INT-71
03.05.2024
Presentato lo scorso settembre all’ultima Mostra del cinema di Venezia in occasione delle Giornate degli autori e selezionato tra i dieci titoli della competizione internazionale dell’Hot Docs Festival di Toronto, Frammenti di un percorso amoroso (2023) è un documentario anomalo e suggestivo che prende forma a partire da un archivio di immagini catturate nell’arco di quasi vent’anni. L’opera prima della parigina Chloé Barreau si muove infatti in un territorio personale, intimo, in cui i frammenti della propria esperienza sentimentale vengono rimaneggiati e rivitalizzati attraverso una lunga serie di interviste, filmati d’epoca e lettere d’amore. Un corpus di materiali personali che si lega alle parole di uomini e donne che, in un certo momento della propria esistenza, hanno amato e frequentato la stessa Chloé.
Questa pratica di auto-narrazione, in cui qualcuno ci ha visto del fastidioso narcisismo, rappresenta in realtà la vera forza del film: l’intimità delle immagini d’archivio, la struggente dolcezza delle lettere più personali, il bisogno ossessivo di dover filmare i propri amanti, il proprio amore... Sono senza dubbio questi gli elementi più toccanti e coinvolgenti del racconto. E se è vero che questi stessi elementi sono rielaborati all’interno di un’impostazione narrativa molto classica (e per certi versi convenzionale), bisogna ammettere che la forza dell’ossessione che ha guidato Chloé nel filmare l’infilmabile (ovvero il sentimento stesso) resiste in una forma pura e splendidamente ingenua che è quella di ogni grande amatore e amante.
Come si fa a capire quando e come iniziare a guardarsi indietro e ripercorrere il proprio percorso? Cioè in che modo ci si rende conto che è arrivato il momento di raccontare la propria storia?
Diciamo che quando si superano i quarant’anni si arriva un po’ alla fase dei primi bilanci. È un momento in cui spesso diventa inevitabile guardarsi indietro, perché all’improvviso la gioventù ti sembra molto lontana. Ho cominciato a scrivere il film diversi anni fa, dopo una separazione terribile. Pensavo che quella storia sarebbe durata per sempre e invece no. Per me è stato un momento di assoluta disperazione in cui ho pensato che non avrei amato mai più. Qualche tempo dopo, in realtà, mi sono sposata. Ma tutto questo non c’è nel film perché volevo che ci fosse una certa distanza storica. È in quel periodo che ho cominciato a scrivere Frammenti di un percorso amoroso, ma non era ancora il momento giusto per metabolizzare tutto... Questa idea comunque ce l’avevo da tantissimo tempo: ho sempre saputo di avere una vera ossessione per l’amore. Avevo molto da raccontare e da molto tempo, ma non era mai il momento giusto, anche a livello produttivo. Sono stata finalista al Solinas, ho vinto dei premi di scrittura in Francia, ho partecipato a delle residenze di scrittura. Il progetto piaceva molto, ma non partiva mai. È stato soprattutto il Me Too a cambiare lo scenario produttivo e a rendere possibile anche un progetto come il mio, che veniva considerato troppo personale, troppo intimo, troppo sentimentale... Tanti modi per non dire “troppo femminile”.
In questa distanza storica, comunque, i materiali d’archivio si sono impreziositi. Oltre che per il contenuto anche per la forma. Soprattutto per la forma. Cioè per motivi tecnologici ed estetici.
Sì, i materiali che avevo accumulato hanno acquistato nel tempo un carattere forte. Quando li guardavo dieci o vent’anni fa non facevano così tanto effetto come adesso. Era tutto ancora troppo vicino. Ma adesso vedere i materiali in 4:3, in video, è un’altra cosa. Oggi poi queste tecnologie stanno tornando alla grande: siamo passati a un paradigma totalmente digitale, ma avvertiamo una perdita di tracce fisiche. Il mondo si è ridotto a un cellulare, gli oggetti sono spariti. Ecco, quando ci accorgiamo di tutto questo, quello è il momento giusto: il momento in cui capiamo cosa abbiamo perso.
