NC-217
21.06.2024
Come ogni anno, durante il mese di giugno si svolge il Festival di Annecy, il palcoscenico internazionale più importante del cinema d’animazione dove vengono presentate le opere animate più innovative della stagione cinematografica. Oltre ai grandi titoli firmati Walt Disney Pictures e Pixar, il festival accoglie una variopinta selezione di lungometraggi provenienti da ogni parte del mondo. Oggi vi racconteremo le visioni che più ci hanno affascinato dal festival. Inoltre, con questa selezione vogliamo mettere in risalto anche diverse tecniche di animazione; dal disegno a mano e la computer grafica 2D di La plus précieuse des marchandises e The Glassworker, alla computer grafica 3D di Angelo dans la forêt mystérieuse fino alla claymation di Memoir of a Snail e il rotoscopio di The Missing.
Angelo dans la forêt mystérieuse, di Vincent Paronnaud
Dopo aver vinto il premio della Giuria al Festival di Cannes 2007 insieme a Marjane Satrapi, grazie al meraviglioso Persepolis (2007) - lungometraggio semi-autobiografico sulla condizioni delle donne in Medio Oriente che denunciò il fondamentalismo islamico e che suscitò non poche proteste da parte dello stesso governo iraniano - Vincent Paronnaud, collaboratore e co-regista del film, ha vissuto, per un periodo molto lungo, nell’anonimato, preferendo concentrarsi sulla sua attività da fumettista sotto lo pseudonimo di Winshluss. Nel 2009 ha vinto il Fauve d'or al Festival d'Angoulême con l'album a fumetti Pinocchio. Nel 2011 è poi tornato alla regia con Poulet Aux Prunes (2011), storia tragicomica che segna una nuova collaborazione con la Satrapi e la prima regia in live-action. Dopo un gran periodo d’inattività e il flop di critica e pubblico legato al suo horror Hunted (2020), Paronnaud è ritornato alla regia di un film d’animazione. Angelo Dans La Forêt Mystérieuse (2024) è un film che racconta una storia intima, adatta senza dubbi ad un target di spettatori decisamente più fanciulleschi. Ma proprio questo fattore contribuisce alla buona riuscita dell’opera. Paronnaud illustra con molta perizia e con un tocco molto lieve, mai pesante, sia l’innocenza dei bambini nei confronti del mondo e l’inadempienza dei grandi nel confrontarsi con loro e comprendere a pieno la loro visione, sia un percorso di crescita che lo stesso protagonista compie attraverso l’avventura che intraprende. Proprio attraverso i vari scenari che compongono il film, si può notare la principale peculiarità e caratteristica di Angelo Dans La Forêt Mystérieuse. L’opportunità del viaggio da coming-of-age del protagonista offre una varietà di stili d’animazione davvero molto interessante e vario. Proprio questa versatilità nel dispiegare stili diversi a seconda di ciò che si sta raccontando rende il film godibile e divertente, non disdegnando anche un pastiche di linguaggi e generi (l’animazione si intreccia anche al musical) che, naturalmente, strizza l’occhio in modo decisamente prorompente ai modelli di animazione occidentali più famosi. Non c’è solo la storia in formato Disney e il racconto di formazione che richiama la Pixar, ma il gioco che lo stesso Paronnaud intraprende con il fantastico riporta alla mente il gioiello di Brad Bird, The Iron Giant (1999), soprattutto nel design delle creature e nei comportamenti degli abitanti del mondo fantastico. Il linguaggio, nonostante tutto, resta però troppo bambinesco e fa un po’ di difficoltà a penetrare nei cuori di chi è abituato ad una tipologia di animazione più adulta e impegnata, dimostrandosi un prodotto infantile e ristretto ad una pletora ben selezionata di spettatori.
Diplodocus, di Wojtek Wawszczyk
Wojtek Woszczyk, animatore polacco in decisa ascesa, si è caratterizzato, fin dal suo primo lungometraggio George The Hedgehog (2010), come un regista in grado di catturare, tramite storie semplici e un linguaggio che sia comprensibile a grandi e piccini, alcuni dei temi più importanti della nostra epoca e affrontarli nel modo più delicato e divertente possibile. A molti, il suo nome non dirà nulla. Woszczyk è infatti più famoso per le collaborazioni offerte al di fuori dei suoi film. Infatti, ha lavorato insieme ad Alex Proyas sul set del suo famoso I, Robot (2004), film di fantascienza tratto da un celebre romanzo di Isaac Asimov con protagonista Will Smith, diventato presto un cult della fantascienza. L’animatore polacco si è occupato degli effetti speciali del film e delle sue animazioni. Dopo aver esordito alla regia con Jez Jerzy (2011), lungometraggio d’animazione basato su una delle serie di fumetti più popolari della Polonia, dove già mostra un’attenta disamina sociale del proprio Paese attraverso delle forme molto più leggere, spensierate e adatte ad un pubblico infantile, quest’anno, ad Annecy, Woszczyk è ritornato sulle scene internazionali con il suo nuovo film, Diplodocus (2024). Quest’ultimo è basato sull’omonima graphic novel polacca, un prodotto, uscito negli anni ‘80 e pubblicato da Tadeusz Baranowski, che ha influenzato in modo decisivo il lungometraggio. Diplodocus è infatti un film che mantiene intatto lo spirito dell’opera di partenza, a metà tra il romanzo di formazione e l’avventura, dimostrando come sia ancora possibile credere nel potere della fantasia e come anche le storie per i più piccoli possano fungere da monito per i più grandi. Il film è praticamente il soggetto della fantasia del suo stesso autore, chiamato in causa in prima persona, ma soprattutto è un film che illustra ottimamente il processo produttivo che porta alla creazione di un film animato. Appare inevitabile, dunque, pensare che, soprattutto in alcune sequenze, al regista interessi tracciare un collante con le origini, con il passato, rintracciabile facilmente in Winsor McCay e nel suo famigerato Gertie The Dinosaur (1914), ancora oggi ispirazione e modello per chiunque voglia approcciarsi al cinema animato. Per creare un omaggio al passato, Woszczyk combina degli elementi che, naturalmente, si affacciano al presente e all’animazione in 3D, con altri che riprendono la manualità delle origini e si concentrano soprattutto sul disegno come carattere primigenio del film. Diplodocus è dunque un lavoro che si posiziona tra il meta-cinematografico e il meta-fumettistico, in cui il processo di creazione del mondo fantastico permette allo spettatori di calarsi nei panni del protagonista, abbandonandosi al potere della fantasia e inneggiando alla meraviglia del poter tornare bambini e guardare nuovamente tutto con notevole stupore.
