Il percorso artistico di un esponente
di spicco del cinema indie contemporaneo
di Naomi Roccamo
TR-07
19.06.2020
Circa due anni fa, nel cuore della primavera, i cinefili d’Italia rimangono sorpresi dall’uscita di un film sgargiante, commovente e destinato a rimanere nei loro pensieri per un po’: si tratta di The Florida Project, opera ultima (anche se sappiamo che la prossima arriverà prestissimo) di quel regista ingegnoso e speciale che è Sean Baker.
Ma chi si nasconde dietro questo personaggio apparentemente anonimo? C’è chi ne ha sicuramente sentito parlare grazie a un altro film, Tangerine, che ha come protagoniste due esuberanti prostitute transgender alle prese con mille difficoltà, e chi è completamente all’oscuro della sua carriera, a tratti incredibile quasi come i personaggi che decide di mettere in scena.
La carriera di Baker inizia nel mondo dell’editoria dove, subito dopo la laurea in cinema alla New York University, inizia a realizzare spot pubblicitari e video promozionali. Con i primi guadagni riesce a ottenere cifre modeste ma sufficienti per poter lavorare al suo primo film. Nel 1996, con un budget di soli $70,000, realizza Four Letter Words (direttamente ispirato alla canzone di Dylan Love Is Just a Four Letter Word), probabilmente un ritratto autobiografico dell’adolescenza, incentrato su una notte di festa. Il film è fin dalle prime inquadrature un omaggio a Mike Leigh, ma anche a film come Rashômon di Kurosawa e Mystery Train di Jim Jarmusch, a cui ha dichiarato pubblicamente di essersi ispirato.
L’opera prima è pura sperimentazione, stilistica e contenutistica, e presenta tutta la genuinità tipica dell’esordiente. L’entusiasmo dei primi anni di attività motiva, da un lato, una continua produzione artistica e, dall’altro, un’inarrestabile ricerca di finanziamenti. Nonostante ciò, il regista, nelle interviste successive, ha dichiarato di ritenere questo film troppo acerbo per i festival, sincero nelle intenzioni ma ben lontano da quella poetica che inizia a sviluppare già dal secondo film, Take Out, co-diretto con Shih-Ching Tsou.
Il protagonista del film, un immigrato clandestino cinese che fa il fattorino a New York, anticipa una serie di figure che si susseguono nei vari film di Baker, personalità poco convenzionali e spesso emarginate. Take Out, che è un omaggio ai fratelli Dardenne e al realismo inglese di Ken Loach, è girato in digitale a differenza del precedente e riesce a candidarsi per il premio John Cassavetes agli Independent Spirit Awards del 2009.
All’età di 27 anni Baker inizia a lavorare per Fox come co-autore per il programma Greg the Bunny, in cui si riscontra quella comicità che troviamo nei film successivi. I primi anni Duemila non rappresentano un grande momento per il cinema indipendente e questo giustifica la difficoltà dei cineasti in opera in quegli anni nel trovare fondi per le loro opere. Passano cinque anni dopo la realizzazione prima dell’arrivo al cinema di Take Out, un periodo in cui Baker è già impegnato nella promozione di Prince of Broadway, fra enigmi economici, alternative e soluzioni intraprendenti.
Prince of Broadway, sulla stessa scia da docu-fiction di Take Out, narra la vicenda di un giovane venditore ambulante alle prese con quello che all’improvviso scopre essere suo figlio. Vengono investiti $100,000 e guadagnati $28,000. Questo sembra segnare la fine della carriera di Baker ma, in un certo senso, ne rappresenta solo l’inizio. Ciò che vale in termini economici non sempre corrisponde ai giudizi sul film e con l’aumentare dei riconoscimenti e della notorietà, Baker riesce a ottenere per Prince of Broadway il contributo di Lee Daniels, che promuove in giro il film. Per la prima volta uno dei film del regista è affiancato dal nome di un altro rinomato regista (Daniels sarebbe poi diventato il produttore della serie TV Empire) e si riesce così a realizzare la versione DVD.
Un cambiamento di scenario a volte è prezioso per creare. Per il regista lo è quando, dopo questi primi film, si trasferisce da New York a Los Angeles, dove ad accoglierlo ci sono i produttori pronti a finanziare Starlet.
