di Paolo Rissicini
NC-218
26.06.2024
Please beware of pickpockets
Ad un anno dall’uscita postuma dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut (1999), esordisce nel lungometraggio un regista britannico: Jonathan Glazer. Come Spike Jonze, Michel Gondry o Mark Romanek viene anche lui dal videoclip, e infatti, nel 1997, filma i Radiohead scatenarsi in Karma Police. Un uomo corre, corre, corre su una strada notturna, tampinato da una macchina (o sarebbe meglio dire dalla camera car) di cui non vediamo mai il guidatore. Nel sedile di dietro c’è Thom Yorke, che canta. Non è suo, lo sguardo sorvegliante; lo è quello della macchina (da presa), dispositivo di assoggettamento e di controllo.
C’è poi un altro sguardo interessante tra i videoclip che Glazer ha filmato da metà degli anni Novanta, ed è quello di Damon Albarn dei Blur in The Universal, del 1995. Un breve remake di A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971), in particolare delle riprese al Korova Milk Bar, in cui Damon/Alex re-istituisce nuove (ricalcate) forme di interrogazione alla mdp e allo spettatore, come quelle della sequenza iniziale del film del 1971. «I’ve picked his pockets, really», ad averlo detto è stato Glazer, e si riferiva proprio a Stanley Kubrick.
Raffreddare il cinema
Quattro film, due cortometraggi, vari spot pubblicitari e, come abbiamo visto, importanti videoclip musicali. Se si riassume brutalmente la carriera di Jonathan Glazer (riassumere è pur sempre un atto di violenza), non si può che ragionare nei termini di una produzione iper-formalista, che si tiene a distanza da qualsiasi moda del tempo per indagare lo spazio. Glazer è un cineasta «transnazionale e globalista» che, come afferma Alberto Libera, trasforma la realtà e i suoi corpi «trasportandoli dai loro ambienti fisici in luoghi quasi astratti e senza peso», ci sembra questo il primo punto di contatto con Kubrick. Come nella filmografia del grande cineasta, Glazer opera sul genere un raffreddamento che ne assorbe la “potenzialità cinematografica”, senza porre, su quello stesso genere, un vero compimento; esso viene quindi trattato come materia da vivisezionare astrattamente, o forse, come scriveva Enrico Ghezzi a proposito di Kubrick, sarebbe più corretto dire in un’ottica «logico-scientifica». Sono dei moduli narrativi e dei nuclei di riferimento ben conosciuti da Kubrick, qui ancor di più filtrati dalla storia del cinema: la satira (Sexy Beast), il mito (Birth, Under The Skin) e l’apologo (La zona d’interesse), ovvero il gangster movie (Sexy Beast), l’horror metafisico (Birth), la fantascienza (Under The Skin) e il cinema della Shoah (La zona d’interesse), che è di fatto un genere cinematografico – con tutte le problematicità che ciò comporta.
Di «raffreddamento» del genere o del materiale di partenza si può parlare, a nostro modo, per il lavoro sulla matrice esistenziale del romanzo di Martin Amis che Glazer ha compiuto in The Zone of Interest (La zona d’interesse, 2023), estrapolandone la struttura narrativa di base, cancellandone la verbosità, intrecciando i suoi personaggi con la biografia del gerarca nazista Rudolf Höss e, in questo modo, progettando una fenomenologia dei comportamenti e della vita quotidiana di chi sta al di qua del muro.
Come si sa, per riuscirci Glazer ha inserito, negli interni e negli esterni dell’abitazione del personaggio di Höss, dieci macchine da presa costantemente in funzione, con una tecnica – è stato detto a più riprese – assimilabile alle registrazioni delle videocamere di sorveglianza, a un Panopticon foucaltiano o, ancora più interessante, alle riprese di un live televisivo in stile reality show. E quindi la grammatica del cinema, quella più classica, è anche qui raffreddata in una messa in scena an-estetica e anestetizzata le cui scelte (di selezione) sono fatte in post-produzione, in montaggio, scavando negli archivi di una performance attoriale inusitata al cinema convenzionale, e, possiamo teoricamente pensare, tutta e solo istantanea. E qui sta il paragone - tutto aggiornato ai modi contemporanei e digitali delle riprese a circuito chiuso - con Kubrick: cioè con la possibile dimensione fenomenologica del cinema.