Ghost Cat Anzu, di Yoko Kuno e Nobuhiro Yamashita
Presentato lo scorso mese al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des cineasts, Ghost Cat Anzu di Yoko Kuno e Nobuhiro Yamashita continua la sua presentazione internazionale al Festival di Annecy. Al centro di questo fantasioso film c’è Karin, bambina di undici anni che, dopo aver perso tragicamente la madre, viene “abbandonata” anche dal padre e si troverà costretta a vivere con il nonno, un monaco di un villaggio rurale della costa giapponese. Ormai anziano e con qualche difficoltà nel prendersi cura della bambina, il nonno chiederà aiuto ad Anzu, un gatto fantasma che non perde mai l’occasione per fare battute sulle flatulenze e che ha una propensione per il Pachinko. Anche se all’inizio faticheranno a legare, ben presto si troveranno a vivere insieme delle avventure dove incontreranno bizzarri personaggi, trovandosi spesso nei guai per via del carattere sarcastico di Anzu. È proprio la figura carismatica di quest’ultimo e i siparietti comici che lo riguardano ad averci più stupito ad un primo impatto, poiché, ma man mano che il film prosegue, i registi svelano le proprie carte, rivelando il tono più serio dell’opera attraverso l’elaborazione del lutto della giovane protagonista. La perdita di un genitore è uno dei leit-motiv del cinema giapponese d’animazione e Ghost Cat Anzu rappresenta una buona reinterpretazione di questo tema. I riferimenti al cinema dello Studio Ghibli sembrano piuttosto scontati, a partire dall’utilizzo di questi animali dai tratti magici, ma soprattutto nella parte finale dove la rappresentazione dell’aldilà richiama quella de La Città Incantata (2000) di Hayao Miyazaki. Ghost Cat Anzu è un film piacevole e divertente, il cui umorismo non risulta mai stucchevole ed è in grado di emozionare.
La plus précieuse des marchandises, di Michel Hazanavicius
Dopo la premiere di Cannes, La plus précieuse des marchandises di Michel Hazanavicius viene ripresentato al Festival di Annecy. Il progetto, la cui lavorazione è durata quasi sei anni per via dei disegni a mano, rappresenta il primo film d’animazione del cineasta che, oltre a dirigere e a scrivere, si è occupato anche dei disegni dei personaggi. Adattato dall’omonimo romanzo di Jean-Claude Grumberg, la storia sovrappone il futuro di una famiglia ebraica con quella di una solitaria coppia di falegnami. Sul treno per Auschwitz, un padre prende la decisione di avvolgere attorno a delle coperte una delle sue due figlie e gettarla fuori dal treno in corsa con la speranza che qualcuno la trovi. La moglie di un falegname, con l’intento di scovare qualche risorsa gettata dai treni, scorge nella neve la bambina e decide di prendersi cura di lei nonostante l’iniziale riluttanza del marito, che presto inizierà anche lui a provare affetto per la piccola. L’animazione prende ispirazione dai primi film Disney e dai libri d’illustrazione per bambini degli anni ‘30, ed è l’aspetto più convincente di un film che, purtroppo, racconta poco l’Olocausto e la discriminazione di quel periodo. Anche se la storia infatti risulta piuttosto semplice nella sua forma, La plus précieuse des marchandises a volte emoziona e a tratti commuove, soprattutto verso la parte finale caratterizzata da una nota di speranza. La colonna sonora di Alexander Desplat viene utilizzata in maniera smisurata da Hazanavicius, come se il regista volesse accentuare ogni emozione esclusivamente attraverso la musica, un approccio che dopo un po’ risulta più un demerito che una qualità aggiunta.
Memoir of a Snail, di Adam Elliot
Adam Elliot, negli ultimi anni, si è ritagliato un posto molto particolare all’interno del contesto dell’animazione. Il regista australiano è sicuramente uno degli animatori che si è più si contraddistinto dalla massa, sia per la sua tecnica che per il suo racconto. Una passione che risale ai tempi dell’università, quando ha deciso di non seguire il trend mondiale, che per l’appunto si focalizzava in modo molto deciso soprattutto sull’animazione in 3D e sulle forme poligonali e digitali, contrastandone la forza tramite un particolare uso della stop-motion, che lui ha sempre definito come clayography. Quest’ultima consiste nel coadiuvare la stop-motion con miniature d'argilla artigianali, senza l'uso di CGI. Elliot ha sempre preferito mantenersi su un tipo di animazione molto più intima e poco avvezza alla commercializzazione, e proprio questa scelta, paradossalmente, l’ha portato alla ribalta. Il tipo d’animazione di Elliot è unico, e oltre ad essere tecnicamente splendido, riesce a narrare argomenti che svicolano da quelli scelti dall’animazione internazionale. La poetica di Elliot è molto interessante e riesce a presentare una tipologia di humor che tende al grottesco e al parossismo in molte delle sue declinazioni. Dopo aver stupito tutti con il suo primo lungometraggio, dal titolo Mary And Max (2009), in cui fu ispirato direttamente dalla corrispondenza avuta con un suo amico di penna, l’animatore realizzò un altro cortometraggio dal titolo Ernie Biscuit (2015), selezionato per competere proprio al Festival di Annecy e venendo proiettato in anteprima al Sydney Film Festival. Nel 2016 vinse un Australian Film Institute Award come miglior cortometraggio d'animazione. Proprio quest’anno è tornato in competizione ad Annecy, dove ha anche trionfato, vincendo il Cristallo al miglior lungometraggio con il suo nuovo film, dal titolo Memoir Of A Snail (2024). Il film parla di una giovane, Grace Puddle, la cui vita viene segnata da una serie di disgrazie: la giovane si ritrova infatti orfana insieme al fratello gemello Gilbert, in quanto la madre muore nel corso della gravidanza e l’ex padre Percy, paraplegico ed alcolizzato, muore nel sonno. Grace e Gilbert si ritrovano così orfani, e vengono separati dagli assistenti sociali. Grace si rinchiude così nel suo “guscio” di solitudine, almeno fin quando non conosce un’anziana ed eccentrica donna chiamata Pinky. In Memoir Of A Snail, Elliot continua a tener fede ai principi del proprio cinema, riuscendo a rappresentare la poesia all’interno di un mondo in decadenza e arricchendo la sua indagine sull’umanità con una dose mista di tenerezza e dettagli macabri, i quali fanno parte di un ideale poetico e decadente che, grazie anche ad un umorismo grottesco e molto accentuato, riporta alla mente l’universo umano e proletario del grande Sergio Citti. Il film si concentra soprattutto sul rapporto tra vita e morte, illustrato in un modo leggero e nostalgico che sorprende, in quanto in controtendenza netta con il tono scelto per raccontare la vicenda. Elliot sceglie di tenere fede al suo modo di sfruttare la stop-motion, sottolineando l’assurdità del film tramite inquadrature molto particolari (tra cui alcuni piani sequenza in rotazione di rara bellezza), che danno forza e soprattutto si occupano di esprimere, in modo appropriato ed elegante, quello che è un racconto di vita in tutto e per tutto, che offre allo spettatore uno spettro di emozioni davvero ampio e che non manca di fronteggiare l’attualità, ridicolizzando l’arcaicità del culto e le sue derive più bigotte, e mostrando proprio come quest’ultime possano essere portatrici di cecità nei confronti di importanti tematiche sociali. Elliot cavalca, dunque, la normalità all’interno dell’assurdità e rende manifesto il bello delle oscenità, senza però rinunciare ad un pudore e ad una meraviglia che resta intatta fino allo splendido e commovente finale.
