NC-226
31.08.2024
Per questo primo appuntamento daremo una panoramica dei primi titoli mostrati al Festival, concentrandoci su alcuni grandi “ritorni” da parte di attori e cineasti sul Lido, tra cui quelli delle dive Nicole Kidman e Angelina Jolie con Babygirl di Halina Reijn e Maria di Pablo Larraín, due delle prime opere presentate nella sezione principale insieme all’eccentrico El Jockey, il secondo lungometraggio di Luis Ortega. Inoltre ci concentreremo sui primi titoli proirttati nelle sezioni Orizzonti e Giornate degli Autori, tra cui Quiet Life di Alexandros Avranas, Marco di Aitor Arregi e Jon Garaño, Super Happy Forever di Igarashi Kohei e Nonostante di Valerio Mastandrea. Infine vi racconteremo di tre affascinanti lungometraggi dal Fuori Concorso: Cloud, il nuovo avvincente action thriller di Kiyoshi Kurosawa, Separated di Errol Morris e Apocalypse in the Tropics di Petra Costa, un affascinante documentario che mostra l’impatto del fanatismo religioso nelle ultime elezioni politiche del Brasile.
Maria, di Pablo Larraín
“I’m in the mood for adulation”. Sono queste le parole che Maria Callas (Angelina Jolie) rivolge al suo maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) durante una delle loro discussioni quotidiane. Questa frase è forse la chiave di lettura principale per comprendere Maria, il terzo e ultimo capitolo della trilogia biografica femminile di Pablo Larraín, dove il cineasta cileno analizza l’ultima settimana delle celebre cantante d’Opera, ponendo enfasi sulla dicotomia della diva: da una parte Maria, una donna dalla vita personale complessa, la cui esistenza è ormai condizionata dagli psicofarmaci che assume, e dall’altra “La Callas”, l'idolo dell’opera lirica tanto amato dal pubblico. Come nei due “capitoli” precedenti, Larraín non segue una formula che richiama la struttura classica del biopic, basti pensare al tono elegiaco adottato per Jackie (2016) o quella favolistica per rappresentare la storia di Lady Diana in Spencer (2022). In Maria, il regista si serve dello stato mentale deteriorato della Callas per raccontare la duplice storia di una donna e di una diva. Fin dai primi istanti si può notare la forte visione autoriale e l’estro stilistico del regista; dall'ouverture dove si giustappongono le immagini delle grandi interpretazioni canore di Callas con un intenso close-up sul volto della diva, fino all’uso di svariate arie liriche per mostrare, e confrontare, il presente e il passato della donna. Nel corso dell’opera, Larraín mette in mostra anche come il mito di Maria Callas venga visto e vissuto dalle persone accanto a lei; dai suoi fedeli domestici Ferruccio e Bruna (Alba Rohrwacher), gli unici in grado di comprendere i bisogni e l’umanità di Callas, fino alle persone che vorrebbero il grande ritorno sul palco di una cantante non più in grado di raggiungere gli apici di inizio carriera. Tutto ciò viene filtrato attraverso il punto di vista distorto della protagonista, che immagina costantemente di essere intervistata da una troupe cinematografica con la quale trova la possibilità di raccontare la sua “verità” su alcuni dei momenti salienti della sua vita - tra cui spicca la travagliata relazione con Aristotle Onassis (Haluk Bilginer). La narrativa non lineare dell’opera è messa soprattutto il risalto da Ed Lachmann, il cui lavoro alla fotografia è fondamentale nel raccontare la caduta definitiva di Maria attraverso un intelligente uso del colore; infatti il DOP sfrutta le sfumature autunnali per mostrare il presente decadente della donna, mentre per i vari flashback sfrutta un bianco e nero che richiama di più uno stile classico e quindi diverso dall’uso più monografico e sperimentale di El Conde (2023). Ovviamente, il film non funzionerebbe senza il fondamentale contributo di Angelina Jolie, la quale porta sullo schermo una magistrale interpretazione che rispecchia appieno la fragilità e la sofferenza del personaggio interpretato. Nonostante sia una performance basata su diversi manierismi e breakdown nevrotici, l’attrice è in grado di calibrare queste scene vistose con attimi più minimalisti, come ad esempio la struggente ultima conversazione con Bruna e Ferruccio. Anche se Maria presenta qualche difetto a livello di scrittura, soprattutto nelle parti meta-cinematografiche e nella caratterizzazione di alcuni personaggi secondari, la nuova opera di Pablo Larraín conferma per l’ennesima volta il talento camaleontico di uno dei cineasti più rilevanti dell’ultimo decennio.
Nonostante, di Valerio Mastandrea
Una storia d’amore ambientata tra le mura di un reparto ospedaliero dedicato a pazienti in coma, dove gli “spiriti” dei ricoverati attendono, invisibili, di risvegliarsi o “emigrare” nell’Aldilà. Il secondo lungometraggio di Valerio Mastandrea, arriva sei anni dopo il suo debutto cinematografico con Ride (2018) e si regge su degli spunti estremamente interessanti. Come nelle sue stesse parole, il regista elabora una serie di riflessioni sulla vita e la morte, l’amore e la fragilità umana, riuscendo, a tratti, a creare momenti di sincera e sentita commozione. Un racconto narrato con delicatezza e ironia che, attraverso la natura onirica della storyline e la sua rappresentazione di una dimensione limbica, sembra prendere a modello e reinventare cult come Heaven Can Wait (Il paradiso può attendere, 1978) e Ghost (1990). Se però le premesse intrigano, lo scorrere delle sequenze rivela un prodotto non sempre all’altezza delle tematiche di cui si fa carico e del tono “surreale” su cui decide di basare i suoi intenti narrativi. Le relazioni tra i personaggi - tra cui quella dei due protagonisti - vengono raccontate in maniera fin troppo sbrigativa, precludendo la possibilità di creare dei momenti che, se sviluppati con maggiore approfondimento, avrebbero potuto smuovere realmente le corde emotive del pubblico. Questo fattore si riverbera anche su un cast tutto sommato mal sfruttato, come nel caso del personaggio di Laura Morante, inteprete in gran forma ma limitata da un copione che non lascia nessun tipo di spazio alla potenziale intensità, ed ironia, del suo personaggio, riducendo così la sua presenza ad una sorta di cameo. I tempi, l’uso spropositato della musica - che irrompe sulla scena sintetizzando sequenze che avrebbero meritato un maggiore minutaggio - e una sceneggiatura con grandi lacune, sono il grande problema di Nonostante. Un vero peccato, poiché vi sono trovate degne di nota - come ad esempio il “volo nel vento” di Mastandrea - che se inserite in un insieme maggiormente solido avrebbero colpito nel segno.
