Lanthimos tra sacro e animale,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-60
10.06.2024
Il titolo provvisorio di Kinds of Kindness era And: una congiunzione, passaggio tra un significato e l’altro, come se la filmografia di Yorgos Lanthimos fosse una frase che ancora non si era data tempo per prendere una pausa, un momento di respiro per giocare con i temi e le storie a lui cari, indagare un nuovo modo di mettere in scena i corpi, di raccontare i rapporti di potere tra individui. È un film laboratorio, un cantiere di istanze connotative del regista greco, che torna a lavorare con Efthymis Filippou, lo sceneggiatore degli inizi.
Un and che produttivamente appare come ultima occasione dopo le virgole: girato velocemente e accoratamente, uscito a pochi mesi da Poor Things (2023), ma in realtà solo apparentemente interstiziale, perché è il riaffermarsi violento delle venature meno concilianti del regista, dopo la favola grottesca e ineditamente edificante di Bella Baxter, con la quale però condivide la natura disassemblata. In Poor Things lo era il corpo della protagonista, in Kinds of Kindness lo è la storia, divisa in tre capitoli. Nel primo, uno schiavo non riesce ad affrancarsi dal suo padrone, in potere di decidere quanto deve pesare, quando può fare sesso, quando deve schiantarsi con l'auto, quando avere figli. Nel secondo, un poliziotto si convince che la moglie non sia davvero sua moglie, dopo che questa sopravvive a un naufragio. Nel terzo si racconta di una donna coinvolta in una setta che impiega i suoi adepti per cercare chi è in grado di risorgere i morti.
Protagonista sottotestuale sempre più ambiguo e dissacrato - dietro il banalismo straniato da greek weirdness che anima dialoghi e set - è il corpo che, inversamente a ciò che accadeva in Poor Things, torna a negarsi, mutilarsi, sventrarsi dall’interno, oggetto di una disputa capitalistica (nel primo episodio), amoroso-narcisistica (nel secondo), spirituale (nel terzo), terreno di una battaglia predatoria per nutrirsi (o per non essere nutrimento altrui) e avere potere.
Sono tre cortometraggi autonomi ma amalgamati e messi in abisso dall'assomigliarsi archetipico dei personaggi interpretati dal cast capitanato da Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Defoe e Margaret Qualley, dall'enigmatico signor RMF che muto come un mcguffin attraversa le vicende, ma soprattutto dal costante sguardo affascinato con cui Lanthimos osserva l'animalità dell'umano.
Se in Poor Things, l'identità compiuta ed emancipata di una donna si affermava sulla disfunzionalità animale, in Kinds of Kindness sangue, morte, lotta sono disperati climax di una commedia, variazioni sul concetto di "lieto fine", regole che irretiscono ma coccolano l'individuo, condizioni a priori attraverso cui concepire l'amore, la fede, il sesso, la società. Dopo la prole brada di Dogtooth (2009) e gli scapoli trasformati in animali di The Lobster (2015), in Kinds of Kindness l'istintualità del corpo riportata alla sua origine bestiale, rievoca l'inquietante dettaglio sulla bocca sporca di Barry Keoghan che divora smodatamente i suoi spaghetti davanti ad una spaventata Nicole Kidman in The Killing of a Sacred Deer (Il sacrificio del cervo sacro, 2017): un'inquadratura iper-zoomata sul naturale e l'organico, su un gesto predatorio aruspice e nascosto, non malvagio, semplicemente istintuale, un dato che permea la relazione.
Quello di Lanthimos è uno sguardo non sadicamente divertito come in Östlund, ma ironicamente ossessivo, rapace, a tratti feticista, con una mdp che sfoca l'immagine per eccesso di vicinanza. In Kinds of Kindness, l'animalità come lotta per il potere nella relazione con l'altro, si sincronizza con la performatività lavorativa, con le dinamiche relazionali, con la fede, chiudendo l'essere umano - paranoico, ossessivo, alla meglio alienato - in una sorta di spiritualità egotica e originaria che sosta tra Pinter, Pasolini, Haneke e la distopia blackmirroriana.
Anche per la nitidezza con cui guarda all'Io contemporaneo, il film non poteva che essere incompiuto. La sensazione è che i tre capitoli del film non siano che tre facce, adiacenti e complementari, di un prisma che di facce ne ha potenzialmente altre mille; una divertita, a tratti perversa declinazione in tre sinossi della stessa angoscia, che si impernia soprattutto sugli interpreti che, come spesso accade in Lanthimos, sono devoti, a totale disposizione di uno sguardo che li veste, muove, agita e denuda come fossero bambole.
La società e il mondo sono incoglibili, sfuggenti, allontanati dagli esterni bruciati della fotografia di Robbie Ryan, sublimati nel capovolgimento animale (in cui i cani sono la civiltà e gli umani sono le bestie), atrofizzata negli intimi, schizoidi pensieri umani. Some of them want to abuse you, some of them want to be abused cantano i titoli di testa e in fondo, le iperboli distruttive, esaltate e suicide di Kinds of Kindness hanno proprio la sembianza di sweet dreams, guerre violente e silenziose compiute nel terreno ludico e potenzialmente infinito del pensiero.
È un film che non vuole assolutamente emanciparsi dall’autorialità e dalla scrittura del suo “padrone”, ma rimane vivido nella sua incompiutezza: a tratti frettoloso, perché urgente, apparentemente complesso, perché sincero, capace, più che di raccontare, di rafforzare un immaginario rischioso, sinistro, non ovvio.