Spermageddon, di Tommy Wirkola
Tommy Wirkola è uno dei nomi più particolari, poliedrici e sicuramente efficaci della scuola cinematografica norvegese degli ultimi anni. Rispetto ai suoi coevi del cinema scandinavo, come Niels Arden Oplev - regista dell’ormai famigerato Män Som Hatar Kvinnor (2011) - e Nicolas Winding Refn, i quali sono legati ad atmosfere molto seriose e, soprattutto, ad una stilizzazione che rappresenta la violenza in modo cupo ed elegante, Wirkola si è sempre contraddistinto, fin dal suo esordio, Kill Buljo (2007), per una certa propensione all’ironia, all’esasperazione delle varie situazioni filmiche e, soprattutto, per l’uso di personaggi grotteschi e completamente al di fuori di ogni seriosità. Lo stile dissacrante del regista norvegese sbarca ora nel mondo dell’animazione, grazie al suo Spermageddon (2024), progetto co-diretto con Rasmus Sivertsen - regista di Solan & Ludvig - Månelyst i Flåklypa (2019) - il quale lo ha assistito soprattutto nelle parti animate. Un progetto a dir poco esuberante, un condensato di tutti quelli che sono i tratti distintivi di Wirkola all’interno di un film che si presenta come una versione esplicita, animata e adolescenziale della commedia Everything You Always Wanted to Know About Sex* (But Were Afraid to Ask) di Woody Allen, soprattutto per come affronta un argomento ancora oggi, da molti, considerato tabù, come l’educazione sessuale, la libertà e gli effetti della sessualità sul corpo umano. Il film tocca con perizia e con una notevole dose di massiccio umorismo, surreale e talmente esplicito da risultare più adatto ad un pubblico adulto, difficili temi riguardanti la sfera sessuale. Il tono scelto dal regista è fresco, in quanto il film si configura come un vero e proprio “college movie” scanzonato e grottesco, che fa uso anche di inserti da musical che tendono all’assurdo, soprattutto per quanto riguarda i testi delle canzoni. Wirkola non dimentica il suo passato esagerato e presenta su schermo degli eccessi grafici, tendenti ad un soft-splatter, e un’ironia molto esplicita, in pieno stile Dead Snow (2009), tra dirty talk molto impacciati e personaggi dalle intenzioni estremamente discutibili. Il regista, nonostante tutto, riesce a non esagerare e a non cadere nello stucchevole, stabilendo un buon equilibrio tra eccesso e profondità e, soprattutto, creando un vero e proprio alter ego +18 di Inside Out (2015), celebre film della Pixar il cui impianto strutturale e la cui pulizia delle animazioni restano al servizio di un copione molto grottesco e divertente, che non manca però di porre delle riflessioni serie e intelligenti a servizio dello spettatore.
The Colors Within, di Naoko Yamada
Naoko Yamada, soprattutto nell’ultimo decennio, si è contraddistinta come una delle voci più originali e fresche dell’animazione giapponese. La sua carriera comincia soprattutto come disegnatrice fumettistica e anime, ma il vero step lo compie con la serie "K-On!". Lo show spensierato e musicale viene sommerso di lodi e la carriera della regista prosegue a gonfie vele, fino al definitivo debutto al cinema con A Silent Voice (2016), adattamento del famoso manga di Yoshitoki Ōima. Fin da questo primo film, acclamato e valutato positivamente dalla maggior parte degli addetti ai lavori, Yamada si contraddistingue per uno stile diverso rispetto a quello dei suoi connazionali. Il modo di concepire l’animazione è più emotivo, segnato soprattutto da una grande delicatezza e da un tocco ed una visione molto sensibili nell’affrontare tematiche serie e intelligenti, quali il bullismo tra gli adolescenti e le menomazioni fisiche, con una spiccata meraviglia e un’attitudine che non si limita solamente a sfruttare il cinema come dispositivo visivo, ma estendendolo a materia prettamente sensoriale. Una caratteristica che troviamo facilmente anche nel suo meraviglioso ultimo film, The Colors Within (2024), in concorso al Festival internazionale di Annecy. Nel film vi sono delle vere e proprie sortite sinestetiche che chiariscono quanto la musica, e l’arte in generale, abbia un potere unificatore in grado di abbattere qualsiasi barriera costruita dai contesti sociologici. Se inizialmente, nel suo nuovo film, assistiamo ad una chiusura parziale da parte della protagonista Totsuko, capace di percepire lo stato d’animo degli altri attraverso l’uso di vari colori, nel corso della storia assistiamo ad una graduale apertura del main character che coincide con la scoperta di sé stessi tramite il potere unificatore del sonoro. Dunque è proprio la sinestesia tra colori e musica in The Colors Within a diventare metafora ed esplicazione della condizione esistenziale di Totsuko, la quale abbraccia una filosofia di vita che può essere vissuta solamente tramite l’esistenza contemporanea di più sensi e più suggestioni. Un surplus di input che la Yamada trasmette anche allo spettatore, facendogli vivere sulla propria pelle il percorso della protagonista attraverso trovate dall’altissimo valore estetico, che abbracciano sia l’uso di una palette di colori che ricorda molto un altro celebre animatore esteticamente finissimo quale Masaaki Yuasa, sia tramite sequenze specifiche che intrecciano musica, pittura e cinema, in cui i colori corrispondono a sensazioni delineate e diventano il segmento da percorrere per scoprire un passo ulteriore del carattere introverso dell’adolescente. La Yamada non dimentica, però, di fornire un ottimo contributo anche sotto il profilo del coming-of-age. The Colors Within è un film in cui c’è spazio anche per la scoperta della sessualità, che corrisponde alla scoperta di sé stessi, e in cui, soprattutto, c’è spazio anche per una denuncia molto intelligente e molto attuale, rispetto alla quale la regista esprime il bigottismo relativo ad alcuni aspetti della religione e la “castrazione” dei sentimenti che ne consegue. Nonostante le tematiche forti e decisamente contrastanti, ciò che rimane è la capacità di affrontare discorsi adulti e per nulla concilianti con un’attitudine delicata, tramite intuizioni visive e sensoriali (giocate soprattutto sull’uso dei colori e sugli incastri tra immagine e suono) che esprimono benissimo la ricchezza che rappresenta questo film.