Apocalypse in the tropics, di Petra Costa
Nel corso degli ultimi anni si è potuto assistere alla “hate campaign” perpetrata dall’estrema sinistra con l’intento di manipolare il pubblico medio e instaurare uno dei propri candidati come capo di governo. Questa manipolazione mediatica, basata per lo più sulla xenofobia e su come la religione può giocare un ruolo importante in queste situazioni, è stata per lo più al centro delle recenti elezioni politiche in Sud America, dove Paesi come l’Argentina, il Cile e il Brasile hanno vissuto periodi tumultuosi. La recente situazione in quest’ultima Nazione è al centro di Apocalypse in the Tropics, il nuovo documentario di Petra Costa, che analizza come il partito di Jair Bolsonaro ha cercato di vincere le elezioni contro Luiz Inácio Lula da Silva sfruttando il fanatismo religioso del Paese. Quello che risulta ancora più interessante è la rappresentazione di alcuni degli evangelisti più conosciuti in Patria e come questi siano più interessati al potere e ai soldi più che a rispettare i “valori” del loro credo, una contraddizione che è sempre stata presente nella storia di ogni religione. Strutturando il suo lavoro su cinque capitoli, Costa da una visione a tutto tondo dell’impatto del fanatismo religioso in Brasile e, nel fare ciò, mette in mostra la sua grande abilità nel cambio di regia da un capitolo all’altro. Infatti spiccano l’utilizzo del materiale d’archivio nel quarto capitolo, dove la regista mostra le origini del fanatismo e come queste siano state influenzate dagli evangelisti statunitensi a fine anni cinquanta, o anche l’utilizzo di videoclip tratte dai social media per mostrare le rovinose conseguenze e le insurrezioni del popolo dopo la vittoria di Lula e, infine, le terrificanti interviste condotte dagli evangelisti nelle quali “spiegano” le proprie motivazioni verso il sostegno a Bolsonaro. Alla fine dell’opera Costa riflette sul significato della parola “apocalisse”, la quale dovrebbe simboleggiare una rivelazione e un senso di chiusura, ma come mostrato dalla cineasta brasiliana la fine di questo periodo tumultuoso sembra ancora lontano. Apocalypse in the Tropics risulta essere una visione tanto affascinante quanto necessaria.
Cloud, di Kiyoshi Kurosawa
Kiyoshi Kurosawa è ormai uno dei registi nipponici più longevi in attività. La sua carriera ha ormai spiccato il volo, soprattutto grazie al Festival di Venezia. Dopo aver riformato e reso un’eccellenza a livello mondiale il J-Horror, il cineasta ha saputo ricalibrarsi ed adattare il proprio stile ellittico e particolareggiato ai più disparati generi, mettendo in mostra una sapienza nell’uso della macchina da presa per la narrazione e un’intelligenza stilistica con pochi pari all’interno del mondo cinematografico. Quest’anno - dopo essere già stato partecipe per la prima volta nel 2012 nella sezione dedicata alle opere fuori concorso con la sua serie TV Penance (2012), e dopo aver vinto, nel 2020, il Leone d'argento per la miglior regia per la versione cinematografica del film Supai no tsuma (2020, in inglese Wife Of A Spy) - Kurosawa è tornato al Lido di Venezia per la sua terza partecipazione, presentando il suo nuovo film: Cloud (2024). Un lungometraggio in cui presenta nuovamente le paure relative alle paranoie derivanti dal mondo del web e, soprattutto, del mondo digitale, ma che si occupa soprattutto di svelare il meccanismo capitalista estremamente competitivo che si nasconde all’interno della società giapponese, ormai corrotta in modo irreversibile. Per accentuare questa visione apocalittica, Kurosawa propone su schermo l’inquietudine derivante dalla sorveglianza del capitalismo e di come quest’ultima possa invadere, come un vero e proprio virus, tutto ciò che lo circonda. Ciò che attanaglia Yoshii (un bravissimo Masaki Suda), bagarino digitale la cui vita si svolge perlopiù dietro uno schermo, è un’ossessione sì per la tecnologia e per i suoi prodotti, ma soprattutto un desiderio per il benessere che proprio il digitale può garantire, attraverso il cosiddetto reselling, rivendita di oggetti di vario tipo. Ciò che Yoshii sviluppa è una fissazione per delle immagini, per degli schermi (geniale, proprio in questo senso, il continuo utilizzo delle surveillance cam che ricordano da vicino quelle dell’ultimo cinema di Soderbergh, più improntato proprio sulla sorveglianza del capitalismo), per un feticcio che detta e regola in primis l’approfondimento psicologico disturbante del protagonista del film, e che poi garantisce un ampliamento dello spettro della vicenda, che si impernia su una caccia all’uomo davvero inusuale e particolare, fatta perlopiù di conflitti psicologici, in cui la violenza si espande come un virus (usando sempre termini cibernetici) che infetta e coinvolge tutti, e apparecchia tutto per una discesa negli inferi, la quale si concretizza sia dal punto di vista pratico che concettuale, e sulla quale lo stesso Kiyoshi Kurosawa, tramite la sequenza finale, ironizza in maniera totalmente amara e pessimista. Dettagli che riprendono, da un lato, e che, dall’altro, ribaltano la logica di altri film presenti nella filmografia dell’autore quali Creepy (2016), che condivide sia lo sviluppo della trama sia l’aspetto psicologico dei suoi personaggi e Serpent’s Path (1998), dal quale Kurosawa riprende la sua capacità di piegare i generi al suo volere, facendo del film un’entità fluida in grado di cambiare continuamente in funzione della narrazione, e di espandere i confini della riflessione tecnologica e filmica (anche qui, la funzione degli schermi risulta di primaria importanza) ad un ulteriore livello, ovvero quello ultra-terreno.
Baby Girl, di Halina Reijn
Il terzo film della regista olandese Halina Reijn - dopo Instinct (2019) e il debutto americano di Bodies, Bodies, Bodies (2022) - con la sua trama, in fondo, già largamente affrontata nella storia del cinema (la scabrosa relazione tra una donna matura e un uomo più giovane) poteva rappresentare un enorme pericolo. La regista, però, stupisce per il tono, innovativo e personale, con cui decide di affrontare una materia che rischiava di risultare ridondante e banale. Attrice e allieva di Paul Verhoeven, Reijn eredita dal maestro la tendenza verso una cinema carnale e psichedelico, fortement inserito nella Pop Culture e focalizzato su un costante gioco provocatorio con i suoi spettatori - non a caso molti sono gli omaggi alle opere dell’autore, come il celebre escamotage dell’”accavallamento delle gambe”. Nonostante la forte derivazione verhoeveniana lo sguardo di Reijn trova però una forte indipendenza grazie a uno studio maggiormente approfondito dei personaggi - non più macchiette allegoriche ma esseri umani in carne ed ossa - e ad uno stile di regia attento nel dosare i vari elementi del racconto. Il “flamboyant” narrativo si ritrova quindi solo sul piano dello sceneggiatura - che ricorda i toni camp delle storie di Adrian Lyne, con la differenza di essere molto più risolta e completa sul piano umano e drammaturgico - che viene stemperata dalla “linea visuale” con cui Reijn decide di filmare i suoi protagonisti, non a caso svariate sequenze vengono realizzato attraverso l’uso della camera a mano. Ciò che ne esce fuori è la storia di una relazione di co-dipendenza estremante umana e, a tratti, intelligentemente ironica, basata su un complesso sistema di dinamiche di potere. Un cast in ottima forma sigilla il tutto, e viene capitanato da un Harrison Dickinson che ci regala un personaggio sfaccettato, astraendosi da semplice “oggetto del desiderio”, e sopratutto da una Nicole Kidman in stato di grazia. Per la diva il personaggio di Romy diviene l’ulteriore espressione di una carriera costruita sulla costante voglia di sperimentare e mettersi in gioco. Un ruolo genialmente sfrontato per l’attrice hollywoodiana, in cui si possono intravedere i tratti di quella Elle ferocemente interpretata da Isabelle Huppert nel 2016…chissà se, guardando Baby Girl, la presidente di giuria avrà la medesima impressione.