Cinema/medium
Per Kubrick il cinema è un medium fotografico, rimane ormai celebre l’aneddoto che, durante le riprese di Shining (1980), il regista - che in gioventù era stato fotografo per la rivista «Look» - avrebbe confessato a Jack Nicholson che il cinema è solamente «la fotografia della fotografia della realtà». Il cinema, dalla scelta dei soggetti alla direzione degli attori, è un medium fotografico, gioca sul campo di una continua esposizione alla messa in posa poiché funziona come un collage di istantanee, che siano esse riguardanti il soggetto, il lavoro sul set (che acquista così un valore di performance), o anche il montaggio.
Ma il collage è soprattutto una questione di metodo. Kubrick non riconoscerà mai i suoi due primi lungometraggi: eresia è stata averne scritto addirittura il soggetto. D’altronde, avrà pensato, l’indipendenza è un fattore irrilevante quando non hai la possibilità di esercitare il controllo su qualcosa di esistente. Così è la fotografia, che è icona in quanto somigliante e indice in quanto corrispondenza fisica (punto per punto) dell’oggetto che rappresenta, ed esercita quindi un controllo di percezione autentica sulla materia. E così è il metodo fotografico che Kubrick applica al suo fare cinema, che diviene prelevamento, esposizione e fissazione di dati provenienti dalla realtà.
Da Killer’s Kiss (Il bacio dell'assassino, 1955) in poi, Kubrick si imporrà il collage di materiale preesistente e, oltre a individuare fotograficamente soggetti narrativi altrui (romanzi o novelle da cui trarre una matrice strutturale ed esistenziale), procederà a prelevare e selezionare immagini. Immagini depositate in riviste di architettura e scienza - come i modelli spaziali della NASA per 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) - nei libri di storia dell’arte - la pittura settecentesca che influenza l’estetica di Barry Lyndon (1975) - in album di importanti fotografi - le gemelle di Diane Arbus per Shining - o nei luoghi reali in cui è collocata la diegesi del film: come le fotografie delle periferie delle città vietnamite di Hue e Saigon come riferimenti iper-reali per la ricostruzione dei set, intorno alla fabbrica londinese, dove è stato girato Full Metal Jacket (1987), oppure nel ballo di Alice con il gentiluomo ungherese, chiara sedimentazione fotografica del ballo tra Giulietta e lo spagnolo in Giulietta degli Spiriti (1965) di Federico Fellini.
La selezione da un deposito, da un archivio (fisico), come espressione dell’«ossessione principe» di Kubrick, «il controllo, il dominio sui materiali», diceva ancora Ghezzi. E non è un caso che un progetto da lui tanto inseguito, dopo 2001 e A Clockwork Orange , sarebbe stato un film su Napoleone: con il quale si sarebbe compiutamente posto la questione della «totalità» del controllo (del set, della Storia, e del fare cinema).
Ritorniamo a Glazer, il quale, invece, fa sue teorie del cinema ormai decennali e presenta al grande pubblico (quello dei festival, anch’esso ormai generalista) un concetto di cinema come medium espanso, perché rilocato. I segni del cinema, che una volta erano solo suoi, sono ormai esplosi nella realtà extra filmica – una realtà digitale, certo, ma anche documentaria (la prima sequenza diThe Zone Of Interest, quella del picnic, sembra per davvero un documentario sulla gita in campagna di una famiglia borghese negli anni Quaranta). Nondimeno, il cinema non è mai un medium realistico, neanche per Glazer; forse, al pari di Kubrick, iperrealistico. Questo iperformalismo, come dicevamo, si presenta attraverso quella glacialità spasmodica della messa in posa glazeriana, nella sua geometria compositiva, che è sempre co-protagonista concettuale e narrativa dei film del regista britannico (la prospettiva è spesso perfettamente laterale o frontale, proprio come i punti macchina di Kubrick).