Starlet, che prende il nome dal cagnolino a cui tutti si affezioneranno vedendolo, non è che una celebrazione dell’amicizia femminile, quella fra una giovane porno-attrice e una vedova che si conoscono in una situazione insolita: la vendita di oggetti nel giardino dell’anziana signora. È il primo film non completamente finanziato dal regista, oltre che il primo a uscire nelle sale italiane. Viene proiettato al Festival di Locarno e vince uno Spirit Award, nonostante i fastidi della censura a causa di alcuni contenuti. È una vittoria: la relazione fra settore indipendente e i più importanti premi cinematografici diventa sempre più stretta col passare degli anni, testimonianza del fatto che indipendenza non è sinonimo di elitarismo e che si può essere indie anche se si punta (e si arriva) in alto.
Sean Baker può essere considerato un regista indie; con Prince of Broadway non conquista solo una grande fetta di pubblico, ma anche due importanti figure dell’Indiewood, i registi Jay Duplass e Mark Duplass, che decidono, nel 2015, di produrre Tangerine.
Questo cinema è indubbiamente il frutto di un’eredità. I fratelli Duplass (che poi sono anche fra i fratelli maggiori del cinema di Sean Baker) sono fra i maggiori esponenti del mumblecore, quel genere di film indie degli anni Duemila che è espressione di un’apatia generazionale e un’insoddisfazione cronica dovuta a disastrose relazioni sentimentali o professioni poco appaganti: l’emblema di una generazione. Quando si parla di mumblecore, più che a un movimento si pensa a un sentire comune, a un insieme di film che sono specchio di una realtà senza filtri, raccontata empaticamente. Questo sentire è anche una sensazione puramente onomatopeica, risalendo il termine proprio a quel “mumble-mumble” che nei fumetti fa riferimento al rimuginare dei personaggi.
Il termine si inizia a usare dagli anni Novanta, con Slacker di Richard Linklater, e viene coniato durante un’intervista di Indiewire ad Andrew Bujalski, regista di Funny Ha Ha ed esponente del genere. Anche Noah Baumbach darà un contributo importante con Frances Ha. Spesso i mumblecore sono realizzati con budget molto ridotti, in digitale, e circolano grazie al passaparola online. Spesso nascono con un crowdfunding che contribuisce a creare un certo hype prima dell’uscita del prodotto. Il fatto poi che nell’agosto 2013 anche Spike Lee abbia raccolto $1,418,910 per finanziare il suo Da Sweet Blood of Jesus dimostra come amatorialità e purezza sperimentale non siano le sole prerogative del crowdfuding e che non sia raro che film prodotti “dal basso” finiscano per diventare titoli da Sundance.
Proprio il Sundance Film Festival (il cui nome proviene dal fondatore Robert Redford, che nel 1969 recitava in Butch Cassidy and the Sundance Kid di George Roy Hill), dal 1981 rifugio intimo per cineasti indipendenti, è un’istituzione necessaria per tentare di capire il percorso di questo tipo di cinema. La storia dei protagonisti attuali del Sundance è strettamente legata a quella dei loro predecessori: registi come Sofia Coppola, Wes Anderson, David Fincher, Kimberly Peirce, Alexander Payne, Quentin Tarantino o Spike Jonze. Sono i cosiddetti Pizza Knights, come ama definirli James Mottram nel suo libro Sundance Kids: How the Mavericks Took Back Hollywood, dove vengono paragonati a personalità importantissime per la storia del cinema come Martin Scorsese, Steven Spielberg o Robert Altman, i mavericks.
Cosa hanno in comune due generazioni di registi (apparentemente) così diverse fra loro? Il modo in cui si servono degli studios e realizzano i loro film presentano diversi punti in comune. Essere un regista indipendente a Hollywood equivale a riuscire ad attingere ai budget, anche elevati, disponibili e a creare un’opera originale senza privarsi di un cast possibilmente stellare. Sta qui la differenza fra i primi registi indipendenti (ad esempio Jim Jarmusch), i cui film rimanevano confinati nell’East Coast, a New York, e registi arrivati fino alla West Coast, nella California del Sundance. Di fatto questi registi devono al Sundance i loro esordi: Paul Thomas Anderson partecipava ai workshop del Sundance Institute, Wes Anderson ci portò il suo primo corto, Quentin Tarantino e anche David O. Russell debuttarono al Sundance.