The Glassworker, di Usman Riaz
Nata nel 2015, la Mano Animation Studios è stata la prima compagnia di animazione pakistana dedicata al “disegno a mano” e la grafica computer 2D, e ha presentato la sua prima opera durante il Festival di Annecy. Quest’anno, Usman Riaz, uno dei fondatori dello studio di animazione, è tornato al festival con The Glassworker, un film che ruota attorno a Vincent, giovane ragazzo che lavora come vetraio nella bottega più rinomata della città insieme al padre Thomas. Tutto sembra andare liscio fino a quando il rapporto tra i due verrà sconvolto da diversi eventi; il primo è l'infatuazione di Vincent per Alliz, la figlia di un colonnello dell’esercito, un rapporto che potrebbe avere influenze “negative” sull’apprendimento del giovane, mentre il secondo riguarda l’imminente guerra che sta scoppiando all’interno del Paese, una versione finzionale del Pakistan. Quest’ultimo aspetto risveglierà lo spirito pacifista di Thomas, che si rifiuterà di unirsi all’esercito e abbandonare la propria bottega. Già dalle prime sequenze si possono intravedere le influenze del cinema dello studio ghibli. Ogni immagine è colma di colori accesi che accentuano le varie sfumature emotive dei personaggi, soprattutto nelle bellissime sequenze dove si può vedere Thomas e il figlio soffiare il vetro. Inoltre, è molto interessante notare l’ascendenza tematica nel modo in cui Raisz giustappone da una parte le sotto trame emotive che riguardano Vincent e Alliz, e dall’altra l’oscurità e la distruzione della guerra, richiamando la struttura narrativa di opere come The Wind Rises (2013) e Grave of the Fireflies (1988). Ma a differenza delle opere di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, Raisz non riesce a trovare il giusto equilibrio tra le due linee narrative e l’ultima parte interamente concentrata sul conflitto non convince del tutto. Il che è un vero dispiacere visto l’impatto emotivo che i rapporti tra i personaggi principali riescono a trasmettere. The Glassworker risulta comunque una visione più che piacevole e, vista l’ambizione creativa dietro al progetto, possiamo solo sperare di vedere più lungometraggi d’animazione provenienti dal Pakistan.
The Missing, di Carl Joseph E. Papa
Tramite la tecnica del rotoscopio, un disegnatore è in grado di creare sequenze animate ricalcando, a mano o digitalmente, immagini girate dal vivo. Questa tipologia di animazione è sempre meno diffusa, soprattutto se paragonata alla computer grafica 2D, ma ci sono lo stesso degli autori che hanno cercato di risaltare questa tecnica di animazione. Come ad esempio Richard Linklater, che agli inizi degli anni duemila la adoperò efficacemente in Waking Life (2001) e in A Scanner Darkly (2006), mentre recentemente si possono citare le opere Loving Vincent (2017) e The Peasants (2023) dei registi polacchi DK e Hugh Welchman. Al festival di Annecy sono stati presentati diversi lungometraggi girati con la tecnica del rotoscopio, ma quello che ci ha colpito di più è stato The Missing di Carl Joseph E. Papa. Il film, scelto come candidato per la categoria miglior film internazionale dalle Filippine agli scorsi Academy Awards, narra la storia di Eric, un ragazzo che vive in un sobborgo. La sua vita sembra piuttosto normale, lavora in uno studio di animazione per una compagnia locale insieme al collega, con cui potrebbe nascere un interesse amoroso, e ha un buon rapporto con la madre Rosalinda, ma quando scopre della morte dello zio inizierà a sentire un costante senso di disagio e paranoia. La peculiarità del ragazzo è che oltre a essere ad essere muto, non possiede una bocca e, dopo lo sconvolgente episodio inizierà a rivivere i traumatici ricordi d’infanzia dove veniva ripetutamente rapito da un alieno... ed ogni volta che incontra questa creatura extraterrestre, il giovane perde una parte del proprio corpo. L’uso della tecnica del rotoscopio si addice perfettamente alla storia che Papa vuole raccontare ed utilizza il medium per rappresentare la salute mentale sempre più deteriorata di Eric, mostrando un mondo che rispecchia la realtà frammentata in cui il protagonista vive. Le tematiche principali della negazione dei traumi passati e della ricerca della propria identità risultano ben sviluppate, ma l’impatto emotivo a fine visione risulterà piuttosto smorzato per via della mancanza di una coesione di tono e genere: il film infatti risulta essere un peculiare mix tra melodramma familiare, commedia romantica e horror psicologico, che non funziona pienamente. Nonostante ciò, The Missing ci ha affascinato per la sua originalità e ambiguità di fondo, e ne consigliamo la visione.
The Storm, di Yang Zhigang
Il nome di Yang Zhigang, in arte Busifan, è uno tra i più interessanti del panorama cinematografico d’animazione. L’estro creativo e l’ambizione stilistica mostrata nel suo primo lungometraggio Dahufa (2017), storia che vedeva come protagonista un guerriero che deve proteggere il principe di un villaggio distopico, aveva già fatto presagire di essere davanti ad un cineasta rivoluzionario e volenteroso di abbattere le regole classiche dell’animazione, anche a discapito della narrativa dei film. Infatti, la cura nella creazione di questi mondi “assurdi” e, a tratti, incoerenti, caratterizzati da una sgargiante produzione scenografica, dominano le sue opere. Sempre nel 2017, Busifan presentó ad Annecy Valley of the White Birds (2017), cortometraggio che aveva diretto insieme a Cloud Yang e che, oltre a vincere il premio di miglior cortometraggio al festival, gli fruttò anche una nomination agli Oscar. Quest’anno, il cineasta cinese ritorna ad Annecy con The Storm, il suo secondo lungometraggio che strizza l’occhio al cinema per famiglie con una storia fantasiosa incentrata sul rapporto padre-figlio. Daguzi è un tuttofare che per rimediare qualche soldo in più decide di compiere dei crimini e in breve tempo diventerà un fuorilegge. Un giorno incontra sulle rive di un fiume Mantou, un bambino di 8/9 anni dall’aria spaesata e decide di iniziare a prendersi cura di lui. Tra i due nascerà in poco tempo un forte legame che verrà compromesso solamente quando sulla spiaggia locale apparirà una nave abbandonata dalla sinistra reputazione; le persone che decidono di entrarci spesso “spariscono”, diventando creature particolari una volta che vengono punte da delle meduse. Ed è proprio questo il destino che spetterà a Daguzi, quando inconsciamente prenderà la decisione di inoltrarsi nel relitto. Quello che segue è un’avventura fantasiosa dove il piccolo Mantou cercherà ad ogni costo di trovare un rimedio per Daguzi. Nonostante l’interessante premessa con alla base questo mondo fantasioso e lo strambo rapporto tra i due protagonisti, The Storm fatica a trovare un certo ritmo; la storia diventa a tratti ripetitiva e, nell’ultima parte del film, Busifan perde il controllo della storia cercando di implementare il contesto politico all’interno del film e di introdurre svariate figure che complicano inutilmente la buona riuscita dell’opera. Il punto di forza di The Storm, però, risiede nell’animazione derivata dalla grafica computer 2D e 3D, poiché l’unione di queste tecniche permette al regista di creare un’estetica che richiama i disegni ad acquarello tipici della cultura cinese. Tutto sommato, la visione non delude, ma lascia l’amaro in bocca viste le potenzialità della storia.