Antikvariati, di Rusudan Glurjidze
Dopo essere stata direttrice creativa della Cinetech Film Production Company, Rusudan Glurjidze, regista, sceneggiatrice e produttrice georgiana, ha esordito ufficialmente alla regia nel 2016, con il film House Of Others (2016), un dramma che portava lo spettatore a confrontarsi con una pagina nera di Storia degli anni Novanta: la guerra tra la Georgia e l’Abkhazia. Una situazione che influenzò notevolmente il panorama georgiano dell’epoca e che, soprattutto, costrinse tantissimi a fuggire dal proprio Paese e vivere in case possedute, precedentemente, da persone nemiche. E sempre da un’indagine sulla Georgia odierna parte anche Antikvariati, film presentato alle Giornate degli Autori. Un opera che racconta lo stato degli abitanti della Georgia nei confronti della “madre” Russia - con non pochi riferimenti alle ultime vicende “putiniane” - e che esplicita, soprattutto, la condizione dei georgiani nei confronti di coloro che provengono da culture e religioni diverse, osservando da vicino lo stato di diffidenza nella quale è ormai piombata la stessa Europa e mostrando, soprattutto, la straordinaria ed enorme potenza di fuoco con cui la Russia fagocita gli stati confinanti (emblematica, sotto questo punto di vista, è la sequenza finale). Ma la forma scelta per narrare il dramma europeo è davvero inusuale. Il film si divide a metà e viene caratterizzato da una prima e un’ultima parte in cui a prevalere è l’aspetto più spietato della vicenda, colmo di primi piani e di scelte emotivamente molto impressive che creano una sorta di rapporto simbiotico (in alcuni casi forzato) con lo spettatore, favorendo l’empatia nei confronti dei personaggi presenti, e da una parte centrale in cui, paradossalmente, è il registro comico a prevalere. Il rapporto tra i due protagonisti, Lado (interpretato da un Vladimir Daushvili a tratti surreale) e Medea (Salome Demuria, il cui particolare volto ben si presta alla dimensione più romantica del film), è vissuto nella parte centrale come una screwball, in cui sono ripresi, fin nei particolari, gli screzi e i dialoghi più divertenti tra i due. La regia di Rusudan Glurjidze, che passa dalla staticità della prima parte ad un progressivo movimento, diventa sempre più estrosa e incalzante, grazie a punti macchina inusuali e a piani sequenza che velocizzano il timing delle inquadrature. Proprio questo, però, favorisce un maggiore squilibrio ad Antikvariati, che ne esce depotenziato e sospeso tra risate (mai troppo eccessive e in molti casi trattenute) e dramma, senza mai intraprendere una strada netta e restando sempre in bilico, denotando una narrazione interessante che non mantiene, purtroppo, mai una strada precisa da perseguire, lasciando la sensazione di essere di fronte ad un lavoro che, se asciugato a dovere, avrebbe funzionato in un modo molto più corretto.
El Jockey, di Luis Ortega
A seguito del grande successo di El ángel (L’angelo del crimine, 2018), presentato nella sezione Un Certian Regard del Festival di Cannes, il regista argentino Luis Ortega debutta in Concorso al Lido con El Jokey. Un film che in un primo momento può destabilizzare, ma che con il dipanarsi della storia, e delle sue assurde vicende, riesce pienamente ad incantare e rimanere fortemente impresso nella mente dello spettatore. Ortega gioca senza freni con l’assurdo, non ponendosi limiti e costruendo un’universo irrimediabilmente grottesco, abitato da personaggi psicotici e in perenne mutamento. Con il suo spropositato uso dei simboli - la cui maggior parte richiamano la storia politica e sociale dell’Argentina -, e la sua descrizione di una società paradossale, non si può non notare nel film una vena di chiara derivazione kafkiana. Sembra quasi che il regista sudamericano abbia l’intenzione creare una curiosa e riuscita sintesi tra un “surrealismo cinematografico” tipicamente buñueliano e il caratteristico arco evolutivo dei protagonisti almodóvariani. Drammatico eppure irrimediabilmente comico, eccessivo e strampalato, El Jokey è un film che o si ama o si odia, non esiste via di mezzo. Lo si può rifiutare in blocco o decidere di farsi possedere dalla sua natura pazzoide e cervellotica, ridere con lui della vita oppure rimanere impassibili e sconcertati. Il merito della riuscita di questo lavoro non appartiene però solo al suo regista ma anche ad un eccellente cast, capitanato da un Nahuel Pérez Biscayart in puro stato di grazia, un geniale Daniel Giménez-Cacho García e una misurata e ironica Úrsula Corberó - celebre protagonista del fenomeno televisivo spagnolo La casa de papel (La casa di carta, 2017-2022) . Da segnalare la presenza di Mariana Di Girolamo, indimenticabile protagonista di Ema (2019), in un piccolo, ma memorabile, ruolo.
Super Happy Forever, di Igarashi Kohei
Kohei Igarashi è uno dei nuovi “enfant prodige” della scuola registica giapponese. Il cineasta non è nuovo, però, agli scenari del Lido di Venezia. Infatti, già nel 2019, con il suo Takara, la nuit où j’ai nagé (2019), co-diretto insieme al francese Damien Manivel, Igarashi si era presentato alla Mostra, nella sezione Orizzonti. A distanza di cinque anni, il regista nipponico torna al Lido con il film d’apertura della ventunesima edizione delle Giornate degli Autori, dal titolo Super Happy Forever (2024). Nel narrare lo smarrimento del protagonista Sano (Hiroki Sano), Igarashi risulta davvero delicato, sviando lo spettatore e conducendolo in un primo momento verso territori già battuti in film ormai diventati di culto - come Drive My Car (2021) di Ryūsuke Hamaguchi - , salvo poi optare per una narrazione completamente diversa, dove il senso nostalgico relativo al passato è dato dagli oggetti con cui lo stesso protagonista viene a contatto. In primis il berretto rosso nella sequenza della spiaggia, sorta di vero e proprio totem attraverso cui lo stesso protagonista “ritrova” l’amata, oltre alla macchina fotografica analogica di lei, dove il gioco di contrapposizione con il digitale offre una riflessione molto profonda su come l’imprinting del ricordo possa essere diverso a seconda dello strumento usato per ritrarlo, e all’uso di carta e penna per salvare il numero dell’amata, dove l’inchiostro rappresenta un elemento indelebile e impossibile da cancellare in qualunque circostanza. C’è dunque una buona dose di romanticismo e, soprattutto, c’è un legame tra amore e morte, eros e thanatos, attraverso cui Igarashi racconta la tempesta emotiva che attanaglia e pervade l’anima del suo attore principale. In più circostanze, infatti, all’interno del film, vi sono delle scene che materializzano e danno un senso al rapporto tra queste componenti, come fossero dei veri e propri “ponti” che collegano questi due stati d’animo apparentemente così distanti. In questo senso, la splendida prestazione offerta da Hiroki Sano passa soprattutto attraverso le inquadrature del regista, la cui scelta di adottare più volte, nel corso del film, il campo medio e soprattutto di posizionarsi con la macchina da presa alle spalle dei vari protagonisti, ha come effetto quello di accentuare il non detto, di favorire le ellissi del montaggio senza aver bisogno di didascalie (in questo senso, c’è più di una semplice somiglianza con il cinema di Eric Rohmer e quello di Hong Sang-soo) e di garantire molta più espressione ed enfasi ad ogni singola scena del film, il quale si riscopre con molto più respiro proprio grazie alle inquadrature utilizzate, ad alcuni spezzoni molto significativi che vanno anche in contrasto con il tono scelto per narrare (su tutte, la scena del karaoke) e anche grazie ad alcune scelte musicali (su tutte, l’esemplificativa Beyond The Sea, brano di Bobby Darin del 1959) che rendono il film decisamente appetibile e leggero per qualsiasi tipologia di spettatore, nonostante gli argomenti trattati richiedano ben più di una semplice riflessione.
