NC-238
01.10.2024
Da quando la Settima Arte ha fatto la sua prima comparsa alla fine dell’Ottocento, uno dei suoi obiettivi fu subito chiaro: quello di stupire lo spettatore e regalargli un’esperienza che lo facesse evadere, anche solo per pochi minuti, dalla realtà quotidiana, la possibilità di viaggiare con la mente e con la fantasia attraverso mondi impossibili da raggiungere fisicamente. Il sense of wonder, come definito dagli stessi americani, ha poi progressivamente fatto spazio, nel corso delle ere cinematografiche, ad un maggior senso di realtà al quale il cinema si è spesso ancorato, fino ad arrivare alle manifestazioni recenti, sempre più contornate da un’attitudine realista capace sì di riprodurre la quotidianità dell’individuo, ma allo stesso tempo di attutire, o quasi eliminare, la narrazione fantastica e sognante. Una manifestazione realistica che, fortunatamente, in alcuni casi è ancora oggi disattesa, dimostrando come anche il cinema odierno possa attingere dalle origini per celebrare l’atto della creazione cinematografica, in cui chi sta dietro la macchina da presa crea mondi a sé stanti capaci di trasportare lo spettatore in lidi ancora sconosciuti. Uno dei casi principe di quest’era cinematografica è The Fall (2006), stupenda opera fantasy di Tarsem Singh disponibile per la visione su MUBI.
Tarsem Singh ha cominciato la propria carriera come regista di videoclip. In particolare, tutti ricordano la sua presenza dietro la macchina da presa nel video del singolo Losing My Religion dei R.E.M., brano del 1991 con cui lo stesso regista ha poi vinto il premio per il miglior video dell'anno agli MTV Video Music Awards. Subito dopo, la carriera del cineasta indiano spicca il volo, e lui stesso si ritrova a dirigere alcuni spot pubblicitari per brand famosi in tutto il mondo, come Nike e Coca Cola. Dopo aver esordito con lo sci-fi The Cell (2000), interpretato tra gli altri da nomi dello star-system come Jennifer Lopez, Vince Vaughn e Vincent D’Onofrio, decide, al TIFF del 2006, di presentare la sua seconda opera, dal titolo The Fall.
The Fall è un rifacimento in grande stile del film bulgaro Yo Ho Ho (1981) di Valeri Petrov, al quale si ispira in modo del tutto libero, ma non meno affascinante. Nel raccontare il soggiorno all’interno di una struttura ospedaliera alla periferia di Los Angeles di Roy Walker (interpretato da Lee Pace) - stuntman rimasto paralizzato dopo una caduta riportata su un set cinematografico - Singh inserisce un senso primordiale e ancestrale alla vicenda. Il regista lega indissolubilmente la rappresentazione della storia allo stupore tipico delle antiche fiabe esotiche, che rivivono, anche e soprattutto, attraverso le forme visive e ai virtuosismi tecnici utilizzati in corso d’opera.
Fin dallo splendido incipit, in bianco e nero e in slow-motion, The Fall è un lungometraggio che si pone, ambiziosamente, l’obiettivo di rapportarsi con il mito, con la fondazione del cinema e quindi con le sue forme primigenie (come l’era del muto) per raccontare la genesi di tutto ciò che lo spettatore guarda, al giorno d’oggi, sullo schermo. Il viaggio, quindi, compiuto attraverso la narrazione in voice-over, non ha solo il compito di affascinare la co-protagonista, la quale si identifica con noi spettatori, ma anche di ripercorrere tutto ciò che ha riguardato la storia cinematografica dai primi del ‘900 fino ai giorni odierni. La vicenda, infatti, prosegue con un cambio di tono nei colori utilizzati, che passano dall’essere vivi e accesi ad essere sbiaditi e tenui - come se lo stesso regista volesse replicare il medesimo effetto seppia tipico della post-produzione dell’immaginario dei primi anni di storia del cinema.
L’interesse che Singh ripone nella fotografia e per i continui cambi di tonalità del colore ha, come compito, quello di alterare e comandare la percezione dello spettatore, il quale, tramite una perenne metamorfosi di sfumature sfoggiate, si perde in un mondo fantastico percependone in modo quasi immediato la magia che lo contorna, soprattutto grazie al suo formato grafico e alla color correction. In particolare, attraverso vari stacchi di montaggio del montatore Robert Duffy, che in alcuni momenti cede alla fascinazione per l’estetica post-moderna, contaminando proprio il linguaggio classico con quello dei videoclip attraverso tagli improvvisi e serrati, The Fall porta alla luce quanto la nostra mente e la nostra forte attrazione e attitudine nei confronti delle storie e della loro formulazione sia immediata, quasi impercettibile, e passi per frammenti apparentemente sconnessi tra loro, i quali assumono un senso solamente all’interno della nostra immaginazione e attraverso una nostra ricostruzione.