NC-217
21.06.2024
Come ogni anno, durante il mese di giugno si svolge il Festival di Annecy, il palcoscenico internazionale più importante del cinema d’animazione dove vengono presentate le opere animate più innovative della stagione cinematografica. Oltre ai grandi titoli firmati Walt Disney Pictures e Pixar, il festival accoglie una variopinta selezione di lungometraggi provenienti da ogni parte del mondo. Oggi vi racconteremo le visioni che più ci hanno affascinato dal festival. Inoltre, con questa selezione vogliamo mettere in risalto anche diverse tecniche di animazione; dal disegno a mano e la computer grafica 2D di La plus précieuse des marchandises e The Glassworker, alla computer grafica 3D di Angelo dans la forêt mystérieuse fino alla claymation di Memoir of a Snail e il rotoscopio di The Missing.
Angelo dans la forêt mystérieuse, di Vincent Paronnaud
Dopo aver vinto il premio della Giuria al Festival di Cannes 2007 insieme a Marjane Satrapi, grazie al meraviglioso Persepolis (2007) - lungometraggio semi-autobiografico sulla condizioni delle donne in Medio Oriente che denunciò il fondamentalismo islamico e che suscitò non poche proteste da parte dello stesso governo iraniano - Vincent Paronnaud, collaboratore e co-regista del film, ha vissuto, per un periodo molto lungo, nell’anonimato, preferendo concentrarsi sulla sua attività da fumettista sotto lo pseudonimo di Winshluss. Nel 2009 ha vinto il Fauve d'or al Festival d'Angoulême con l'album a fumetti Pinocchio. Nel 2011 è poi tornato alla regia con Poulet Aux Prunes (2011), storia tragicomica che segna una nuova collaborazione con la Satrapi e la prima regia in live-action. Dopo un gran periodo d’inattività e il flop di critica e pubblico legato al suo horror Hunted (2020), Paronnaud è ritornato alla regia di un film d’animazione. Angelo Dans La Forêt Mystérieuse (2024) è un film che racconta una storia intima, adatta senza dubbi ad un target di spettatori decisamente più fanciulleschi. Ma proprio questo fattore contribuisce alla buona riuscita dell’opera. Paronnaud illustra con molta perizia e con un tocco molto lieve, mai pesante, sia l’innocenza dei bambini nei confronti del mondo e l’inadempienza dei grandi nel confrontarsi con loro e comprendere a pieno la loro visione, sia un percorso di crescita che lo stesso protagonista compie attraverso l’avventura che intraprende. Proprio attraverso i vari scenari che compongono il film, si può notare la principale peculiarità e caratteristica di Angelo Dans La Forêt Mystérieuse. L’opportunità del viaggio da coming-of-age del protagonista offre una varietà di stili d’animazione davvero molto interessante e vario. Proprio questa versatilità nel dispiegare stili diversi a seconda di ciò che si sta raccontando rende il film godibile e divertente, non disdegnando anche un pastiche di linguaggi e generi (l’animazione si intreccia anche al musical) che, naturalmente, strizza l’occhio in modo decisamente prorompente ai modelli di animazione occidentali più famosi. Non c’è solo la storia in formato Disney e il racconto di formazione che richiama la Pixar, ma il gioco che lo stesso Paronnaud intraprende con il fantastico riporta alla mente il gioiello di Brad Bird, The Iron Giant (1999), soprattutto nel design delle creature e nei comportamenti degli abitanti del mondo fantastico. Il linguaggio, nonostante tutto, resta però troppo bambinesco e fa un po’ di difficoltà a penetrare nei cuori di chi è abituato ad una tipologia di animazione più adulta e impegnata, dimostrandosi un prodotto infantile e ristretto ad una pletora ben selezionata di spettatori.
Diplodocus, di Wojtek Wawszczyk
Wojtek Woszczyk, animatore polacco in decisa ascesa, si è caratterizzato, fin dal suo primo lungometraggio George The Hedgehog (2010), come un regista in grado di catturare, tramite storie semplici e un linguaggio che sia comprensibile a grandi e piccini, alcuni dei temi più importanti della nostra epoca e affrontarli nel modo più delicato e divertente possibile. A molti, il suo nome non dirà nulla. Woszczyk è infatti più famoso per le collaborazioni offerte al di fuori dei suoi film. Infatti, ha lavorato insieme ad Alex Proyas sul set del suo famoso I, Robot (2004), film di fantascienza tratto da un celebre romanzo di Isaac Asimov con protagonista Will Smith, diventato presto un cult della fantascienza. L’animatore polacco si è occupato degli effetti speciali del film e delle sue animazioni. Dopo aver esordito alla regia con Jez Jerzy (2011), lungometraggio d’animazione basato su una delle serie di fumetti più popolari della Polonia, dove già mostra un’attenta disamina sociale del proprio Paese attraverso delle forme molto più leggere, spensierate e adatte ad un pubblico infantile, quest’anno, ad Annecy, Woszczyk è ritornato sulle scene internazionali con il suo nuovo film, Diplodocus (2024). Quest’ultimo è basato sull’omonima graphic novel polacca, un prodotto, uscito negli anni ‘80 e pubblicato da Tadeusz Baranowski, che ha influenzato in modo decisivo il lungometraggio. Diplodocus è infatti un film che mantiene intatto lo spirito dell’opera di partenza, a metà tra il romanzo di formazione e l’avventura, dimostrando come sia ancora possibile credere nel potere della fantasia e come anche le storie per i più piccoli possano fungere da monito per i più grandi. Il film è praticamente il soggetto della fantasia del suo stesso autore, chiamato in causa in prima persona, ma soprattutto è un film che illustra ottimamente il processo produttivo che porta alla creazione di un film animato. Appare inevitabile, dunque, pensare che, soprattutto in alcune sequenze, al regista interessi tracciare un collante con le origini, con il passato, rintracciabile facilmente in Winsor McCay e nel suo famigerato Gertie The Dinosaur (1914), ancora oggi ispirazione e modello per chiunque voglia approcciarsi al cinema animato. Per creare un omaggio al passato, Woszczyk combina degli elementi che, naturalmente, si affacciano al presente e all’animazione in 3D, con altri che riprendono la manualità delle origini e si concentrano soprattutto sul disegno come carattere primigenio del film. Diplodocus è dunque un lavoro che si posiziona tra il meta-cinematografico e il meta-fumettistico, in cui il processo di creazione del mondo fantastico permette allo spettatori di calarsi nei panni del protagonista, abbandonandosi al potere della fantasia e inneggiando alla meraviglia del poter tornare bambini e guardare nuovamente tutto con notevole stupore.