Sarebbe poi da aprire una piccola nota foucaultiana (avendo già citato il Panopticon) e kubrickiana insieme. Nel cinema di Kubrick, vedi A Clockwork Orange , le tecniche, i processi di tecnologia sociale e gli apparecchi tecnologici che la società predispone come protesi atte a sorvegliare e reprimere il corpo (l’individuo come oggetto di percezioni, basti ricordare la «cura» a cui viene sottoposto Alex) sono cinema. Ma cosa farne di questi ragionamenti sulla biopolitica cinematografica quando il cinema, di fatto, non esiste più – perlomeno nella sua forma novecentesca, l’unica che Kubrick conosceva?. Come pensare ai rapporti natura/cultura o corpo/potere, quando il potere si atomizza e si diffonde nel gioco orizzontale della rete, quando la tecnologia si naturalizza e il corpo si fa tecnologico, e quando il cinema, come abbiamo detto, si disperde? Aprendo il ragionamento al (grande) pubblico, Glazer resiste, ri-accogliendo nel cinema tutto ciò che ne è confluito fuori e inaugurando nuovi incontri nella galassia espansa della performance, del sonoro e del visivo: cioè verso i limiti dell’infilmabile. Come fa, per l’appunto, in The Zone of Interest.
Nicole/Scarlett
Infine, Under The Skin (2013): il 2001 di Glazer. L’ouverture iniziale non sarebbe potuta essere più simile, ed è infatti la fondazione, l’origine della vita o dell’apprendimento della vita. Tra Schiele, Bacon e Friedrich (ancora pittura ricalcata, o fotografata), Under The Skin è la storia di un alieno che nella promessa della penetrazione e dell’amplesso libera gli uomini dalla vita, e nella morte sembra far conoscere loro la verità. Questa «donna», che trascorre la prima metà del film guidando un furgone e inseguendo uomini che prima seduce per poi liquefare o annegare in un mare nero senza spazio né tempo, è stata interpretata come un ibrido tra Bowman e HAL, una spettattrice itinerante il cui sistema di sorveglianza meccanizzato (il suo sguardo sul mondo) è nientemeno che in accordo con il sistema formale del film stesso – il sistema di riprese delle sequenze girate sul van è lo stesso di The Zone of Interest , con una macchina da presa installata come fosse stata una videocamera di sorveglianza.
Eppure, nonostante sia oltremodo corretto mettere a confronto 2001 e Under The Skin (e la causa principe è riscontrabile, ad esempio, nell’evidente riferimento al monolito kubrickiano) , la domanda da porsi sull’identità dell’alieno dalle fattezze di Scarlett Johansson non si esaurisce con 2001. A interessarci è invece la prima immagine dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut. Una donna, di spalle, fa scivolare a terra un vestito nero. Ora è nuda, il corpo incastonato tra due colonnine si staglia di fronte a un grande armadio a specchio, leggermente aperto, che riflette il tendaggio rosso della finestra . È un’immagine che dura il tempo di un click fotografico, o di un battito di ciglia. Alice (Nicole Kidman) campeggia di fronte all’armadio; non è ripresa frontalmente, ma l’inquadratura è leggermente decentrata, in modo da mettere esplicitamente in relazione la figura della donna e la figura dell’armadio. È una relazione fondamentale per tutto il cinema di Kubrick, perché ne è l’evoluzione simbolica. A proporre una lettura più che affascinante è stato Michel Chion: Alice potrebbe essere essa stessa il monolito, quello di 2001, che ritorna spesso nella filmografia kubrickiana post-1968. È solo un’ipotesi la sua, ma Flavio De Bernardinis nel suo saggio L’immagine secondo Kubrick la riprende, ampliandola:
È però vero che Kubrick non rinuncia comunque a una forma esplicitamente monolitica, ovvero l’armadio spogliatoio a sinistra. Decentra l’inquadratura per mostrarlo compiutamente [...]. La forma monolitica [...] si realizza, alla lettera, nella figura della porta. La porta dell’armadio spogliatoio, dal quale Alice ha prelevato, e presumibilmente sta per riporre (o viceversa), l’abito nero appena sfilato [...]. Alice, così, è persino la padrona del monolito. Ella è colei che lo ha realizzato nel mondo [...]. Alice è colei che mette finalmente il monolito al suo posto: mette la forma nella figura, la porta. Così, Alice si pone come evoluzione del monolito. L’abito nero che sfila via è il gesto con cui Alice dismette il vecchio monolito di 2001: Odissea nello spazio. Lo ripone. Ella è l’archetipo svestito, nudo, che si fa carne.