La prima osservazione, parlando di Tangerine, è tutta rivolta al modo in cui è stato realizzato. È il 2012, Baker è sempre affiancato da Radium Cheung, direttore della fotografia, abile nell’immortalare il sole della California, come era già successo in Starlet. Ecco che la necessità si scontra con la creatività. O meglio, esse si incontrano: dopo pochi giorni di riprese Baker decide, per questioni economiche, di girare servendosi di uno strumento comune e alla portata di tutti, l’iPhone 5s. Ispirato dall’uso dell’iPad nel film di Spike Lee Red Hook Summer, filma per qualche minuto di prova con il suo telefono e mostra poi il risultato agli investitori, trovandoli entusiasti. La regia improvvisata è coerente con la natura della narrazione, travagliata e movimentata: grazie all’uso di un supporto maneggevole è possibile una vicinanza d’effetto durante i primi piani e gli zoom, funzionali sia per la tecnica che per la sceneggiatura. Gli attori inoltre si sentono più liberi di recitare davanti a uno strumento così familiare. Alcuni fra i passanti non avevano nemmeno capito di essere delle comparse prima che il produttore andasse da loro a chiedergli di firmare la liberatoria.
Le immagini sono riprese con l’ausilio di una Steadicam Smoothee e di un adattatore anamorfico per iPhone. Il girato viene poi rivoluzionato dal lavoro di post-produzione, apice dell’innovazione bakeriana: basta un’app di soli $8, Filmic Pro, per controllare messa a fuoco, temperatura colore e diaframmi, e attribuire a Tangerine quei colori tipici del cielo di Los Angeles al tramonto. Il titolo del film rimanda proprio al colore di un mandarino e le tonalità arancio pervadono tutto il film, dal rossetto di una delle protagoniste, Alexandra, alle scene girate di notte, rese ancora più scure. Una saturazione direttamente proporzionale all’esuberanza dei colori.
Ma Baker non segue il modello mumblecore tipicamente adottato dai Duplass, poiché non combacia col tipo di storia che voleva raccontare; ha il talento, l’esperienza e il team adatto per creare qualcosa di nuovo. Anche Tangerine arriva ai festival, al Sundance e in Italia al Torino Film Festival, luoghi in cui non viene presentato come un finto documentario o found footage, ma come un lungometraggio standard, poiché l’iPhone stesso non fa parte della narrazione cinematografica. Ecco che arrivano premi ed elogi a livello internazionale.
Da un lato questa rivoluzione digitale si compie grazie alla poetica del regista, dall’altro, ancora una volta, sono le necessità, affrontate con creatività e parsimonia, a dargli vita (Baker ha dichiarato più volte il suo amore per i 35mm e il suo desiderio di girare preferibilmente in pellicola).
È l’umanità, prima della politica, il fattore scatenante delle storie che racconta. Il regista non pretende di saper raccontare soltanto documentandosi o tastando una realtà che gli è nuova, ma diventa il portavoce per eccellenza di quella realtà, non solo ascoltando le testimonianze degli attori emergenti con cui decide di collaborare, ma permettendogli di guidarlo, forse addirittura di insegnargli il modo più sincero per raccontare il loro mondo. I protagonisti della sceneggiatura potrebbero coincidere con i protagonisti di ciò che ne è alla base. Spesso i suggerimenti dati da una situazione particolare, da una scena solo immaginata o da un singolo personaggio precedono la trama, che viene modellata sulle idee. Del resto il cinema indipendente si è sempre fatto carico di rappresentare minoranze come la comunità LGBTQIA offrendone una visione sociale, politica e ideologica alternativa ed è già evidente con il New Queer Cinema degli anni Ottanta/Novanta in prodotti come Paris Is Burning.
Nel caso di Tangerine il regista non aveva in mente nessuna storia prima di incontrare le due attrici protagoniste. Sapeva però con certezza di voler girare un film che terminasse con una scena dentro Donut Time (eatery che ha da poco chiuso i battenti). L’azione delle due protagoniste detta l’andamento delle vicende e il ritmo di regia e montaggio. Paradossalmente il film termina con il luogo che ne rappresenta proprio la nascita, o almeno quella ideale.