Marco, di Aitor Arregi e Jon Garaño
Presentata nella sezione Orizzonti, Marco è la nuova opera del prolifico duo di cineasti Aitor Arregi e Jon Caraño, e racconta la storia, o meglio, la grande bugia imbastita da Marco Enric, un uomo che ha mentito sulla propria permanenza nel campo di concentramento di Mathausen nel 1941. Durante quell’epoca, molti spagnoli furono deportati nei campi nazisti e, visto che la situazione non è mai stata diffusa a livello mediatico e informativo quanto si doveva, Marco Enric ne approffitó e inizió a costruire una certa fortuna grazie alle sue menzogne, arrivando a sfruttare le esperienze delle persone che furono veramente deportate. Il film, ambientato principalmente a inizi anni 2000, risulta essere piuttosto accattivante sin dai primi istanti, dove si può capire la natura bugiarda e quasi patologica del protagonista, un approccio che funziona appieno poiché permette allo spettatore di capire l’aspetto carismatico e camaleontico del protagonista e il motivo principale per cui ha avuto così successo nella vita. Quest’ultimo aspetto è messo in risalto soprattutto dall’eccellente lavoro di Eduard Fernández, la cui interpretazione è in grado di esplorare le varie sfumature di Marco Enric. Una volta che la verità viene a galla, l’uomo sarà costretto a creare una nuova rete di bugie, peggiorando ancora di più la sua situazione e quella della sua famiglia. Il punto di forza dell’opera è proprio questa continua tensione che permane durante tutta la durata, dove i due registi costruiscono questo complesso intreccio tra la verità dell’uomo e quella del film. Infatti, Arregi e Caraño “manipolano” la storia vera per creare la presunta verità di Marco Enric, ma pur sempre romanzando la vicenda. Nonostante il film non presenti una certa complessità a livello stilistico, Marco risulta essere una piacevole e sorprendente visione.
Separated, di Errol Morris
Presentato nel Fuori Concorso, il nuovo documentario di Errol Morris si distingue, sopratutto, per il suo essenziale contributo informativo su una sconcertante parentesi della recente storia americana. Basandosi sul libro-inchiesta di Jacob Soboroff (che ha accompagnato il regista alla prima veneziana) Separated si concentra sul disumano fenomeno della separazione delle famiglie migranti messicane che entrano illegalmente nel territorio degli Stati Uniti. Da una realtà di miseria queste persone si trovano costrette a varcare lo spaventoso muro che separa i due Stati trovando, dall’altra parte, un altro inferno. Attraverso una serie di sconvolgenti interviste con funzionari e whistleblower Morris svela una realtà scottante e mostruosa, mossa dalla dittatoriale e dispotica “cultura della violenza” nata, e formatasi, sotto l’Era Trump. Estremante efficaci le scelte di presentare le “dinamiche di separazione” attraverso un piccolo film-narrativo che mostra la fuga, e il successivo allontanamento, di una madre e suo figlio, e le immagini prodotte da uno Zootropio che simbolizzano i punti fondamentali della materia trattata. Nonostante questi elementi interessanti e l’importanza di denunciare un simile episodio, il documentario rimane però un prodotto estremamente standardizzato, privo di picchi o di cadute, ma infondo va bene così, poche il suo obbiettivo è proprio quello di ricostruire, nella maniera più diretta e chiara possibile, un preoccupante fenomeno.
Quiet Life, di Alexandros Avranas
Alexandros Avranas è conosciuto ai più per essere uno dei fautori principali della nuova Greek Weird Wave, filosofia di pensiero greca che da un po’ di anni a questa parte ha abituato gli spettatori di tutto il mondo ad un nuovo tipo di cinema e che ha stupito e riformato radicalmente molto cinema pop contemporaneo. Tra i più incisivi, in questo senso, si può certamente annoverare Yorgos Lanthimos, coevo di Avranas, ormai diventato vero e proprio regista di punta del cinema mainstream internazionale. Avranas, di contro, dopo gli inizi esagerati e molto spinti con Miss Violence (2013), dramma mostrato in concorso alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e vincitore del Leone d’Argento e della Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile (premio consegnato a Themis Panou), ha cercato di intraprendere la strada che porta ad Hollywood tramite il suo terzo film, Dark Crimes (2016), thriller con protagonista Jim Carrey che purtroppo ha sortito l’effetto contrario, stroncandone rapidamente l’ascesa e fermando, di fatto, il regista per un lungo periodo di tempo - eccezion fatta per Love Me Not (2017). Avranas, dopo la sua prolungata assenza, sbarca al Lido di Venezia nel 2024 con il suo nuovo film, Quiet Life, che apparentemente sembra un ritorno alle origini. L’operazione effettuata nel lungometraggio si può accostare tranquillamente a quanto fatto solo pochi mesi fa da Lanthimos con Kinds Of Kindness (2024). Entrambi, infatti, sono film che si rifanno apparentemente ai punti cardine del cinema greco contemporaneo, ma ad un occhio più attento risultano filtrare la visione della Greek Weird Wave allo scopo di prenderla in giro attraverso un’attitudine notevolmente più leggera e, per certi versi, comica. Per la prima volta, in Quiet Life, storia dei russi Sergej e Natalia, la cui richiesta d’asilo in Svezia è respinta con conseguenze paradossali e allucinanti per la loro figlia più piccola, Katja, si respira un’attitudine che si distacca dalla gravosità dei toni di Miss Violence. Il film, quindi, è ammantato da un barlume di ottimismo con cui Avranas stesso contravviene il registro della Greek Weird Wave, la quale è richiamata visivamente tramite la distribuzione diegetica degli attori all’interno dell’inquadratura (sempre fissi e molto spesso ai margini), e le simmetrie della macchina da presa, elementi che hanno lo scopo di descrivere esseri viventi fragili e scissi e a vivisezionare radicalmente l’idea di famiglia borghese. Tutto questo è però filtrato attraverso un registro meno pesante, dove anche gli attori, solitamente inglobati all’interno di una recitazione straniante nei film del movimento greco, superano i loro immobilismi mimici e cedono alle emozioni. Quiet Life, però, non dismette i panni della critica sociale, risultando un attacco ben assestato nei confronti dell’ipocrisia socio-politica per quanto riguarda i rifugiati, denunciandone la condizione restrittiva in un modo meno asfissiante rispetto al solito. Alexandros Avranas si orienta, quindi verso un simbolismo (come dimostra la metafora “vitale” dell’albero e dell’acqua) mitopoietico mai gratuito, atto soprattutto a rovesciare il pessimismo tragico delle precedenti opere del movimento greco e a concedere, al contrario di esse, speranza.