Ghost Cat Anzu, di Yoko Kuno e Nobuhiro Yamashita
Presentato lo scorso mese al Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des cineasts, Ghost Cat Anzu di Yoko Kuno e Nobuhiro Yamashita continua la sua presentazione internazionale al Festival di Annecy. Al centro di questo fantasioso film c’è Karin, bambina di undici anni che, dopo aver perso tragicamente la madre, viene “abbandonata” anche dal padre e si troverà costretta a vivere con il nonno, un monaco di un villaggio rurale della costa giapponese. Ormai anziano e con qualche difficoltà nel prendersi cura della bambina, il nonno chiederà aiuto ad Anzu, un gatto fantasma che non perde mai l’occasione per fare battute sulle flatulenze e che ha una propensione per il Pachinko. Anche se all’inizio faticheranno a legare, ben presto si troveranno a vivere insieme delle avventure dove incontreranno bizzarri personaggi, trovandosi spesso nei guai per via del carattere sarcastico di Anzu. È proprio la figura carismatica di quest’ultimo e i siparietti comici che lo riguardano ad averci più stupito ad un primo impatto, poiché, ma man mano che il film prosegue, i registi svelano le proprie carte, rivelando il tono più serio dell’opera attraverso l’elaborazione del lutto della giovane protagonista. La perdita di un genitore è uno dei leit-motiv del cinema giapponese d’animazione e Ghost Cat Anzu rappresenta una buona reinterpretazione di questo tema. I riferimenti al cinema dello Studio Ghibli sembrano piuttosto scontati, a partire dall’utilizzo di questi animali dai tratti magici, ma soprattutto nella parte finale dove la rappresentazione dell’aldilà richiama quella de La Città Incantata (2000) di Hayao Miyazaki. Ghost Cat Anzu è un film piacevole e divertente, il cui umorismo non risulta mai stucchevole ed è in grado di emozionare.
La plus précieuse des marchandises, di Michel Hazanavicius
Dopo la premiere di Cannes, La plus précieuse des marchandises di Michel Hazanavicius viene ripresentato al Festival di Annecy. Il progetto, la cui lavorazione è durata quasi sei anni per via dei disegni a mano, rappresenta il primo film d’animazione del cineasta che, oltre a dirigere e a scrivere, si è occupato anche dei disegni dei personaggi. Adattato dall’omonimo romanzo di Jean-Claude Grumberg, la storia sovrappone il futuro di una famiglia ebraica con quella di una solitaria coppia di falegnami. Sul treno per Auschwitz, un padre prende la decisione di avvolgere attorno a delle coperte una delle sue due figlie e gettarla fuori dal treno in corsa con la speranza che qualcuno la trovi. La moglie di un falegname, con l’intento di scovare qualche risorsa gettata dai treni, scorge nella neve la bambina e decide di prendersi cura di lei nonostante l’iniziale riluttanza del marito, che presto inizierà anche lui a provare affetto per la piccola. L’animazione prende ispirazione dai primi film Disney e dai libri d’illustrazione per bambini degli anni ‘30, ed è l’aspetto più convincente di un film che, purtroppo, racconta poco l’Olocausto e la discriminazione di quel periodo. Anche se la storia infatti risulta piuttosto semplice nella sua forma, La plus précieuse des marchandises a volte emoziona e a tratti commuove, soprattutto verso la parte finale caratterizzata da una nota di speranza. La colonna sonora di Alexander Desplat viene utilizzata in maniera smisurata da Hazanavicius, come se il regista volesse accentuare ogni emozione esclusivamente attraverso la musica, un approccio che dopo un po’ risulta più un demerito che una qualità aggiunta.
Memoir of a Snail, di Adam Elliot
Adam Elliot, negli ultimi anni, si è ritagliato un posto molto particolare all’interno del contesto dell’animazione. Il regista australiano è sicuramente uno degli animatori che si è più si contraddistinto dalla massa, sia per la sua tecnica che per il suo racconto. Una passione che risale ai tempi dell’università, quando ha deciso di non seguire il trend mondiale, che per l’appunto si focalizzava in modo molto deciso soprattutto sull’animazione in 3D e sulle forme poligonali e digitali, contrastandone la forza tramite un particolare uso della stop-motion, che lui ha sempre definito come clayography. Quest’ultima consiste nel coadiuvare la stop-motion con miniature d'argilla artigianali, senza l'uso di CGI. Elliot ha sempre preferito mantenersi su un tipo di animazione molto più intima e poco avvezza alla commercializzazione, e proprio questa scelta, paradossalmente, l’ha portato alla ribalta. Il tipo d’animazione di Elliot è unico, e oltre ad essere tecnicamente splendido, riesce a narrare argomenti che svicolano da quelli scelti dall’animazione internazionale. La poetica di Elliot è molto interessante e riesce a presentare una tipologia di humor che tende al grottesco e al parossismo in molte delle sue declinazioni. Dopo aver stupito tutti con il suo primo lungometraggio, dal titolo Mary And Max (2009), in cui fu ispirato direttamente dalla corrispondenza avuta con un suo amico di penna, l’animatore realizzò un altro cortometraggio dal titolo Ernie Biscuit (2015), selezionato per competere proprio al Festival di Annecy e venendo proiettato in anteprima al Sydney Film Festival. Nel 2016 vinse un Australian Film Institute Award come miglior cortometraggio d'animazione. Proprio quest’anno è tornato in competizione ad Annecy, dove ha anche trionfato, vincendo il Cristallo al miglior lungometraggio con il suo nuovo film, dal titolo Memoir Of A Snail (2024). Il film parla di una giovane, Grace Puddle, la cui vita viene segnata da una serie di disgrazie: la giovane si ritrova infatti orfana insieme al fratello gemello Gilbert, in quanto la madre muore nel corso della gravidanza e l’ex padre Percy, paraplegico ed alcolizzato, muore nel sonno. Grace e Gilbert si ritrovano così orfani, e vengono separati dagli assistenti sociali. Grace si rinchiude così nel suo “guscio” di solitudine, almeno fin quando non conosce un’anziana ed eccentrica donna chiamata Pinky. In Memoir Of A Snail, Elliot continua a tener fede ai principi del proprio cinema, riuscendo a rappresentare la poesia all’interno di un mondo in decadenza e arricchendo la sua indagine sull’umanità con una dose mista di tenerezza e dettagli macabri, i quali fanno parte di un ideale poetico e decadente che, grazie anche ad un umorismo grottesco e molto accentuato, riporta alla mente l’universo umano e proletario del grande Sergio Citti. Il film si concentra soprattutto sul rapporto tra vita e morte, illustrato in un modo leggero e nostalgico che sorprende, in quanto in controtendenza netta con il tono scelto per raccontare la vicenda. Elliot sceglie di tenere fede al suo modo di sfruttare la stop-motion, sottolineando l’assurdità del film tramite inquadrature molto particolari (tra cui alcuni piani sequenza in rotazione di rara bellezza), che danno forza e soprattutto si occupano di esprimere, in modo appropriato ed elegante, quello che è un racconto di vita in tutto e per tutto, che offre allo spettatore uno spettro di emozioni davvero ampio e che non manca di fronteggiare l’attualità, ridicolizzando l’arcaicità del culto e le sue derive più bigotte, e mostrando proprio come quest’ultime possano essere portatrici di cecità nei confronti di importanti tematiche sociali. Elliot cavalca, dunque, la normalità all’interno dell’assurdità e rende manifesto il bello delle oscenità, senza però rinunciare ad un pudore e ad una meraviglia che resta intatta fino allo splendido e commovente finale.