Proprio per questo motivo, è impossibile non paragonare il film di Singh e il suo universo narrativo al mitico Alejandro Jodorowsky, dal quale senza dubbi ha tratto ispirazione per The Fall a causa del suo universo surrealista fortemente ancorato alla riproposizione di immaginari pre-costituiti. In particolare, la riproduzione delle ambientazioni del film del 2006 riporta alla mente lo pseudo-western El Topo (1970), il quale approccia nello stesso modo una precisa poetica visiva che sfocia perlopiù nell’allegoria, utile a palesare un flusso di coscienza che ripercorre pienamente le orme della narrazione parlata, ovvero del racconto orale e delle storie tramandate a voce di generazioni in generazioni. Un innegabile richiamo anche all’impostazione dell’universo pittorico di un artista quale Salvador Dalì (i cui dipinti sono, naturalmente, paragonabili a veri e proprio stream of consciousness), ma anche ad un movimento cinematografico sottovalutato e pienamente avanguardistico quale la Nová Vlna cecoslovacca, la quale ha in comune lo sfrenato uso dell’onirismo e del simbolismo, utilizzati per mettere in scena le infinite possibilità e combinazioni narrative che la mente umana può fornire nell’atto della creazione di un’opera.
The Fall, dunque, è un film soprattutto sull’immaginazione, su come il potere delle storie possa espandere i confini della Settima Arte, portandola a materializzare qualcosa a cui, apparentemente, è impossibile dare una forma definita, un corpo dalle fattezze liquide e metamorfiche. In virtù di questa significazione, l’opera di Tarsem Singh ha ispirato e influenzato molto del cinema odierno. Basti pensare, semplicemente, a Three Thousand Years Of Longing (2022) di George Miller, adattamento cinematografico di The Djinn in the Nightingale's Eye (1994) di Antonia Susan Byatt. Proprio l’ultimo cinema di Miller, compreso il suo prequel Furiosa: A Mad Max Saga (2024), è inevitabilmente accostabile a The Fall e all’immaginario di Singh. Entrambi, infatti, trovano proprio nel potere della narrazione e nel merge con gli immaginari provenienti dal Medio Oriente il loro punto di forza, abilmente utilizzato per rinvigorire le vite umane tramite le storie e una verbalizzazione orale che diventa, a tutti gli effetti, una riflessione diretta sul ruolo primario di cui l’arte visuale (utilizzata proprio per dare corpo allo scritto) gode all’interno del contemporaneo. Una verbalizzazione che, però, appare svuotata di significati intrinsechi e accede, piuttosto, ad un ruolo scevro da sovra-interpretazioni, che appare diretto nel suo scopo. Entrambi, inoltre, utilizzano il digitale e le sue infinite possibilità di manipolazione come fonte di distorsione della realtà e, al contempo, evasione dagli stereotipi narrativi ed estetici odierni.
Conseguenza di suddetta scelta stilistica è un’opposizione radicale a questa tipologia di racconto che sfrutta molto di più la capacità del cinema di narrare attraverso le immagini, piuttosto che quella scritturale, senza però sovraccaricarla di significati eccessivi e contorti. Una visione antitetica, per esempio, rispetto al cinema di un gigante contemporaneo come Peter Greenaway, che, nonostante porti in dote la medesima carica artistica votata al cinema e la stessa volontà meta-cinematografica di sfruttare l’arte, si discosta da The Fall. Il cinema di Greenaway, infatti, assume una portata decisamente più sociologica, laddove la bulimia immaginifica di opere quali The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover (1989) o The Draughtman’s Contract (1982) finisce non solo per essere una contestualizzazione sociale di come l’arte possa assurgere ad un ruolo prettamente politico di derisione nei confronti delle classi sociali più nobili, ma anche un modo per rendere anarchica e anti-sistemica la pittura e, conseguentemente, l’immagine.
Per questi motivi, The Fall è da considerare ad oggi come un unicum nel suo genere, in grado di coniugare lo spazio cinematografico digitale e la sua liquidità con un sistema di narrazione fortemente analogico, che ripesca a piene mani dalla mitologia e dalle sue modalità di racconto.