NC-226
31.08.2024
Per questo primo appuntamento daremo una panoramica dei primi titoli mostrati al Festival, concentrandoci su alcuni grandi “ritorni” da parte di attori e cineasti sul Lido, tra cui quelli delle dive Nicole Kidman e Angelina Jolie con Babygirl di Halina Reijn e Maria di Pablo Larraín, due delle prime opere presentate nella sezione principale insieme all’eccentrico El Jockey, il secondo lungometraggio di Luis Ortega. Inoltre ci concentreremo sui primi titoli proirttati nelle sezioni Orizzonti e Giornate degli Autori, tra cui Quiet Life di Alexandros Avranas, Marco di Aitor Arregi e Jon Garaño, Super Happy Forever di Igarashi Kohei e Nonostante di Valerio Mastandrea. Infine vi racconteremo di tre affascinanti lungometraggi dal Fuori Concorso: Cloud, il nuovo avvincente action thriller di Kiyoshi Kurosawa, Separated di Errol Morris e Apocalypse in the Tropics di Petra Costa, un affascinante documentario che mostra l’impatto del fanatismo religioso nelle ultime elezioni politiche del Brasile.
Maria, di Pablo Larraín
“I’m in the mood for adulation”. Sono queste le parole che Maria Callas (Angelina Jolie) rivolge al suo maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) durante una delle loro discussioni quotidiane. Questa frase è forse la chiave di lettura principale per comprendere Maria, il terzo e ultimo capitolo della trilogia biografica femminile di Pablo Larraín, dove il cineasta cileno analizza l’ultima settimana delle celebre cantante d’Opera, ponendo enfasi sulla dicotomia della diva: da una parte Maria, una donna dalla vita personale complessa, la cui esistenza è ormai condizionata dagli psicofarmaci che assume, e dall’altra “La Callas”, l'idolo dell’opera lirica tanto amato dal pubblico. Come nei due “capitoli” precedenti, Larraín non segue una formula che richiama la struttura classica del biopic, basti pensare al tono elegiaco adottato per Jackie (2016) o quella favolistica per rappresentare la storia di Lady Diana in Spencer (2022). In Maria, il regista si serve dello stato mentale deteriorato della Callas per raccontare la duplice storia di una donna e di una diva. Fin dai primi istanti si può notare la forte visione autoriale e l’estro stilistico del regista; dall'ouverture dove si giustappongono le immagini delle grandi interpretazioni canore di Callas con un intenso close-up sul volto della diva, fino all’uso di svariate arie liriche per mostrare, e confrontare, il presente e il passato della donna. Nel corso dell’opera, Larraín mette in mostra anche come il mito di Maria Callas venga visto e vissuto dalle persone accanto a lei; dai suoi fedeli domestici Ferruccio e Bruna (Alba Rohrwacher), gli unici in grado di comprendere i bisogni e l’umanità di Callas, fino alle persone che vorrebbero il grande ritorno sul palco di una cantante non più in grado di raggiungere gli apici di inizio carriera. Tutto ciò viene filtrato attraverso il punto di vista distorto della protagonista, che immagina costantemente di essere intervistata da una troupe cinematografica con la quale trova la possibilità di raccontare la sua “verità” su alcuni dei momenti salienti della sua vita - tra cui spicca la travagliata relazione con Aristotle Onassis (Haluk Bilginer). La narrativa non lineare dell’opera è messa soprattutto il risalto da Ed Lachmann, il cui lavoro alla fotografia è fondamentale nel raccontare la caduta definitiva di Maria attraverso un intelligente uso del colore; infatti il DOP sfrutta le sfumature autunnali per mostrare il presente decadente della donna, mentre per i vari flashback sfrutta un bianco e nero che richiama di più uno stile classico e quindi diverso dall’uso più monografico e sperimentale di El Conde (2023). Ovviamente, il film non funzionerebbe senza il fondamentale contributo di Angelina Jolie, la quale porta sullo schermo una magistrale interpretazione che rispecchia appieno la fragilità e la sofferenza del personaggio interpretato. Nonostante sia una performance basata su diversi manierismi e breakdown nevrotici, l’attrice è in grado di calibrare queste scene vistose con attimi più minimalisti, come ad esempio la struggente ultima conversazione con Bruna e Ferruccio. Anche se Maria presenta qualche difetto a livello di scrittura, soprattutto nelle parti meta-cinematografiche e nella caratterizzazione di alcuni personaggi secondari, la nuova opera di Pablo Larraín conferma per l’ennesima volta il talento camaleontico di uno dei cineasti più rilevanti dell’ultimo decennio.
Nonostante, di Valerio Mastandrea
Una storia d’amore ambientata tra le mura di un reparto ospedaliero dedicato a pazienti in coma, dove gli “spiriti” dei ricoverati attendono, invisibili, di risvegliarsi o “emigrare” nell’Aldilà. Il secondo lungometraggio di Valerio Mastandrea, arriva sei anni dopo il suo debutto cinematografico con Ride (2018) e si regge su degli spunti estremamente interessanti. Come nelle sue stesse parole, il regista elabora una serie di riflessioni sulla vita e la morte, l’amore e la fragilità umana, riuscendo, a tratti, a creare momenti di sincera e sentita commozione. Un racconto narrato con delicatezza e ironia che, attraverso la natura onirica della storyline e la sua rappresentazione di una dimensione limbica, sembra prendere a modello e reinventare cult come Heaven Can Wait (Il paradiso può attendere, 1978) e Ghost (1990). Se però le premesse intrigano, lo scorrere delle sequenze rivela un prodotto non sempre all’altezza delle tematiche di cui si fa carico e del tono “surreale” su cui decide di basare i suoi intenti narrativi. Le relazioni tra i personaggi - tra cui quella dei due protagonisti - vengono raccontate in maniera fin troppo sbrigativa, precludendo la possibilità di creare dei momenti che, se sviluppati con maggiore approfondimento, avrebbero potuto smuovere realmente le corde emotive del pubblico. Questo fattore si riverbera anche su un cast tutto sommato mal sfruttato, come nel caso del personaggio di Laura Morante, inteprete in gran forma ma limitata da un copione che non lascia nessun tipo di spazio alla potenziale intensità, ed ironia, del suo personaggio, riducendo così la sua presenza ad una sorta di cameo. I tempi, l’uso spropositato della musica - che irrompe sulla scena sintetizzando sequenze che avrebbero meritato un maggiore minutaggio - e una sceneggiatura con grandi lacune, sono il grande problema di Nonostante. Un vero peccato, poiché vi sono trovate degne di nota - come ad esempio il “volo nel vento” di Mastandrea - che se inserite in un insieme maggiormente solido avrebbero colpito nel segno.