Come hai approcciato questi materiali d’archivio sul piano emotivo? Tu negli anni li avevi rivisti? Conoscevi i loro contenuti o è stata per te una sorpresa continua?
No, conoscevo più o meno tutto. O meglio, sapevo cosa avevo a disposizione ma non nel dettaglio. Lavorare su questi materiali è stato anche frustrante, perché facendo un lungometraggio e non una miniserie abbiamo dovuto sacrificare tantissimo materiale. Li ho realizzati all’epoca pensando che non sarebbero interessati a nessuno, però poi mi sono accorta che queste scene banali della vita hanno un valore universale. Sì, facevo fotografia e quindi un pochino sapevo filmare, però il loro valore è più emotivo che estetico.
Sì, anzi mi sembra che la bellezza delle immagini di repertorio sia proprio nella loro amatorialità. È stato Brakhage a notare come nel termine cineamatore ci sia già la parola amore. L’amatorialità di un cineasta rappresenta già un atto d’amore verso il cinema, perché esprime un’urgenza di filmare che trascende la professionalità.
Questa cosa che dici è bellissima. In cineamatore c’è già la parola amore... è vero. Il cinema amatoriale è in un certo senso il più puro. Io filmavo senza alcuna ambizione cinematografica, filmavo per conservare l’attimo, perché era il mio modo di amare. Nel rivedere i materiali ci siamo accorti infatti di una sottotrama, quella di Chloé che diventa regista.
Ma ci sono stati dei materiali troppo personali, troppo intimi, che sono stati esclusi volutamente dal montaggio? Perché i materiali d’archivio non si esprimono più di tanto sulle cose del sesso. C’è un certo pudore, diciamo.
Sì, alcune cose sono state escluse. Soprattutto fotografie di nudi e cose del genere. Non tanti video, in realtà... C’è stata anche qualche discussione col produttore al riguardo.
Forse con una produzione francese sarebbe stato più facile…
Sicuramente. Ma vivo in Italia da 25 anni e il progetto non poteva che svilupparsi qui. Anche se poi la cosa curiosa, in realtà, è che si tratta di un film francese fatto da una produzione italiana. In questo senso devo dire che i produttori sono stati audaci, perché il problema della lingua non se lo sono mai posto. Dentro il film c’è il mio immaginario, del quartiere latino (ogni tanto sembra di stare un po’ in un film di Rohmer). E questo ha rappresentato anche un rischio, perché non volevo che il film scadesse in un certo intellettualismo francese. La parte romana è quindi molto importante per me.
Si è spesso parlato del tuo film in relazione a una sorta di documentazione diaristica, come se si potesse tracciare una linea diretta con i lavori di Jonas Mekas e Anne Charlotte Robinson, cineasti che hanno effettivamente usato la macchina da presa come una penna per appuntare, annotare... e anche come strumento di terapia. Però il tuo caso, a dire il vero, mi sembra diverso.
No, il diario non è una cosa che mi appartiene, come linguaggio. Non ho mai avuto un modo introspettivo di filmare: filmavo l’altro, in un tentativo di magnificarlo, di catturare il momento, di trattenerlo. È sempre stata più una cosa da storico, da archivista. Ovviamente c’è una dimensione terapeutica in questo, ma senza un’intenzione consapevole. Io volevo usare la mia figura semplicemente come pretesto. Mi dava fastidio quando mi dicevano “Ah questo è molto narcisistico”, perché non ho mai voluto fare una cosa su di me. Semplicemente avevo questi materiali, avevo questa storia che mi riguardava, ma ci tenevo a stare in un’assenza, per così dire. Per me che non ho mai fatto analisi fare questo film è stato sicuramente utile per capire qualcosa di me. Ma in realtà spero che la dimensione terapeutica riguardi soprattutto lo spettatore.