Abbiamo collaborato con MUBI, clicca qui per vedere The Fall e ottenere 30 giorni gratis sulla piattaforma.
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01.10.2024
Da quando la Settima Arte ha fatto la sua prima comparsa alla fine dell’Ottocento, uno dei suoi obiettivi fu subito chiaro: quello di stupire lo spettatore e regalargli un’esperienza che lo facesse evadere, anche solo per pochi minuti, dalla realtà quotidiana, la possibilità di viaggiare con la mente e con la fantasia attraverso mondi impossibili da raggiungere fisicamente. Il sense of wonder, come definito dagli stessi americani, ha poi progressivamente fatto spazio, nel corso delle ere cinematografiche, ad un maggior senso di realtà al quale il cinema si è spesso ancorato, fino ad arrivare alle manifestazioni recenti, sempre più contornate da un’attitudine realista capace sì di riprodurre la quotidianità dell’individuo, ma allo stesso tempo di attutire, o quasi eliminare, la narrazione fantastica e sognante. Una manifestazione realistica che, fortunatamente, in alcuni casi è ancora oggi disattesa, dimostrando come anche il cinema odierno possa attingere dalle origini per celebrare l’atto della creazione cinematografica, in cui chi sta dietro la macchina da presa crea mondi a sé stanti capaci di trasportare lo spettatore in lidi ancora sconosciuti. Uno dei casi principe di quest’era cinematografica è The Fall (2006), stupenda opera fantasy di Tarsem Singh disponibile per la visione su MUBI.
Tarsem Singh ha cominciato la propria carriera come regista di videoclip. In particolare, tutti ricordano la sua presenza dietro la macchina da presa nel video del singolo Losing My Religion dei R.E.M., brano del 1991 con cui lo stesso regista ha poi vinto il premio per il miglior video dell'anno agli MTV Video Music Awards. Subito dopo, la carriera del cineasta indiano spicca il volo, e lui stesso si ritrova a dirigere alcuni spot pubblicitari per brand famosi in tutto il mondo, come Nike e Coca Cola. Dopo aver esordito con lo sci-fi The Cell (2000), interpretato tra gli altri da nomi dello star-system come Jennifer Lopez, Vince Vaughn e Vincent D’Onofrio, decide, al TIFF del 2006, di presentare la sua seconda opera, dal titolo The Fall.
The Fall è un rifacimento in grande stile del film bulgaro Yo Ho Ho (1981) di Valeri Petrov, al quale si ispira in modo del tutto libero, ma non meno affascinante. Nel raccontare il soggiorno all’interno di una struttura ospedaliera alla periferia di Los Angeles di Roy Walker (interpretato da Lee Pace) - stuntman rimasto paralizzato dopo una caduta riportata su un set cinematografico - Singh inserisce un senso primordiale e ancestrale alla vicenda. Il regista lega indissolubilmente la rappresentazione della storia allo stupore tipico delle antiche fiabe esotiche, che rivivono, anche e soprattutto, attraverso le forme visive e ai virtuosismi tecnici utilizzati in corso d’opera.
Fin dallo splendido incipit, in bianco e nero e in slow-motion, The Fall è un lungometraggio che si pone, ambiziosamente, l’obiettivo di rapportarsi con il mito, con la fondazione del cinema e quindi con le sue forme primigenie (come l’era del muto) per raccontare la genesi di tutto ciò che lo spettatore guarda, al giorno d’oggi, sullo schermo. Il viaggio, quindi, compiuto attraverso la narrazione in voice-over, non ha solo il compito di affascinare la co-protagonista, la quale si identifica con noi spettatori, ma anche di ripercorrere tutto ciò che ha riguardato la storia cinematografica dai primi del ‘900 fino ai giorni odierni. La vicenda, infatti, prosegue con un cambio di tono nei colori utilizzati, che passano dall’essere vivi e accesi ad essere sbiaditi e tenui - come se lo stesso regista volesse replicare il medesimo effetto seppia tipico della post-produzione dell’immaginario dei primi anni di storia del cinema.
L’interesse che Singh ripone nella fotografia e per i continui cambi di tonalità del colore ha, come compito, quello di alterare e comandare la percezione dello spettatore, il quale, tramite una perenne metamorfosi di sfumature sfoggiate, si perde in un mondo fantastico percependone in modo quasi immediato la magia che lo contorna, soprattutto grazie al suo formato grafico e alla color correction. In particolare, attraverso vari stacchi di montaggio del montatore Robert Duffy, che in alcuni momenti cede alla fascinazione per l’estetica post-moderna, contaminando proprio il linguaggio classico con quello dei videoclip attraverso tagli improvvisi e serrati, The Fall porta alla luce quanto la nostra mente e la nostra forte attrazione e attitudine nei confronti delle storie e della loro formulazione sia immediata, quasi impercettibile, e passi per frammenti apparentemente sconnessi tra loro, i quali assumono un senso solamente all’interno della nostra immaginazione e attraverso una nostra ricostruzione.