Apocalypse in the tropics, di Petra Costa
Nel corso degli ultimi anni si è potuto assistere alla “hate campaign” perpetrata dall’estrema sinistra con l’intento di manipolare il pubblico medio e instaurare uno dei propri candidati come capo di governo. Questa manipolazione mediatica, basata per lo più sulla xenofobia e su come la religione può giocare un ruolo importante in queste situazioni, è stata per lo più al centro delle recenti elezioni politiche in Sud America, dove Paesi come l’Argentina, il Cile e il Brasile hanno vissuto periodi tumultuosi. La recente situazione in quest’ultima Nazione è al centro di Apocalypse in the Tropics, il nuovo documentario di Petra Costa, che analizza come il partito di Jair Bolsonaro ha cercato di vincere le elezioni contro Luiz Inácio Lula da Silva sfruttando il fanatismo religioso del Paese. Quello che risulta ancora più interessante è la rappresentazione di alcuni degli evangelisti più conosciuti in Patria e come questi siano più interessati al potere e ai soldi più che a rispettare i “valori” del loro credo, una contraddizione che è sempre stata presente nella storia di ogni religione. Strutturando il suo lavoro su cinque capitoli, Costa da una visione a tutto tondo dell’impatto del fanatismo religioso in Brasile e, nel fare ciò, mette in mostra la sua grande abilità nel cambio di regia da un capitolo all’altro. Infatti spiccano l’utilizzo del materiale d’archivio nel quarto capitolo, dove la regista mostra le origini del fanatismo e come queste siano state influenzate dagli evangelisti statunitensi a fine anni cinquanta, o anche l’utilizzo di videoclip tratte dai social media per mostrare le rovinose conseguenze e le insurrezioni del popolo dopo la vittoria di Lula e, infine, le terrificanti interviste condotte dagli evangelisti nelle quali “spiegano” le proprie motivazioni verso il sostegno a Bolsonaro. Alla fine dell’opera Costa riflette sul significato della parola “apocalisse”, la quale dovrebbe simboleggiare una rivelazione e un senso di chiusura, ma come mostrato dalla cineasta brasiliana la fine di questo periodo tumultuoso sembra ancora lontano. Apocalypse in the Tropics risulta essere una visione tanto affascinante quanto necessaria.
Cloud, di Kiyoshi Kurosawa
Kiyoshi Kurosawa è ormai uno dei registi nipponici più longevi in attività. La sua carriera ha ormai spiccato il volo, soprattutto grazie al Festival di Venezia. Dopo aver riformato e reso un’eccellenza a livello mondiale il J-Horror, il cineasta ha saputo ricalibrarsi ed adattare il proprio stile ellittico e particolareggiato ai più disparati generi, mettendo in mostra una sapienza nell’uso della macchina da presa per la narrazione e un’intelligenza stilistica con pochi pari all’interno del mondo cinematografico. Quest’anno - dopo essere già stato partecipe per la prima volta nel 2012 nella sezione dedicata alle opere fuori concorso con la sua serie TV Penance (2012), e dopo aver vinto, nel 2020, il Leone d'argento per la miglior regia per la versione cinematografica del film Supai no tsuma (2020, in inglese Wife Of A Spy) - Kurosawa è tornato al Lido di Venezia per la sua terza partecipazione, presentando il suo nuovo film: Cloud (2024). Un lungometraggio in cui presenta nuovamente le paure relative alle paranoie derivanti dal mondo del web e, soprattutto, del mondo digitale, ma che si occupa soprattutto di svelare il meccanismo capitalista estremamente competitivo che si nasconde all’interno della società giapponese, ormai corrotta in modo irreversibile. Per accentuare questa visione apocalittica, Kurosawa propone su schermo l’inquietudine derivante dalla sorveglianza del capitalismo e di come quest’ultima possa invadere, come un vero e proprio virus, tutto ciò che lo circonda. Ciò che attanaglia Yoshii (un bravissimo Masaki Suda), bagarino digitale la cui vita si svolge perlopiù dietro uno schermo, è un’ossessione sì per la tecnologia e per i suoi prodotti, ma soprattutto un desiderio per il benessere che proprio il digitale può garantire, attraverso il cosiddetto reselling, rivendita di oggetti di vario tipo. Ciò che Yoshii sviluppa è una fissazione per delle immagini, per degli schermi (geniale, proprio in questo senso, il continuo utilizzo delle surveillance cam che ricordano da vicino quelle dell’ultimo cinema di Soderbergh, più improntato proprio sulla sorveglianza del capitalismo), per un feticcio che detta e regola in primis l’approfondimento psicologico disturbante del protagonista del film, e che poi garantisce un ampliamento dello spettro della vicenda, che si impernia su una caccia all’uomo davvero inusuale e particolare, fatta perlopiù di conflitti psicologici, in cui la violenza si espande come un virus (usando sempre termini cibernetici) che infetta e coinvolge tutti, e apparecchia tutto per una discesa negli inferi, la quale si concretizza sia dal punto di vista pratico che concettuale, e sulla quale lo stesso Kiyoshi Kurosawa, tramite la sequenza finale, ironizza in maniera totalmente amara e pessimista. Dettagli che riprendono, da un lato, e che, dall’altro, ribaltano la logica di altri film presenti nella filmografia dell’autore quali Creepy (2016), che condivide sia lo sviluppo della trama sia l’aspetto psicologico dei suoi personaggi e Serpent’s Path (1998), dal quale Kurosawa riprende la sua capacità di piegare i generi al suo volere, facendo del film un’entità fluida in grado di cambiare continuamente in funzione della narrazione, e di espandere i confini della riflessione tecnologica e filmica (anche qui, la funzione degli schermi risulta di primaria importanza) ad un ulteriore livello, ovvero quello ultra-terreno.
Baby Girl, di Halina Reijn
Il terzo film della regista olandese Halina Reijn - dopo Instinct (2019) e il debutto americano di Bodies, Bodies, Bodies (2022) - con la sua trama, in fondo, già largamente affrontata nella storia del cinema (la scabrosa relazione tra una donna matura e un uomo più giovane) poteva rappresentare un enorme pericolo. La regista, però, stupisce per il tono, innovativo e personale, con cui decide di affrontare una materia che rischiava di risultare ridondante e banale. Attrice e allieva di Paul Verhoeven, Reijn eredita dal maestro la tendenza verso una cinema carnale e psichedelico, fortement inserito nella Pop Culture e focalizzato su un costante gioco provocatorio con i suoi spettatori - non a caso molti sono gli omaggi alle opere dell’autore, come il celebre escamotage dell’”accavallamento delle gambe”. Nonostante la forte derivazione verhoeveniana lo sguardo di Reijn trova però una forte indipendenza grazie a uno studio maggiormente approfondito dei personaggi - non più macchiette allegoriche ma esseri umani in carne ed ossa - e ad uno stile di regia attento nel dosare i vari elementi del racconto. Il “flamboyant” narrativo si ritrova quindi solo sul piano dello sceneggiatura - che ricorda i toni camp delle storie di Adrian Lyne, con la differenza di essere molto più risolta e completa sul piano umano e drammaturgico - che viene stemperata dalla “linea visuale” con cui Reijn decide di filmare i suoi protagonisti, non a caso svariate sequenze vengono realizzato attraverso l’uso della camera a mano. Ciò che ne esce fuori è la storia di una relazione di co-dipendenza estremante umana e, a tratti, intelligentemente ironica, basata su un complesso sistema di dinamiche di potere. Un cast in ottima forma sigilla il tutto, e viene capitanato da un Harrison Dickinson che ci regala un personaggio sfaccettato, astraendosi da semplice “oggetto del desiderio”, e sopratutto da una Nicole Kidman in stato di grazia. Per la diva il personaggio di Romy diviene l’ulteriore espressione di una carriera costruita sulla costante voglia di sperimentare e mettersi in gioco. Un ruolo genialmente sfrontato per l’attrice hollywoodiana, in cui si possono intravedere i tratti di quella Elle ferocemente interpretata da Isabelle Huppert nel 2016…chissà se, guardando Baby Girl, la presidente di giuria avrà la medesima impressione.