Lanthimos tra sacro e animale,
recensione di Matteo Bonfiglioli
RV-60
10.06.2024
Il titolo provvisorio di Kinds of Kindness era And: una congiunzione, passaggio tra un significato e l’altro, come se la filmografia di Yorgos Lanthimos fosse una frase che ancora non si era data tempo per prendere una pausa, un momento di respiro per giocare con i temi e le storie a lui cari, indagare un nuovo modo di mettere in scena i corpi, di raccontare i rapporti di potere tra individui. È un film laboratorio, un cantiere di istanze connotative del regista greco, che torna a lavorare con Efthymis Filippou, lo sceneggiatore degli inizi.
Un and che produttivamente appare come ultima occasione dopo le virgole: girato velocemente e accoratamente, uscito a pochi mesi da Poor Things (2023), ma in realtà solo apparentemente interstiziale, perché è il riaffermarsi violento delle venature meno concilianti del regista, dopo la favola grottesca e ineditamente edificante di Bella Baxter, con la quale però condivide la natura disassemblata. In Poor Things lo era il corpo della protagonista, in Kinds of Kindness lo è la storia, divisa in tre capitoli. Nel primo, uno schiavo non riesce ad affrancarsi dal suo padrone, in potere di decidere quanto deve pesare, quando può fare sesso, quando deve schiantarsi con l'auto, quando avere figli. Nel secondo, un poliziotto si convince che la moglie non sia davvero sua moglie, dopo che questa sopravvive a un naufragio. Nel terzo si racconta di una donna coinvolta in una setta che impiega i suoi adepti per cercare chi è in grado di risorgere i morti.
Protagonista sottotestuale sempre più ambiguo e dissacrato - dietro il banalismo straniato da greek weirdness che anima dialoghi e set - è il corpo che, inversamente a ciò che accadeva in Poor Things, torna a negarsi, mutilarsi, sventrarsi dall’interno, oggetto di una disputa capitalistica (nel primo episodio), amoroso-narcisistica (nel secondo), spirituale (nel terzo), terreno di una battaglia predatoria per nutrirsi (o per non essere nutrimento altrui) e avere potere.
Sono tre cortometraggi autonomi ma amalgamati e messi in abisso dall'assomigliarsi archetipico dei personaggi interpretati dal cast capitanato da Emma Stone, Jesse Plemons, Willem Defoe e Margaret Qualley, dall'enigmatico signor RMF che muto come un mcguffin attraversa le vicende, ma soprattutto dal costante sguardo affascinato con cui Lanthimos osserva l'animalità dell'umano.
Se in Poor Things, l'identità compiuta ed emancipata di una donna si affermava sulla disfunzionalità animale, in Kinds of Kindness sangue, morte, lotta sono disperati climax di una commedia, variazioni sul concetto di "lieto fine", regole che irretiscono ma coccolano l'individuo, condizioni a priori attraverso cui concepire l'amore, la fede, il sesso, la società. Dopo la prole brada di Dogtooth (2009) e gli scapoli trasformati in animali di The Lobster (2015), in Kinds of Kindness l'istintualità del corpo riportata alla sua origine bestiale, rievoca l'inquietante dettaglio sulla bocca sporca di Barry Keoghan che divora smodatamente i suoi spaghetti davanti ad una spaventata Nicole Kidman in The Killing of a Sacred Deer (Il sacrificio del cervo sacro, 2017): un'inquadratura iper-zoomata sul naturale e l'organico, su un gesto predatorio aruspice e nascosto, non malvagio, semplicemente istintuale, un dato che permea la relazione.
Quello di Lanthimos è uno sguardo non sadicamente divertito come in Östlund, ma ironicamente ossessivo, rapace, a tratti feticista, con una mdp che sfoca l'immagine per eccesso di vicinanza. In Kinds of Kindness, l'animalità come lotta per il potere nella relazione con l'altro, si sincronizza con la performatività lavorativa, con le dinamiche relazionali, con la fede, chiudendo l'essere umano - paranoico, ossessivo, alla meglio alienato - in una sorta di spiritualità egotica e originaria che sosta tra Pinter, Pasolini, Haneke e la distopia blackmirroriana.
Anche per la nitidezza con cui guarda all'Io contemporaneo, il film non poteva che essere incompiuto. La sensazione è che i tre capitoli del film non siano che tre facce, adiacenti e complementari, di un prisma che di facce ne ha potenzialmente altre mille; una divertita, a tratti perversa declinazione in tre sinossi della stessa angoscia, che si impernia soprattutto sugli interpreti che, come spesso accade in Lanthimos, sono devoti, a totale disposizione di uno sguardo che li veste, muove, agita e denuda come fossero bambole.
La società e il mondo sono incoglibili, sfuggenti, allontanati dagli esterni bruciati della fotografia di Robbie Ryan, sublimati nel capovolgimento animale (in cui i cani sono la civiltà e gli umani sono le bestie), atrofizzata negli intimi, schizoidi pensieri umani. Some of them want to abuse you, some of them want to be abused cantano i titoli di testa e in fondo, le iperboli distruttive, esaltate e suicide di Kinds of Kindness hanno proprio la sembianza di sweet dreams, guerre violente e silenziose compiute nel terreno ludico e potenzialmente infinito del pensiero.
È un film che non vuole assolutamente emanciparsi dall’autorialità e dalla scrittura del suo “padrone”, ma rimane vivido nella sua incompiutezza: a tratti frettoloso, perché urgente, apparentemente complesso, perché sincero, capace, più che di raccontare, di rafforzare un immaginario rischioso, sinistro, non ovvio.