Con The Florida Project, poi, ignora un vecchio detto hollywoodiano secondo cui non bisognerebbe mai lavorare con vecchi e bambini. Infatti sono proprio Moonee e i suoi piccoli amici, costantemente inquadrati alla loro altezza e mai dal basso, i re e le regine indiscusse di quel regno appena fuori dal castello di DisneyWorld. Dopo lo scoppio della crisi immobiliare, fra il 2006 e il 2007, e della conseguente recessione americana, i motel sulla Route 192 diventano i rifugi per tutti gli sfollati, pagati alla giornata. Baker si ispira proprio a loro per inscenare la complicità fra Moonee e la giovanissima mamma Halley: il loro legame esplode fra i colori pastello dei gelati mangiati in cortile e dei palazzi che rappresentano la loro nuova casa. Si tasta la stessa disillusione vivace dei film di Harmony Korine, si intravedono dei personaggi alla Andrea Arnold.
La presenza di una stella come Willem Dafoe, nel ruolo del guardiano, facilita l’avanzata nelle sale; la distribuzione è affidata, dopo la tappa al festival di Cannes, a A24 in America e in Italia a Valerio De Paolis e BiM. Ma Dafoe non è l’unico a ricevere candidature e premi, anzi. Oltre all’attrice emergente Bria Vinaite, pescata direttamente da Instagram per il suo primo ruolo, è amatissima la performance di Moonee, Brooklynn Prince, all’epoca sette anni e adesso protagonista di The Turning e regista del corto Colours (Baker la aiuta a dirigerlo dopo averla definita la migliore in assoluto fra le attrici con cui ha collaborato).
Verso la fine delle quasi due ore di film tutto diventa ancora più dinamico. Viene ripreso di nuovo in mano l’iPhone per rincorrere i bambini dentro al parco (senza chiedere alcun permesso per farlo). Cambia il formato, drasticamente, e cambia il mood, più impercettibilmente. La risata di Moonee che fino a quel momento aveva riempito le nostre orecchie si trasforma in pianto: il tragicomico si compie.
Il cinema di Sean Baker riprende la combinazione di commedia e pathos che caratterizza ogni cosa. Il realismo, sia quando ricalca il neorealismo di De Sica o Rossellini, sia in una chiave pop, è comunque il principio a cui rimane fedele, ma è reso accattivante, memorabile, dolce. Che sia questo nuovo universo registico l’eredità del cinema indipendente?
Il percorso artistico di un esponente
di spicco del cinema indie contemporaneo,
di Naomi Roccamo
TR-07
19.06.2020
Circa due anni fa, nel cuore della primavera, i cinefili d’Italia rimangono sorpresi dall’uscita di un film sgargiante, commovente e destinato a rimanere nei loro pensieri per un po’: si tratta di The Florida Project, opera ultima (anche se sappiamo che la prossima arriverà prestissimo) di quel regista ingegnoso e speciale che è Sean Baker.
Ma chi si nasconde dietro questo personaggio apparentemente anonimo? C’è chi ne ha sicuramente sentito parlare grazie a un altro film, Tangerine, che ha come protagoniste due esuberanti prostitute transgender alle prese con mille difficoltà, e chi è completamente all’oscuro della sua carriera, a tratti incredibile quasi come i personaggi che decide di mettere in scena.
La carriera di Baker inizia nel mondo dell’editoria dove, subito dopo la laurea in cinema alla New York University, inizia a realizzare spot pubblicitari e video promozionali. Con i primi guadagni riesce a ottenere cifre modeste ma sufficienti per poter lavorare al suo primo film. Nel 1996, con un budget di soli $70,000, realizza Four Letter Words (direttamente ispirato alla canzone di Dylan Love Is Just a Four Letter Word), probabilmente un ritratto autobiografico dell’adolescenza, incentrato su una notte di festa. Il film è fin dalle prime inquadrature un omaggio a Mike Leigh, ma anche a film come Rashômon di Kurosawa e Mystery Train di Jim Jarmusch, a cui ha dichiarato pubblicamente di essersi ispirato.
L’opera prima è pura sperimentazione, stilistica e contenutistica, e presenta tutta la genuinità tipica dell’esordiente. L’entusiasmo dei primi anni di attività motiva, da un lato, una continua produzione artistica e, dall’altro, un’inarrestabile ricerca di finanziamenti. Nonostante ciò, il regista, nelle interviste successive, ha dichiarato di ritenere questo film troppo acerbo per i festival, sincero nelle intenzioni ma ben lontano da quella poetica che inizia a sviluppare già dal secondo film, Take Out, co-diretto con Shih-Ching Tsou.