Antikvariati, di Rusudan Glurjidze
Dopo essere stata direttrice creativa della Cinetech Film Production Company, Rusudan Glurjidze, regista, sceneggiatrice e produttrice georgiana, ha esordito ufficialmente alla regia nel 2016, con il film House Of Others (2016), un dramma che portava lo spettatore a confrontarsi con una pagina nera di Storia degli anni Novanta: la guerra tra la Georgia e l’Abkhazia. Una situazione che influenzò notevolmente il panorama georgiano dell’epoca e che, soprattutto, costrinse tantissimi a fuggire dal proprio Paese e vivere in case possedute, precedentemente, da persone nemiche. E sempre da un’indagine sulla Georgia odierna parte anche Antikvariati, film presentato alle Giornate degli Autori. Un opera che racconta lo stato degli abitanti della Georgia nei confronti della “madre” Russia - con non pochi riferimenti alle ultime vicende “putiniane” - e che esplicita, soprattutto, la condizione dei georgiani nei confronti di coloro che provengono da culture e religioni diverse, osservando da vicino lo stato di diffidenza nella quale è ormai piombata la stessa Europa e mostrando, soprattutto, la straordinaria ed enorme potenza di fuoco con cui la Russia fagocita gli stati confinanti (emblematica, sotto questo punto di vista, è la sequenza finale). Ma la forma scelta per narrare il dramma europeo è davvero inusuale. Il film si divide a metà e viene caratterizzato da una prima e un’ultima parte in cui a prevalere è l’aspetto più spietato della vicenda, colmo di primi piani e di scelte emotivamente molto impressive che creano una sorta di rapporto simbiotico (in alcuni casi forzato) con lo spettatore, favorendo l’empatia nei confronti dei personaggi presenti, e da una parte centrale in cui, paradossalmente, è il registro comico a prevalere. Il rapporto tra i due protagonisti, Lado (interpretato da un Vladimir Daushvili a tratti surreale) e Medea (Salome Demuria, il cui particolare volto ben si presta alla dimensione più romantica del film), è vissuto nella parte centrale come una screwball, in cui sono ripresi, fin nei particolari, gli screzi e i dialoghi più divertenti tra i due. La regia di Rusudan Glurjidze, che passa dalla staticità della prima parte ad un progressivo movimento, diventa sempre più estrosa e incalzante, grazie a punti macchina inusuali e a piani sequenza che velocizzano il timing delle inquadrature. Proprio questo, però, favorisce un maggiore squilibrio ad Antikvariati, che ne esce depotenziato e sospeso tra risate (mai troppo eccessive e in molti casi trattenute) e dramma, senza mai intraprendere una strada netta e restando sempre in bilico, denotando una narrazione interessante che non mantiene, purtroppo, mai una strada precisa da perseguire, lasciando la sensazione di essere di fronte ad un lavoro che, se asciugato a dovere, avrebbe funzionato in un modo molto più corretto.
El Jockey, di Luis Ortega
A seguito del grande successo di El ángel (L’angelo del crimine, 2018), presentato nella sezione Un Certian Regard del Festival di Cannes, il regista argentino Luis Ortega debutta in Concorso al Lido con El Jokey. Un film che in un primo momento può destabilizzare, ma che con il dipanarsi della storia, e delle sue assurde vicende, riesce pienamente ad incantare e rimanere fortemente impresso nella mente dello spettatore. Ortega gioca senza freni con l’assurdo, non ponendosi limiti e costruendo un’universo irrimediabilmente grottesco, abitato da personaggi psicotici e in perenne mutamento. Con il suo spropositato uso dei simboli - la cui maggior parte richiamano la storia politica e sociale dell’Argentina -, e la sua descrizione di una società paradossale, non si può non notare nel film una vena di chiara derivazione kafkiana. Sembra quasi che il regista sudamericano abbia l’intenzione creare una curiosa e riuscita sintesi tra un “surrealismo cinematografico” tipicamente buñueliano e il caratteristico arco evolutivo dei protagonisti almodóvariani. Drammatico eppure irrimediabilmente comico, eccessivo e strampalato, El Jokey è un film che o si ama o si odia, non esiste via di mezzo. Lo si può rifiutare in blocco o decidere di farsi possedere dalla sua natura pazzoide e cervellotica, ridere con lui della vita oppure rimanere impassibili e sconcertati. Il merito della riuscita di questo lavoro non appartiene però solo al suo regista ma anche ad un eccellente cast, capitanato da un Nahuel Pérez Biscayart in puro stato di grazia, un geniale Daniel Giménez-Cacho García e una misurata e ironica Úrsula Corberó - celebre protagonista del fenomeno televisivo spagnolo La casa de papel (La casa di carta, 2017-2022) . Da segnalare la presenza di Mariana Di Girolamo, indimenticabile protagonista di Ema (2019), in un piccolo, ma memorabile, ruolo.
Super Happy Forever, di Igarashi Kohei
Kohei Igarashi è uno dei nuovi “enfant prodige” della scuola registica giapponese. Il cineasta non è nuovo, però, agli scenari del Lido di Venezia. Infatti, già nel 2019, con il suo Takara, la nuit où j’ai nagé (2019), co-diretto insieme al francese Damien Manivel, Igarashi si era presentato alla Mostra, nella sezione Orizzonti. A distanza di cinque anni, il regista nipponico torna al Lido con il film d’apertura della ventunesima edizione delle Giornate degli Autori, dal titolo Super Happy Forever (2024). Nel narrare lo smarrimento del protagonista Sano (Hiroki Sano), Igarashi risulta davvero delicato, sviando lo spettatore e conducendolo in un primo momento verso territori già battuti in film ormai diventati di culto - come Drive My Car (2021) di Ryūsuke Hamaguchi - , salvo poi optare per una narrazione completamente diversa, dove il senso nostalgico relativo al passato è dato dagli oggetti con cui lo stesso protagonista viene a contatto. In primis il berretto rosso nella sequenza della spiaggia, sorta di vero e proprio totem attraverso cui lo stesso protagonista “ritrova” l’amata, oltre alla macchina fotografica analogica di lei, dove il gioco di contrapposizione con il digitale offre una riflessione molto profonda su come l’imprinting del ricordo possa essere diverso a seconda dello strumento usato per ritrarlo, e all’uso di carta e penna per salvare il numero dell’amata, dove l’inchiostro rappresenta un elemento indelebile e impossibile da cancellare in qualunque circostanza. C’è dunque una buona dose di romanticismo e, soprattutto, c’è un legame tra amore e morte, eros e thanatos, attraverso cui Igarashi racconta la tempesta emotiva che attanaglia e pervade l’anima del suo attore principale. In più circostanze, infatti, all’interno del film, vi sono delle scene che materializzano e danno un senso al rapporto tra queste componenti, come fossero dei veri e propri “ponti” che collegano questi due stati d’animo apparentemente così distanti. In questo senso, la splendida prestazione offerta da Hiroki Sano passa soprattutto attraverso le inquadrature del regista, la cui scelta di adottare più volte, nel corso del film, il campo medio e soprattutto di posizionarsi con la macchina da presa alle spalle dei vari protagonisti, ha come effetto quello di accentuare il non detto, di favorire le ellissi del montaggio senza aver bisogno di didascalie (in questo senso, c’è più di una semplice somiglianza con il cinema di Eric Rohmer e quello di Hong Sang-soo) e di garantire molta più espressione ed enfasi ad ogni singola scena del film, il quale si riscopre con molto più respiro proprio grazie alle inquadrature utilizzate, ad alcuni spezzoni molto significativi che vanno anche in contrasto con il tono scelto per narrare (su tutte, la scena del karaoke) e anche grazie ad alcune scelte musicali (su tutte, l’esemplificativa Beyond The Sea, brano di Bobby Darin del 1959) che rendono il film decisamente appetibile e leggero per qualsiasi tipologia di spettatore, nonostante gli argomenti trattati richiedano ben più di una semplice riflessione.
