne sono diventati prodotti diretti. Diventa evidente: è la società che genera i mostri.
E, se all’inizio si tratta di criminali, di assassini, e di deviati, al peggio dei nostri affetti, alla fine sono diventati parti dell’individuo stesso. Sono cominciati a nascere dal senso di colpa, dal disturbo mentale, dal trauma e, se si parla di società dello spettacolo, a far paura non per i loro effetti fisici, ma per il loro impatto distruttivo su ciò chè c’è di più intimo, l’io. Quindi sui limiti dell’identità, sul suo controllo, sulla sua espropriazione, su ciò che ne convalida l’esistenza. In chiusura, si potrebbe sottolineare come l’horror non sia, diversamente a quanto largamente condiviso, un genere cinematografico di secondaria importanza. Al contrario, è forse quello che, su tutti, è in grado di incarnare, con estrema efficienza, una parabola collettiva delicata come quella dei nostri mostri, collettivamente generati, collettivamente temuti, e collettivamente repressi.