Proprio per questo motivo, è impossibile non paragonare il film di Singh e il suo universo narrativo al mitico Alejandro Jodorowsky, dal quale senza dubbi ha tratto ispirazione per The Fall a causa del suo universo surrealista fortemente ancorato alla riproposizione di immaginari pre-costituiti. In particolare, la riproduzione delle ambientazioni del film del 2006 riporta alla mente lo pseudo-western El Topo (1970), il quale approccia nello stesso modo una precisa poetica visiva che sfocia perlopiù nell’allegoria, utile a palesare un flusso di coscienza che ripercorre pienamente le orme della narrazione parlata, ovvero del racconto orale e delle storie tramandate a voce di generazioni in generazioni. Un innegabile richiamo anche all’impostazione dell’universo pittorico di un artista quale Salvador Dalì (i cui dipinti sono, naturalmente, paragonabili a veri e proprio stream of consciousness), ma anche ad un movimento cinematografico sottovalutato e pienamente avanguardistico quale la Nová Vlna cecoslovacca, la quale ha in comune lo sfrenato uso dell’onirismo e del simbolismo, utilizzati per mettere in scena le infinite possibilità e combinazioni narrative che la mente umana può fornire nell’atto della creazione di un’opera.
The Fall, dunque, è un film soprattutto sull’immaginazione, su come il potere delle storie possa espandere i confini della Settima Arte, portandola a materializzare qualcosa a cui, apparentemente, è impossibile dare una forma definita, un corpo dalle fattezze liquide e metamorfiche. In virtù di questa significazione, l’opera di Tarsem Singh ha ispirato e influenzato molto del cinema odierno. Basti pensare, semplicemente, a Three Thousand Years Of Longing (2022) di George Miller, adattamento cinematografico di The Djinn in the Nightingale's Eye (1994) di Antonia Susan Byatt. Proprio l’ultimo cinema di Miller, compreso il suo prequel Furiosa: A Mad Max Saga (2024), è inevitabilmente accostabile a The Fall e all’immaginario di Singh. Entrambi, infatti, trovano proprio nel potere della narrazione e nel merge con gli immaginari provenienti dal Medio Oriente il loro punto di forza, abilmente utilizzato per rinvigorire le vite umane tramite le storie e una verbalizzazione orale che diventa, a tutti gli effetti, una riflessione diretta sul ruolo primario di cui l’arte visuale (utilizzata proprio per dare corpo allo scritto) gode all’interno del contemporaneo. Una verbalizzazione che, però, appare svuotata di significati intrinsechi e accede, piuttosto, ad un ruolo scevro da sovra-interpretazioni, che appare diretto nel suo scopo. Entrambi, inoltre, utilizzano il digitale e le sue infinite possibilità di manipolazione come fonte di distorsione della realtà e, al contempo, evasione dagli stereotipi narrativi ed estetici odierni.
Conseguenza di suddetta scelta stilistica è un’opposizione radicale a questa tipologia di racconto che sfrutta molto di più la capacità del cinema di narrare attraverso le immagini, piuttosto che quella scritturale, senza però sovraccaricarla di significati eccessivi e contorti. Una visione antitetica, per esempio, rispetto al cinema di un gigante contemporaneo come Peter Greenaway, che, nonostante porti in dote la medesima carica artistica votata al cinema e la stessa volontà meta-cinematografica di sfruttare l’arte, si discosta da The Fall. Il cinema di Greenaway, infatti, assume una portata decisamente più sociologica, laddove la bulimia immaginifica di opere quali The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover (1989) o The Draughtman’s Contract (1982) finisce non solo per essere una contestualizzazione sociale di come l’arte possa assurgere ad un ruolo prettamente politico di derisione nei confronti delle classi sociali più nobili, ma anche un modo per rendere anarchica e anti-sistemica la pittura e, conseguentemente, l’immagine.
Per questi motivi, The Fall è da considerare ad oggi come un unicum nel suo genere, in grado di coniugare lo spazio cinematografico digitale e la sua liquidità con un sistema di narrazione fortemente analogico, che ripesca a piene mani dalla mitologia e dalle sue modalità di racconto.
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