Marco, di Aitor Arregi e Jon Garaño
Presentata nella sezione Orizzonti, Marco è la nuova opera del prolifico duo di cineasti Aitor Arregi e Jon Caraño, e racconta la storia, o meglio, la grande bugia imbastita da Marco Enric, un uomo che ha mentito sulla propria permanenza nel campo di concentramento di Mathausen nel 1941. Durante quell’epoca, molti spagnoli furono deportati nei campi nazisti e, visto che la situazione non è mai stata diffusa a livello mediatico e informativo quanto si doveva, Marco Enric ne approffitó e inizió a costruire una certa fortuna grazie alle sue menzogne, arrivando a sfruttare le esperienze delle persone che furono veramente deportate. Il film, ambientato principalmente a inizi anni 2000, risulta essere piuttosto accattivante sin dai primi istanti, dove si può capire la natura bugiarda e quasi patologica del protagonista, un approccio che funziona appieno poiché permette allo spettatore di capire l’aspetto carismatico e camaleontico del protagonista e il motivo principale per cui ha avuto così successo nella vita. Quest’ultimo aspetto è messo in risalto soprattutto dall’eccellente lavoro di Eduard Fernández, la cui interpretazione è in grado di esplorare le varie sfumature di Marco Enric. Una volta che la verità viene a galla, l’uomo sarà costretto a creare una nuova rete di bugie, peggiorando ancora di più la sua situazione e quella della sua famiglia. Il punto di forza dell’opera è proprio questa continua tensione che permane durante tutta la durata, dove i due registi costruiscono questo complesso intreccio tra la verità dell’uomo e quella del film. Infatti, Arregi e Caraño “manipolano” la storia vera per creare la presunta verità di Marco Enric, ma pur sempre romanzando la vicenda. Nonostante il film non presenti una certa complessità a livello stilistico, Marco risulta essere una piacevole e sorprendente visione.
Separated, di Errol Morris
Presentato nel Fuori Concorso, il nuovo documentario di Errol Morris si distingue, sopratutto, per il suo essenziale contributo informativo su una sconcertante parentesi della recente storia americana. Basandosi sul libro-inchiesta di Jacob Soboroff (che ha accompagnato il regista alla prima veneziana) Separated si concentra sul disumano fenomeno della separazione delle famiglie migranti messicane che entrano illegalmente nel territorio degli Stati Uniti. Da una realtà di miseria queste persone si trovano costrette a varcare lo spaventoso muro che separa i due Stati trovando, dall’altra parte, un altro inferno. Attraverso una serie di sconvolgenti interviste con funzionari e whistleblower Morris svela una realtà scottante e mostruosa, mossa dalla dittatoriale e dispotica “cultura della violenza” nata, e formatasi, sotto l’Era Trump. Estremante efficaci le scelte di presentare le “dinamiche di separazione” attraverso un piccolo film-narrativo che mostra la fuga, e il successivo allontanamento, di una madre e suo figlio, e le immagini prodotte da uno Zootropio che simbolizzano i punti fondamentali della materia trattata. Nonostante questi elementi interessanti e l’importanza di denunciare un simile episodio, il documentario rimane però un prodotto estremamente standardizzato, privo di picchi o di cadute, ma infondo va bene così, poche il suo obbiettivo è proprio quello di ricostruire, nella maniera più diretta e chiara possibile, un preoccupante fenomeno.
Quiet Life, di Alexandros Avranas
Alexandros Avranas è conosciuto ai più per essere uno dei fautori principali della nuova Greek Weird Wave, filosofia di pensiero greca che da un po’ di anni a questa parte ha abituato gli spettatori di tutto il mondo ad un nuovo tipo di cinema e che ha stupito e riformato radicalmente molto cinema pop contemporaneo. Tra i più incisivi, in questo senso, si può certamente annoverare Yorgos Lanthimos, coevo di Avranas, ormai diventato vero e proprio regista di punta del cinema mainstream internazionale. Avranas, di contro, dopo gli inizi esagerati e molto spinti con Miss Violence (2013), dramma mostrato in concorso alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e vincitore del Leone d’Argento e della Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile (premio consegnato a Themis Panou), ha cercato di intraprendere la strada che porta ad Hollywood tramite il suo terzo film, Dark Crimes (2016), thriller con protagonista Jim Carrey che purtroppo ha sortito l’effetto contrario, stroncandone rapidamente l’ascesa e fermando, di fatto, il regista per un lungo periodo di tempo - eccezion fatta per Love Me Not (2017). Avranas, dopo la sua prolungata assenza, sbarca al Lido di Venezia nel 2024 con il suo nuovo film, Quiet Life, che apparentemente sembra un ritorno alle origini. L’operazione effettuata nel lungometraggio si può accostare tranquillamente a quanto fatto solo pochi mesi fa da Lanthimos con Kinds Of Kindness (2024). Entrambi, infatti, sono film che si rifanno apparentemente ai punti cardine del cinema greco contemporaneo, ma ad un occhio più attento risultano filtrare la visione della Greek Weird Wave allo scopo di prenderla in giro attraverso un’attitudine notevolmente più leggera e, per certi versi, comica. Per la prima volta, in Quiet Life, storia dei russi Sergej e Natalia, la cui richiesta d’asilo in Svezia è respinta con conseguenze paradossali e allucinanti per la loro figlia più piccola, Katja, si respira un’attitudine che si distacca dalla gravosità dei toni di Miss Violence. Il film, quindi, è ammantato da un barlume di ottimismo con cui Avranas stesso contravviene il registro della Greek Weird Wave, la quale è richiamata visivamente tramite la distribuzione diegetica degli attori all’interno dell’inquadratura (sempre fissi e molto spesso ai margini), e le simmetrie della macchina da presa, elementi che hanno lo scopo di descrivere esseri viventi fragili e scissi e a vivisezionare radicalmente l’idea di famiglia borghese. Tutto questo è però filtrato attraverso un registro meno pesante, dove anche gli attori, solitamente inglobati all’interno di una recitazione straniante nei film del movimento greco, superano i loro immobilismi mimici e cedono alle emozioni. Quiet Life, però, non dismette i panni della critica sociale, risultando un attacco ben assestato nei confronti dell’ipocrisia socio-politica per quanto riguarda i rifugiati, denunciandone la condizione restrittiva in un modo meno asfissiante rispetto al solito. Alexandros Avranas si orienta, quindi verso un simbolismo (come dimostra la metafora “vitale” dell’albero e dell’acqua) mitopoietico mai gratuito, atto soprattutto a rovesciare il pessimismo tragico delle precedenti opere del movimento greco e a concedere, al contrario di esse, speranza.