C’è una dimensione analitica, ma più che altro in un’accezione saggistica, come una sorta di studio sull’amore in cui la propria esperienza è solo un pretesto. E questo motiva anche il titolo che rimanda a Roland Barthes.
Sì, anche se c’è un limite a questo perché non volevo che fosse un trattato sull’amore. E questa è stata una discussione enorme con i produttori, perché dall’altra parte c’era la volontà di fare esattamente questo. Volevano molti più discorsi generali sull’amore e molti meno discorsi particolari. Erano terrorizzati dall’aspetto personale del film e non è stato facile realizzarlo come lo volevo io. Insomma, più che il lato saggistico, per me era l’aspetto romanzesco a dover emergere. Volevo raccontare una storia e per raccontare una storia bisogna raccontare i particolari. Secondo me quando gli intervistati dicono generalità (ci sono dei momenti così e dicono cose belle) il film rischia di diventare velocemente noioso. Nel dire delle verità sull’amore si scade sempre un po’ nel Bacio Perugina. Invece è proprio grazie a una storia molto specifica che si abbraccia l’universale. È anche per questo che ci ho tenuto a mantenere la struttura cronologica. I produttori volevano mescolare tutto. Per me invece la cronologia era fondamentale: si fa un percorso e ogni personaggio ha il suo momento, non è intercambiabile con gli altri. In questo c’è forse l’aspetto più strutturalista del film. Penso ovviamente a Barthes, ma anche Barthes fa un saggio strano. È il saggio di un letterato, scritto in un modo tutt’altro che filosofico, molto poetico. Insomma, c’è un aspetto romanzesco nel film e anche uno epistolare. Io adoro Le relazioni pericolose, mi sono laureata con quel libro e lo trovo geniale per il modo in cui sfrutta le lettere in un romanzo. In un modo simile, le lettere sono usate nel film per un discorso al presente: una lettera è qualcosa di eterno, quando la leggi è sempre al presente.
Il fatto che quasi tutti i tuoi amanti abbiano prodotto delle lettere mi ha stupito…
In quegli anni, a Parigi, tutti scrivevamo delle lettere. In particolare il V era un ambiente molto letterario. Io scrivevo molto alle persone. Ero particolarmente investita nella scrittura e così innescavo negli altri il fatto di rispondermi. Magari iniziavo io, però poi si trasformava sempre in uno scambio. In più, generalizzando, le donne tendono a scrivere con più facilità dei propri sentimenti. Essendo stata con diverse donne questo scambio diventava quindi particolarmente gratificante. Ma nella mia generazione era comunque un fatto comune. Quello che mi sorprende, infatti, è che questo film abbia avuto un enorme successo tra i ventenni di oggi. Questa cosa ancora non me la spiego.
Nel film ci sono molte persone di cinema: Rebecca Zlotowski, Anna Mouglalis, Marco Giuliani... Mi viene quindi da pensare, sempre in rapporto a un discorso di cine-amatorialità, se ci sia un nesso tra cinema e amore anche in questo senso. Il cinema è insomma uno strumento che ti ha aiutato a connetterti con gli altri.
Sì, ovvio. Io sono nata in una strada dove ci sono cinque cinema d’essai. E a Parigi, nel quartiere latino, si va al cinema due volte a settimana, minimo. Io e i miei amici siamo nati quindi con un certo imprinting. In un contesto del genere le conversazioni sul cinema sono un continuo. C’era una scena a questo proposito che mi dispiace molto di aver sacrificato. Nella prima versione del film c’erano delle scene integralmente ambientate nel passato, tra cui una bellissima, a casa mia, tra sigarette e alcol alle tre di mattina, con gente che parlava di cinema. Rappresentava bene questo flusso, ecco. Poi c’è anche il fatto che l’amore per me è un film, un’esperienza artistica. Come se noi umani avessimo inventato questo modo di raccontarci delle storie per rendere la vita più intensa. C’è quindi una parte di creazione in questo, nel vivere l’amore. E a sua volta il cinema influisce tantissimo sulle nostre certezze, anche quelle amorose. È stato probabilmente il cinema a farmi capire che mi piacevano le donne. Mi ricordo di The Celluloid Closet (1995), un documentario bellissimo sull’omosessualità nel cinema americano. L’ho visto in sala almeno quattro volte, da sola.