Spermageddon, di Tommy Wirkola
Tommy Wirkola è uno dei nomi più particolari, poliedrici e sicuramente efficaci della scuola cinematografica norvegese degli ultimi anni. Rispetto ai suoi coevi del cinema scandinavo, come Niels Arden Oplev - regista dell’ormai famigerato Män Som Hatar Kvinnor (2011) - e Nicolas Winding Refn, i quali sono legati ad atmosfere molto seriose e, soprattutto, ad una stilizzazione che rappresenta la violenza in modo cupo ed elegante, Wirkola si è sempre contraddistinto, fin dal suo esordio, Kill Buljo (2007), per una certa propensione all’ironia, all’esasperazione delle varie situazioni filmiche e, soprattutto, per l’uso di personaggi grotteschi e completamente al di fuori di ogni seriosità. Lo stile dissacrante del regista norvegese sbarca ora nel mondo dell’animazione, grazie al suo Spermageddon (2024), progetto co-diretto con Rasmus Sivertsen - regista di Solan & Ludvig - Månelyst i Flåklypa (2019) - il quale lo ha assistito soprattutto nelle parti animate. Un progetto a dir poco esuberante, un condensato di tutti quelli che sono i tratti distintivi di Wirkola all’interno di un film che si presenta come una versione esplicita, animata e adolescenziale della commedia Everything You Always Wanted to Know About Sex* (But Were Afraid to Ask) di Woody Allen, soprattutto per come affronta un argomento ancora oggi, da molti, considerato tabù, come l’educazione sessuale, la libertà e gli effetti della sessualità sul corpo umano. Il film tocca con perizia e con una notevole dose di massiccio umorismo, surreale e talmente esplicito da risultare più adatto ad un pubblico adulto, difficili temi riguardanti la sfera sessuale. Il tono scelto dal regista è fresco, in quanto il film si configura come un vero e proprio “college movie” scanzonato e grottesco, che fa uso anche di inserti da musical che tendono all’assurdo, soprattutto per quanto riguarda i testi delle canzoni. Wirkola non dimentica il suo passato esagerato e presenta su schermo degli eccessi grafici, tendenti ad un soft-splatter, e un’ironia molto esplicita, in pieno stile Dead Snow (2009), tra dirty talk molto impacciati e personaggi dalle intenzioni estremamente discutibili. Il regista, nonostante tutto, riesce a non esagerare e a non cadere nello stucchevole, stabilendo un buon equilibrio tra eccesso e profondità e, soprattutto, creando un vero e proprio alter ego +18 di Inside Out (2015), celebre film della Pixar il cui impianto strutturale e la cui pulizia delle animazioni restano al servizio di un copione molto grottesco e divertente, che non manca però di porre delle riflessioni serie e intelligenti a servizio dello spettatore.
The Colors Within, di Naoko Yamada
Naoko Yamada, soprattutto nell’ultimo decennio, si è contraddistinta come una delle voci più originali e fresche dell’animazione giapponese. La sua carriera comincia soprattutto come disegnatrice fumettistica e anime, ma il vero step lo compie con la serie "K-On!". Lo show spensierato e musicale viene sommerso di lodi e la carriera della regista prosegue a gonfie vele, fino al definitivo debutto al cinema con A Silent Voice (2016), adattamento del famoso manga di Yoshitoki Ōima. Fin da questo primo film, acclamato e valutato positivamente dalla maggior parte degli addetti ai lavori, Yamada si contraddistingue per uno stile diverso rispetto a quello dei suoi connazionali. Il modo di concepire l’animazione è più emotivo, segnato soprattutto da una grande delicatezza e da un tocco ed una visione molto sensibili nell’affrontare tematiche serie e intelligenti, quali il bullismo tra gli adolescenti e le menomazioni fisiche, con una spiccata meraviglia e un’attitudine che non si limita solamente a sfruttare il cinema come dispositivo visivo, ma estendendolo a materia prettamente sensoriale. Una caratteristica che troviamo facilmente anche nel suo meraviglioso ultimo film, The Colors Within (2024), in concorso al Festival internazionale di Annecy. Nel film vi sono delle vere e proprie sortite sinestetiche che chiariscono quanto la musica, e l’arte in generale, abbia un potere unificatore in grado di abbattere qualsiasi barriera costruita dai contesti sociologici. Se inizialmente, nel suo nuovo film, assistiamo ad una chiusura parziale da parte della protagonista Totsuko, capace di percepire lo stato d’animo degli altri attraverso l’uso di vari colori, nel corso della storia assistiamo ad una graduale apertura del main character che coincide con la scoperta di sé stessi tramite il potere unificatore del sonoro. Dunque è proprio la sinestesia tra colori e musica in The Colors Within a diventare metafora ed esplicazione della condizione esistenziale di Totsuko, la quale abbraccia una filosofia di vita che può essere vissuta solamente tramite l’esistenza contemporanea di più sensi e più suggestioni. Un surplus di input che la Yamada trasmette anche allo spettatore, facendogli vivere sulla propria pelle il percorso della protagonista attraverso trovate dall’altissimo valore estetico, che abbracciano sia l’uso di una palette di colori che ricorda molto un altro celebre animatore esteticamente finissimo quale Masaaki Yuasa, sia tramite sequenze specifiche che intrecciano musica, pittura e cinema, in cui i colori corrispondono a sensazioni delineate e diventano il segmento da percorrere per scoprire un passo ulteriore del carattere introverso dell’adolescente. La Yamada non dimentica, però, di fornire un ottimo contributo anche sotto il profilo del coming-of-age. The Colors Within è un film in cui c’è spazio anche per la scoperta della sessualità, che corrisponde alla scoperta di sé stessi, e in cui, soprattutto, c’è spazio anche per una denuncia molto intelligente e molto attuale, rispetto alla quale la regista esprime il bigottismo relativo ad alcuni aspetti della religione e la “castrazione” dei sentimenti che ne consegue. Nonostante le tematiche forti e decisamente contrastanti, ciò che rimane è la capacità di affrontare discorsi adulti e per nulla concilianti con un’attitudine delicata, tramite intuizioni visive e sensoriali (giocate soprattutto sull’uso dei colori e sugli incastri tra immagine e suono) che esprimono benissimo la ricchezza che rappresenta questo film.