Alice - che già dal nome di carrolliana memoria capiamo poter essere da entrambi i “lati dello specchio” - da quel primo battito di ciglia sarà la soglia e allo stesso tempo la custode della psiche e dei movimenti del marito Bill: è la porta, è il monolito, che precede e segue i momenti di passaggio e di superamento del film, e dunque dell’uomo. Ed è anche la carne, ovvero il sesso, che in questo testamento Kubrick inquadra definitivamente come porta dischiusa per l’umanità; ma un sesso femminile, non maschile. Un sesso di chi, come Alice, sa sognare oltre la penetrazione pur rimanendo carne, mantenendo il sesso al di qua del sogno e al di là della realtà fisica. Alice, al contrario di Bill, padroneggia la dimensione sogno/risveglio/sogno, e riesce ad affrontare a viso aperto il sesso, sognandolo e facendolo nel sogno.
Ecco dunque l’ipotesi, tutta da verificare nelle sue implicazioni più volatili: che l’alieno/Scarlett (di Glazer) sia l’Alice/Nicole (di Kubrick). Attraversa porte, ovvero soglie, tra il mondo reale e il mondo del sogno, tra la carne e l’annullamento finale di ogni percezione fisica, che avviene, tra l’altro, con lo sprofondamento del sesso maschile. Scarlett è Nicole, scesa sulla terra da quello spogliatoio lontano con il dono di trasferire il sesso nella morte e viceversa, tappa ultima della legge rappresentata dal monolito di 2001, che cadenzava e caratterizzava il cammino della civiltà umana.
di Paolo Rissicini
NC-218
26.06.2024
Please beware of pickpockets
Ad un anno dall’uscita postuma dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut (1999), esordisce nel lungometraggio un regista britannico: Jonathan Glazer. Come Spike Jonze, Michel Gondry o Mark Romanek viene anche lui dal videoclip, e infatti, nel 1997, filma i Radiohead scatenarsi in Karma Police. Un uomo corre, corre, corre su una strada notturna, tampinato da una macchina (o sarebbe meglio dire dalla camera car) di cui non vediamo mai il guidatore. Nel sedile di dietro c’è Thom Yorke, che canta. Non è suo, lo sguardo sorvegliante; lo è quello della macchina (da presa), dispositivo di assoggettamento e di controllo.
C’è poi un altro sguardo interessante tra i videoclip che Glazer ha filmato da metà degli anni Novanta, ed è quello di Damon Albarn dei Blur in The Universal, del 1995. Un breve remake di A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971), in particolare delle riprese al Korova Milk Bar, in cui Damon/Alex re-istituisce nuove (ricalcate) forme di interrogazione alla mdp e allo spettatore, come quelle della sequenza iniziale del film del 1971. «I’ve picked his pockets, really», ad averlo detto è stato Glazer, e si riferiva proprio a Stanley Kubrick.