Il protagonista del film, un immigrato clandestino cinese che fa il fattorino a New York, anticipa una serie di figure che si susseguono nei vari film di Baker, personalità poco convenzionali e spesso emarginate. Take Out, che è un omaggio ai fratelli Dardenne e al realismo inglese di Ken Loach, è girato in digitale a differenza del precedente e riesce a candidarsi per il premio John Cassavetes agli Independent Spirit Awards del 2009.
All’età di 27 anni Baker inizia a lavorare per Fox come co-autore per il programma Greg the Bunny, in cui si riscontra quella comicità che troviamo nei film successivi. I primi anni Duemila non rappresentano un grande momento per il cinema indipendente e questo giustifica la difficoltà dei cineasti in opera in quegli anni nel trovare fondi per le loro opere. Passano cinque anni dopo la realizzazione prima dell’arrivo al cinema di Take Out, un periodo in cui Baker è già impegnato nella promozione di Prince of Broadway, fra enigmi economici, alternative e soluzioni intraprendenti.
Prince of Broadway, sulla stessa scia da docu-fiction di Take Out, narra la vicenda di un giovane venditore ambulante alle prese con quello che all’improvviso scopre essere suo figlio. Vengono investiti $100,000 e guadagnati $28,000. Questo sembra segnare la fine della carriera di Baker ma, in un certo senso, ne rappresenta solo l’inizio. Ciò che vale in termini economici non sempre corrisponde ai giudizi sul film e con l’aumentare dei riconoscimenti e della notorietà, Baker riesce a ottenere per Prince of Broadway il contributo di Lee Daniels, che promuove in giro il film. Per la prima volta uno dei film del regista è affiancato dal nome di un altro rinomato regista (Daniels sarebbe poi diventato il produttore della serie TV Empire) e si riesce così a realizzare la versione DVD.
Un cambiamento di scenario a volte è prezioso per creare. Per il regista lo è quando, dopo questi primi film, si trasferisce da New York a Los Angeles, dove ad accoglierlo ci sono i produttori pronti a finanziare Starlet.
Starlet, che prende il nome dal cagnolino a cui tutti si affezioneranno vedendolo, non è che una celebrazione dell’amicizia femminile, quella fra una giovane porno-attrice e una vedova che si conoscono in una situazione insolita: la vendita di oggetti nel giardino dell’anziana signora. È il primo film non completamente finanziato dal regista, oltre che il primo a uscire nelle sale italiane. Viene proiettato al Festival di Locarno e vince uno Spirit Award, nonostante i fastidi della censura a causa di alcuni contenuti. È una vittoria: la relazione fra settore indipendente e i più importanti premi cinematografici diventa sempre più stretta col passare degli anni, testimonianza del fatto che indipendenza non è sinonimo di elitarismo e che si può essere indie anche se si punta (e si arriva) in alto.
Sean Baker può essere considerato un regista indie; con Prince of Broadway non conquista solo una grande fetta di pubblico, ma anche due importanti figure dell’Indiewood, i registi Jay Duplass e Mark Duplass, che decidono, nel 2015, di produrre Tangerine.
Questo cinema è indubbiamente il frutto di un’eredità. I fratelli Duplass (che poi sono anche fra i fratelli maggiori del cinema di Sean Baker) sono fra i maggiori esponenti del mumblecore, quel genere di film indie degli anni Duemila che è espressione di un’apatia generazionale e un’insoddisfazione cronica dovuta a disastrose relazioni sentimentali o professioni poco appaganti: l’emblema di una generazione. Quando si parla di mumblecore, più che a un movimento si pensa a un sentire comune, a un insieme di film che sono specchio di una realtà senza filtri, raccontata empaticamente. Questo sentire è anche una sensazione puramente onomatopeica, risalendo il termine proprio a quel “mumble-mumble” che nei fumetti fa riferimento al rimuginare dei personaggi.
Il termine si inizia a usare dagli anni Novanta, con Slacker di Richard Linklater, e viene coniato durante un’intervista di Indiewire ad Andrew Bujalski, regista di Funny Ha Ha ed esponente del genere. Anche Noah Baumbach darà un contributo importante con Frances Ha. Spesso i mumblecore sono realizzati con budget molto ridotti, in digitale, e circolano grazie al passaparola online. Spesso nascono con un crowdfunding che contribuisce a creare un certo hype prima dell’uscita del prodotto. Il fatto poi che nell’agosto 2013 anche Spike Lee abbia raccolto $1,418,910 per finanziare il suo Da Sweet Blood of Jesus dimostra come amatorialità e purezza sperimentale non siano le sole prerogative del crowdfuding e che non sia raro che film prodotti “dal basso” finiscano per diventare titoli da Sundance.