The Glassworker, di Usman Riaz
Nata nel 2015, la Mano Animation Studios è stata la prima compagnia di animazione pakistana dedicata al “disegno a mano” e la grafica computer 2D, e ha presentato la sua prima opera durante il Festival di Annecy. Quest’anno, Usman Riaz, uno dei fondatori dello studio di animazione, è tornato al festival con The Glassworker, un film che ruota attorno a Vincent, giovane ragazzo che lavora come vetraio nella bottega più rinomata della città insieme al padre Thomas. Tutto sembra andare liscio fino a quando il rapporto tra i due verrà sconvolto da diversi eventi; il primo è l'infatuazione di Vincent per Alliz, la figlia di un colonnello dell’esercito, un rapporto che potrebbe avere influenze “negative” sull’apprendimento del giovane, mentre il secondo riguarda l’imminente guerra che sta scoppiando all’interno del Paese, una versione finzionale del Pakistan. Quest’ultimo aspetto risveglierà lo spirito pacifista di Thomas, che si rifiuterà di unirsi all’esercito e abbandonare la propria bottega. Già dalle prime sequenze si possono intravedere le influenze del cinema dello studio ghibli. Ogni immagine è colma di colori accesi che accentuano le varie sfumature emotive dei personaggi, soprattutto nelle bellissime sequenze dove si può vedere Thomas e il figlio soffiare il vetro. Inoltre, è molto interessante notare l’ascendenza tematica nel modo in cui Raisz giustappone da una parte le sotto trame emotive che riguardano Vincent e Alliz, e dall’altra l’oscurità e la distruzione della guerra, richiamando la struttura narrativa di opere come The Wind Rises (2013) e Grave of the Fireflies (1988). Ma a differenza delle opere di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, Raisz non riesce a trovare il giusto equilibrio tra le due linee narrative e l’ultima parte interamente concentrata sul conflitto non convince del tutto. Il che è un vero dispiacere visto l’impatto emotivo che i rapporti tra i personaggi principali riescono a trasmettere. The Glassworker risulta comunque una visione più che piacevole e, vista l’ambizione creativa dietro al progetto, possiamo solo sperare di vedere più lungometraggi d’animazione provenienti dal Pakistan.
The Missing, di Carl Joseph E. Papa
Tramite la tecnica del rotoscopio, un disegnatore è in grado di creare sequenze animate ricalcando, a mano o digitalmente, immagini girate dal vivo. Questa tipologia di animazione è sempre meno diffusa, soprattutto se paragonata alla computer grafica 2D, ma ci sono lo stesso degli autori che hanno cercato di risaltare questa tecnica di animazione. Come ad esempio Richard Linklater, che agli inizi degli anni duemila la adoperò efficacemente in Waking Life (2001) e in A Scanner Darkly (2006), mentre recentemente si possono citare le opere Loving Vincent (2017) e The Peasants (2023) dei registi polacchi DK e Hugh Welchman. Al festival di Annecy sono stati presentati diversi lungometraggi girati con la tecnica del rotoscopio, ma quello che ci ha colpito di più è stato The Missing di Carl Joseph E. Papa. Il film, scelto come candidato per la categoria miglior film internazionale dalle Filippine agli scorsi Academy Awards, narra la storia di Eric, un ragazzo che vive in un sobborgo. La sua vita sembra piuttosto normale, lavora in uno studio di animazione per una compagnia locale insieme al collega, con cui potrebbe nascere un interesse amoroso, e ha un buon rapporto con la madre Rosalinda, ma quando scopre della morte dello zio inizierà a sentire un costante senso di disagio e paranoia. La peculiarità del ragazzo è che oltre a essere ad essere muto, non possiede una bocca e, dopo lo sconvolgente episodio inizierà a rivivere i traumatici ricordi d’infanzia dove veniva ripetutamente rapito da un alieno... ed ogni volta che incontra questa creatura extraterrestre, il giovane perde una parte del proprio corpo. L’uso della tecnica del rotoscopio si addice perfettamente alla storia che Papa vuole raccontare ed utilizza il medium per rappresentare la salute mentale sempre più deteriorata di Eric, mostrando un mondo che rispecchia la realtà frammentata in cui il protagonista vive. Le tematiche principali della negazione dei traumi passati e della ricerca della propria identità risultano ben sviluppate, ma l’impatto emotivo a fine visione risulterà piuttosto smorzato per via della mancanza di una coesione di tono e genere: il film infatti risulta essere un peculiare mix tra melodramma familiare, commedia romantica e horror psicologico, che non funziona pienamente. Nonostante ciò, The Missing ci ha affascinato per la sua originalità e ambiguità di fondo, e ne consigliamo la visione.
The Storm, di Yang Zhigang
Il nome di Yang Zhigang, in arte Busifan, è uno tra i più interessanti del panorama cinematografico d’animazione. L’estro creativo e l’ambizione stilistica mostrata nel suo primo lungometraggio Dahufa (2017), storia che vedeva come protagonista un guerriero che deve proteggere il principe di un villaggio distopico, aveva già fatto presagire di essere davanti ad un cineasta rivoluzionario e volenteroso di abbattere le regole classiche dell’animazione, anche a discapito della narrativa dei film. Infatti, la cura nella creazione di questi mondi “assurdi” e, a tratti, incoerenti, caratterizzati da una sgargiante produzione scenografica, dominano le sue opere. Sempre nel 2017, Busifan presentó ad Annecy Valley of the White Birds (2017), cortometraggio che aveva diretto insieme a Cloud Yang e che, oltre a vincere il premio di miglior cortometraggio al festival, gli fruttò anche una nomination agli Oscar. Quest’anno, il cineasta cinese ritorna ad Annecy con The Storm, il suo secondo lungometraggio che strizza l’occhio al cinema per famiglie con una storia fantasiosa incentrata sul rapporto padre-figlio. Daguzi è un tuttofare che per rimediare qualche soldo in più decide di compiere dei crimini e in breve tempo diventerà un fuorilegge. Un giorno incontra sulle rive di un fiume Mantou, un bambino di 8/9 anni dall’aria spaesata e decide di iniziare a prendersi cura di lui. Tra i due nascerà in poco tempo un forte legame che verrà compromesso solamente quando sulla spiaggia locale apparirà una nave abbandonata dalla sinistra reputazione; le persone che decidono di entrarci spesso “spariscono”, diventando creature particolari una volta che vengono punte da delle meduse. Ed è proprio questo il destino che spetterà a Daguzi, quando inconsciamente prenderà la decisione di inoltrarsi nel relitto. Quello che segue è un’avventura fantasiosa dove il piccolo Mantou cercherà ad ogni costo di trovare un rimedio per Daguzi. Nonostante l’interessante premessa con alla base questo mondo fantasioso e lo strambo rapporto tra i due protagonisti, The Storm fatica a trovare un certo ritmo; la storia diventa a tratti ripetitiva e, nell’ultima parte del film, Busifan perde il controllo della storia cercando di implementare il contesto politico all’interno del film e di introdurre svariate figure che complicano inutilmente la buona riuscita dell’opera. Il punto di forza di The Storm, però, risiede nell’animazione derivata dalla grafica computer 2D e 3D, poiché l’unione di queste tecniche permette al regista di creare un’estetica che richiama i disegni ad acquarello tipici della cultura cinese. Tutto sommato, la visione non delude, ma lascia l’amaro in bocca viste le potenzialità della storia.