Raffreddare il cinema
Quattro film, due cortometraggi, vari spot pubblicitari e, come abbiamo visto, importanti videoclip musicali. Se si riassume brutalmente la carriera di Jonathan Glazer (riassumere è pur sempre un atto di violenza), non si può che ragionare nei termini di una produzione iper-formalista, che si tiene a distanza da qualsiasi moda del tempo per indagare lo spazio. Glazer è un cineasta «transnazionale e globalista» che, come afferma Alberto Libera, trasforma la realtà e i suoi corpi «trasportandoli dai loro ambienti fisici in luoghi quasi astratti e senza peso», ci sembra questo il primo punto di contatto con Kubrick. Come nella filmografia del grande cineasta, Glazer opera sul genere un raffreddamento che ne assorbe la “potenzialità cinematografica”, senza porre, su quello stesso genere, un vero compimento; esso viene quindi trattato come materia da vivisezionare astrattamente, o forse, come scriveva Enrico Ghezzi a proposito di Kubrick, sarebbe più corretto dire in un’ottica «logico-scientifica». Sono dei moduli narrativi e dei nuclei di riferimento ben conosciuti da Kubrick, qui ancor di più filtrati dalla storia del cinema: la satira (Sexy Beast), il mito (Birth, Under The Skin) e l’apologo (La zona d’interesse), ovvero il gangster movie (Sexy Beast), l’horror metafisico (Birth), la fantascienza (Under The Skin) e il cinema della Shoah (La zona d’interesse), che è di fatto un genere cinematografico – con tutte le problematicità che ciò comporta.
Di «raffreddamento» del genere o del materiale di partenza si può parlare, a nostro modo, per il lavoro sulla matrice esistenziale del romanzo di Martin Amis che Glazer ha compiuto in The Zone of Interest (La zona d’interesse, 2023), estrapolandone la struttura narrativa di base, cancellandone la verbosità, intrecciando i suoi personaggi con la biografia del gerarca nazista Rudolf Höss e, in questo modo, progettando una fenomenologia dei comportamenti e della vita quotidiana di chi sta al di qua del muro.
Come si sa, per riuscirci Glazer ha inserito, negli interni e negli esterni dell’abitazione del personaggio di Höss, dieci macchine da presa costantemente in funzione, con una tecnica – è stato detto a più riprese – assimilabile alle registrazioni delle videocamere di sorveglianza, a un Panopticon foucaltiano o, ancora più interessante, alle riprese di un live televisivo in stile reality show. E quindi la grammatica del cinema, quella più classica, è anche qui raffreddata in una messa in scena an-estetica e anestetizzata le cui scelte (di selezione) sono fatte in post-produzione, in montaggio, scavando negli archivi di una performance attoriale inusitata al cinema convenzionale, e, possiamo teoricamente pensare, tutta e solo istantanea. E qui sta il paragone - tutto aggiornato ai modi contemporanei e digitali delle riprese a circuito chiuso - con Kubrick: cioè con la possibile dimensione fenomenologica del cinema.
Cinema/medium
Per Kubrick il cinema è un medium fotografico, rimane ormai celebre l’aneddoto che, durante le riprese di Shining (1980), il regista - che in gioventù era stato fotografo per la rivista «Look» - avrebbe confessato a Jack Nicholson che il cinema è solamente «la fotografia della fotografia della realtà». Il cinema, dalla scelta dei soggetti alla direzione degli attori, è un medium fotografico, gioca sul campo di una continua esposizione alla messa in posa poiché funziona come un collage di istantanee, che siano esse riguardanti il soggetto, il lavoro sul set (che acquista così un valore di performance), o anche il montaggio.
Ma il collage è soprattutto una questione di metodo. Kubrick non riconoscerà mai i suoi due primi lungometraggi: eresia è stata averne scritto addirittura il soggetto. D’altronde, avrà pensato, l’indipendenza è un fattore irrilevante quando non hai la possibilità di esercitare il controllo su qualcosa di esistente. Così è la fotografia, che è icona in quanto somigliante e indice in quanto corrispondenza fisica (punto per punto) dell’oggetto che rappresenta, ed esercita quindi un controllo di percezione autentica sulla materia. E così è il metodo fotografico che Kubrick applica al suo fare cinema, che diviene prelevamento, esposizione e fissazione di dati provenienti dalla realtà.