Proprio il Sundance Film Festival (il cui nome proviene dal fondatore Robert Redford, che nel 1969 recitava in Butch Cassidy and the Sundance Kid di George Roy Hill), dal 1981 rifugio intimo per cineasti indipendenti, è un’istituzione necessaria per tentare di capire il percorso di questo tipo di cinema. La storia dei protagonisti attuali del Sundance è strettamente legata a quella dei loro predecessori: registi come Sofia Coppola, Wes Anderson, David Fincher, Kimberly Peirce, Alexander Payne, Quentin Tarantino o Spike Jonze. Sono i cosiddetti Pizza Knights, come ama definirli James Mottram nel suo libro Sundance Kids: How the Mavericks Took Back Hollywood, dove vengono paragonati a personalità importantissime per la storia del cinema come Martin Scorsese, Steven Spielberg o Robert Altman, i mavericks.
Cosa hanno in comune due generazioni di registi (apparentemente) così diverse fra loro? Il modo in cui si servono degli studios e realizzano i loro film presentano diversi punti in comune. Essere un regista indipendente a Hollywood equivale a riuscire ad attingere ai budget, anche elevati, disponibili e a creare un’opera originale senza privarsi di un cast possibilmente stellare. Sta qui la differenza fra i primi registi indipendenti (ad esempio Jim Jarmusch), i cui film rimanevano confinati nell’East Coast, a New York, e registi arrivati fino alla West Coast, nella California del Sundance. Di fatto questi registi devono al Sundance i loro esordi: Paul Thomas Anderson partecipava ai workshop del Sundance Institute, Wes Anderson ci portò il suo primo corto, Quentin Tarantino e anche David O. Russell debuttarono al Sundance.
La prima osservazione, parlando di Tangerine, è tutta rivolta al modo in cui è stato realizzato. È il 2012, Baker è sempre affiancato da Radium Cheung, direttore della fotografia, abile nell’immortalare il sole della California, come era già successo in Starlet. Ecco che la necessità si scontra con la creatività. O meglio, esse si incontrano: dopo pochi giorni di riprese Baker decide, per questioni economiche, di girare servendosi di uno strumento comune e alla portata di tutti, l’iPhone 5s. Ispirato dall’uso dell’iPad nel film di Spike Lee Red Hook Summer, filma per qualche minuto di prova con il suo telefono e mostra poi il risultato agli investitori, trovandoli entusiasti. La regia improvvisata è coerente con la natura della narrazione, travagliata e movimentata: grazie all’uso di un supporto maneggevole è possibile una vicinanza d’effetto durante i primi piani e gli zoom, funzionali sia per la tecnica che per la sceneggiatura. Gli attori inoltre si sentono più liberi di recitare davanti a uno strumento così familiare. Alcuni fra i passanti non avevano nemmeno capito di essere delle comparse prima che il produttore andasse da loro a chiedergli di firmare la liberatoria.
Le immagini sono riprese con l’ausilio di una Steadicam Smoothee e di un adattatore anamorfico per iPhone. Il girato viene poi rivoluzionato dal lavoro di post-produzione, apice dell’innovazione bakeriana: basta un’app di soli $8, Filmic Pro, per controllare messa a fuoco, temperatura colore e diaframmi, e attribuire a Tangerine quei colori tipici del cielo di Los Angeles al tramonto. Il titolo del film rimanda proprio al colore di un mandarino e le tonalità arancio pervadono tutto il film, dal rossetto di una delle protagoniste, Alexandra, alle scene girate di notte, rese ancora più scure. Una saturazione direttamente proporzionale all’esuberanza dei colori.
Ma Baker non segue il modello mumblecore tipicamente adottato dai Duplass, poiché non combacia col tipo di storia che voleva raccontare; ha il talento, l’esperienza e il team adatto per creare qualcosa di nuovo. Anche Tangerine arriva ai festival, al Sundance e in Italia al Torino Film Festival, luoghi in cui non viene presentato come un finto documentario o found footage, ma come un lungometraggio standard, poiché l’iPhone stesso non fa parte della narrazione cinematografica. Ecco che arrivano premi ed elogi a livello internazionale.
Da un lato questa rivoluzione digitale si compie grazie alla poetica del regista, dall’altro, ancora una volta, sono le necessità, affrontate con creatività e parsimonia, a dargli vita (Baker ha dichiarato più volte il suo amore per i 35mm e il suo desiderio di girare preferibilmente in pellicola).
È l’umanità, prima della politica, il fattore scatenante delle storie che racconta. Il regista non pretende di saper raccontare soltanto documentandosi o tastando una realtà che gli è nuova, ma diventa il portavoce per eccellenza di quella realtà, non solo ascoltando le testimonianze degli attori emergenti con cui decide di collaborare, ma permettendogli di guidarlo, forse addirittura di insegnargli il modo più sincero per raccontare il loro mondo. I protagonisti della sceneggiatura potrebbero coincidere con i protagonisti di ciò che ne è alla base. Spesso i suggerimenti dati da una situazione particolare, da una scena solo immaginata o da un singolo personaggio precedono la trama, che viene modellata sulle idee. Del resto il cinema indipendente si è sempre fatto carico di rappresentare minoranze come la comunità LGBTQIA offrendone una visione sociale, politica e ideologica alternativa ed è già evidente con il New Queer Cinema degli anni Ottanta/Novanta in prodotti come Paris Is Burning.
Nel caso di Tangerine il regista non aveva in mente nessuna storia prima di incontrare le due attrici protagoniste. Sapeva però con certezza di voler girare un film che terminasse con una scena dentro Donut Time (eatery che ha da poco chiuso i battenti). L’azione delle due protagoniste detta l’andamento delle vicende e il ritmo di regia e montaggio. Paradossalmente il film termina con il luogo che ne rappresenta proprio la nascita, o almeno quella ideale.
Con The Florida Project, poi, ignora un vecchio detto hollywoodiano secondo cui non bisognerebbe mai lavorare con vecchi e bambini. Infatti sono proprio Moonee e i suoi piccoli amici, costantemente inquadrati alla loro altezza e mai dal basso, i re e le regine indiscusse di quel regno appena fuori dal castello di DisneyWorld. Dopo lo scoppio della crisi immobiliare, fra il 2006 e il 2007, e della conseguente recessione americana, i motel sulla Route 192 diventano i rifugi per tutti gli sfollati, pagati alla giornata. Baker si ispira proprio a loro per inscenare la complicità fra Moonee e la giovanissima mamma Halley: il loro legame esplode fra i colori pastello dei gelati mangiati in cortile e dei palazzi che rappresentano la loro nuova casa. Si tasta la stessa disillusione vivace dei film di Harmony Korine, si intravedono dei personaggi alla Andrea Arnold.
La presenza di una stella come Willem Dafoe, nel ruolo del guardiano, facilita l’avanzata nelle sale; la distribuzione è affidata, dopo la tappa al festival di Cannes, a A24 in America e in Italia a Valerio De Paolis e BiM. Ma Dafoe non è l’unico a ricevere candidature e premi, anzi. Oltre all’attrice emergente Bria Vinaite, pescata direttamente da Instagram per il suo primo ruolo, è amatissima la performance di Moonee, Brooklynn Prince, all’epoca sette anni e adesso protagonista di The Turning e regista del corto Colours (Baker la aiuta a dirigerlo dopo averla definita la migliore in assoluto fra le attrici con cui ha collaborato).
Verso la fine delle quasi due ore di film tutto diventa ancora più dinamico. Viene ripreso di nuovo in mano l’iPhone per rincorrere i bambini dentro al parco (senza chiedere alcun permesso per farlo). Cambia il formato, drasticamente, e cambia il mood, più impercettibilmente. La risata di Moonee che fino a quel momento aveva riempito le nostre orecchie si trasforma in pianto: il tragicomico si compie.
Il cinema di Sean Baker riprende la combinazione di commedia e pathos che caratterizza ogni cosa. Il realismo, sia quando ricalca il neorealismo di De Sica o Rossellini, sia in una chiave pop, è comunque il principio a cui rimane fedele, ma è reso accattivante, memorabile, dolce. Che sia questo nuovo universo registico l’eredità del cinema indipendente?