Da Killer’s Kiss (Il bacio dell'assassino, 1955) in poi, Kubrick si imporrà il collage di materiale preesistente e, oltre a individuare fotograficamente soggetti narrativi altrui (romanzi o novelle da cui trarre una matrice strutturale ed esistenziale), procederà a prelevare e selezionare immagini. Immagini depositate in riviste di architettura e scienza - come i modelli spaziali della NASA per 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) - nei libri di storia dell’arte - la pittura settecentesca che influenza l’estetica di Barry Lyndon (1975) - in album di importanti fotografi - le gemelle di Diane Arbus per Shining - o nei luoghi reali in cui è collocata la diegesi del film: come le fotografie delle periferie delle città vietnamite di Hue e Saigon come riferimenti iper-reali per la ricostruzione dei set, intorno alla fabbrica londinese, dove è stato girato Full Metal Jacket (1987), oppure nel ballo di Alice con il gentiluomo ungherese, chiara sedimentazione fotografica del ballo tra Giulietta e lo spagnolo in Giulietta degli Spiriti (1965) di Federico Fellini.
La selezione da un deposito, da un archivio (fisico), come espressione dell’«ossessione principe» di Kubrick, «il controllo, il dominio sui materiali», diceva ancora Ghezzi. E non è un caso che un progetto da lui tanto inseguito, dopo 2001 e A Clockwork Orange , sarebbe stato un film su Napoleone: con il quale si sarebbe compiutamente posto la questione della «totalità» del controllo (del set, della Storia, e del fare cinema).
Ritorniamo a Glazer, il quale, invece, fa sue teorie del cinema ormai decennali e presenta al grande pubblico (quello dei festival, anch’esso ormai generalista) un concetto di cinema come medium espanso, perché rilocato. I segni del cinema, che una volta erano solo suoi, sono ormai esplosi nella realtà extra filmica – una realtà digitale, certo, ma anche documentaria (la prima sequenza diThe Zone Of Interest, quella del picnic, sembra per davvero un documentario sulla gita in campagna di una famiglia borghese negli anni Quaranta). Nondimeno, il cinema non è mai un medium realistico, neanche per Glazer; forse, al pari di Kubrick, iperrealistico. Questo iperformalismo, come dicevamo, si presenta attraverso quella glacialità spasmodica della messa in posa glazeriana, nella sua geometria compositiva, che è sempre co-protagonista concettuale e narrativa dei film del regista britannico (la prospettiva è spesso perfettamente laterale o frontale, proprio come i punti macchina di Kubrick).
Sarebbe poi da aprire una piccola nota foucaultiana (avendo già citato il Panopticon) e kubrickiana insieme. Nel cinema di Kubrick, vedi A Clockwork Orange , le tecniche, i processi di tecnologia sociale e gli apparecchi tecnologici che la società predispone come protesi atte a sorvegliare e reprimere il corpo (l’individuo come oggetto di percezioni, basti ricordare la «cura» a cui viene sottoposto Alex) sono cinema. Ma cosa farne di questi ragionamenti sulla biopolitica cinematografica quando il cinema, di fatto, non esiste più – perlomeno nella sua forma novecentesca, l’unica che Kubrick conosceva?. Come pensare ai rapporti natura/cultura o corpo/potere, quando il potere si atomizza e si diffonde nel gioco orizzontale della rete, quando la tecnologia si naturalizza e il corpo si fa tecnologico, e quando il cinema, come abbiamo detto, si disperde? Aprendo il ragionamento al (grande) pubblico, Glazer resiste, ri-accogliendo nel cinema tutto ciò che ne è confluito fuori e inaugurando nuovi incontri nella galassia espansa della performance, del sonoro e del visivo: cioè verso i limiti dell’infilmabile. Come fa, per l’appunto, in The Zone of Interest.
Nicole/Scarlett
Infine, Under The Skin (2013): il 2001 di Glazer. L’ouverture iniziale non sarebbe potuta essere più simile, ed è infatti la fondazione, l’origine della vita o dell’apprendimento della vita. Tra Schiele, Bacon e Friedrich (ancora pittura ricalcata, o fotografata), Under The Skin è la storia di un alieno che nella promessa della penetrazione e dell’amplesso libera gli uomini dalla vita, e nella morte sembra far conoscere loro la verità. Questa «donna», che trascorre la prima metà del film guidando un furgone e inseguendo uomini che prima seduce per poi liquefare o annegare in un mare nero senza spazio né tempo, è stata interpretata come un ibrido tra Bowman e HAL, una spettattrice itinerante il cui sistema di sorveglianza meccanizzato (il suo sguardo sul mondo) è nientemeno che in accordo con il sistema formale del film stesso – il sistema di riprese delle sequenze girate sul van è lo stesso di The Zone of Interest , con una macchina da presa installata come fosse stata una videocamera di sorveglianza.
Eppure, nonostante sia oltremodo corretto mettere a confronto 2001 e Under The Skin (e la causa principe è riscontrabile, ad esempio, nell’evidente riferimento al monolito kubrickiano) , la domanda da porsi sull’identità dell’alieno dalle fattezze di Scarlett Johansson non si esaurisce con 2001. A interessarci è invece la prima immagine dell’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut. Una donna, di spalle, fa scivolare a terra un vestito nero. Ora è nuda, il corpo incastonato tra due colonnine si staglia di fronte a un grande armadio a specchio, leggermente aperto, che riflette il tendaggio rosso della finestra . È un’immagine che dura il tempo di un click fotografico, o di un battito di ciglia. Alice (Nicole Kidman) campeggia di fronte all’armadio; non è ripresa frontalmente, ma l’inquadratura è leggermente decentrata, in modo da mettere esplicitamente in relazione la figura della donna e la figura dell’armadio. È una relazione fondamentale per tutto il cinema di Kubrick, perché ne è l’evoluzione simbolica. A proporre una lettura più che affascinante è stato Michel Chion: Alice potrebbe essere essa stessa il monolito, quello di 2001, che ritorna spesso nella filmografia kubrickiana post-1968. È solo un’ipotesi la sua, ma Flavio De Bernardinis nel suo saggio L’immagine secondo Kubrick la riprende, ampliandola:
È però vero che Kubrick non rinuncia comunque a una forma esplicitamente monolitica, ovvero l’armadio spogliatoio a sinistra. Decentra l’inquadratura per mostrarlo compiutamente [...]. La forma monolitica [...] si realizza, alla lettera, nella figura della porta. La porta dell’armadio spogliatoio, dal quale Alice ha prelevato, e presumibilmente sta per riporre (o viceversa), l’abito nero appena sfilato [...]. Alice, così, è persino la padrona del monolito. Ella è colei che lo ha realizzato nel mondo [...]. Alice è colei che mette finalmente il monolito al suo posto: mette la forma nella figura, la porta. Così, Alice si pone come evoluzione del monolito. L’abito nero che sfila via è il gesto con cui Alice dismette il vecchio monolito di 2001: Odissea nello spazio. Lo ripone. Ella è l’archetipo svestito, nudo, che si fa carne.
Alice - che già dal nome di carrolliana memoria capiamo poter essere da entrambi i “lati dello specchio” - da quel primo battito di ciglia sarà la soglia e allo stesso tempo la custode della psiche e dei movimenti del marito Bill: è la porta, è il monolito, che precede e segue i momenti di passaggio e di superamento del film, e dunque dell’uomo. Ed è anche la carne, ovvero il sesso, che in questo testamento Kubrick inquadra definitivamente come porta dischiusa per l’umanità; ma un sesso femminile, non maschile. Un sesso di chi, come Alice, sa sognare oltre la penetrazione pur rimanendo carne, mantenendo il sesso al di qua del sogno e al di là della realtà fisica. Alice, al contrario di Bill, padroneggia la dimensione sogno/risveglio/sogno, e riesce ad affrontare a viso aperto il sesso, sognandolo e facendolo nel sogno.
Ecco dunque l’ipotesi, tutta da verificare nelle sue implicazioni più volatili: che l’alieno/Scarlett (di Glazer) sia l’Alice/Nicole (di Kubrick). Attraversa porte, ovvero soglie, tra il mondo reale e il mondo del sogno, tra la carne e l’annullamento finale di ogni percezione fisica, che avviene, tra l’altro, con lo sprofondamento del sesso maschile. Scarlett è Nicole, scesa sulla terra da quello spogliatoio lontano con il dono di trasferire il sesso nella morte e viceversa, tappa ultima della legge rappresentata dal monolito di 2001, che cadenzava e caratterizzava il cammino della civiltà umana.