Anche nel film c’è un’intervistata che dice di aver visto diverse volte Mulholland Drive, al cinema, trascinandosi dietro il suo ragazzo.
Sì esatto! Un film del genere ha cambiato un paradigma culturale. Per la prima volta un film d’autore ma anche da grande pubblico mostrava qualcosa del genere. Che poi la scena in questione non è una scena di sesso. È una scena d’amore. Non vedi niente, solo un bacio, in primissimo piano. E senti il rumore della bocca. Una scena sconvolgente, che arriva dopo 40 minuti di film, con tutta una tensione erotica tra queste due donne... All’epoca erano tutti eccitatissimi davanti a quella scena. E secondo me, un sacco di donne, tornate a casa dopo il film, hanno ripensato la propria sessualità.
Il sesso e l’ossessione sono alla base di tutto il cinema. Mi viene in mente un altro film italiano di produzione recente che si basa sull’archivio ma che lo organizza in modo molto diverso: Gli ultimi giorni dell’umanità di Ghezzi e Gagliardo. Lì l’ossessione di un padre per la figlia è espressa da vecchi filmini che la vedono crescere.
La mia ossessione era più sull’amore che sul filmare. Non era una cosa consapevole, non era un gesto artistico. Mi hanno detto: “I tuoi amanti sono tutti bellissimi.” La bellezza fisica mi ha sempre colpito, però secondo me c’è uno sguardo che li rende belli. In quello sguardo c’è l’ossessione, nel momento in cui l’altro diventa un oggetto di contemplazione. In senso oggettificante, sì. Un’altra cosa che trovo commovente è quella bellezza di quando hai vent’anni e rivedere quelle stesse persone oggi, dopo i quaranta. Sono sempre bellissime, però vedi il cambiamento fisico. E questa cosa la trovo emozionante.
Oltre a Barthes quali sono state le influenze letterarie principali? Per il film ma anche per la tua formazione amorosa.
Io adoro la poesia. E in particolare un poeta francese che si chiama Pierre Reverdy. C’è una sua frase splendida: “È oggi che io vi amo.” Come se il verbo amare non potesse che essere al presente. Sono una specialista del XVIII secolo, in realtà. Amo molto quei romanzi come Manon Lescaut, Le relazioni pericolose. Marivaux come autore teatrale mi piace tantissimo. Ma ovviamente anche Flaubert, Victor Hugo, Proust. Dei gusti molti classici, in realtà. Da dieci anni a questa parte ho scelto di non leggere nient’altro che i classici. Posso leggere un romanzo contemporaneo solo se ho il sentore che diventerà un classico. Non perdo tempo a leggere cose che non siano fondamentali.
E la letteratura erotica del Novecento? Penso ad alcuni classici come quelli di Miller o di Apollinaire.
Hai letto Violette Leduc? Therese e Isabelle, La bastarda... Io mi ricordo che quando ero piccola, le prime emozioni erotiche, le prime masturbazioni, erano con i libri. O con i fumetti, tipo Manara. A pensarci oggi sembra un po’ assurdo. Ma la scrittura è erotica. Andavo a prendere questo libro che era nella biblioteca dei miei genitori, di Anais Nin, e...
Ho una domanda un po’ banale, ma la voglio fare. Hai una definizione dell’amore? A me ad esempio ha sempre colpito una frase che viene pronunciata ne La notte (1961) di Antonioni: “L’amore è qualcosa che fa il vuoto attorno.”
Mi fa molto ridere la definizione di Lacan: “L’amore è dare qualcosa che non hai a qualcuno che non la vuole”. Ma se devo sceglierne una direi quella di Valmont in Le relazioni pericolose, che è splendida: “L’amore è l’arte di aiutare la natura”. Bellissimo.
INT-71
03.05.2024
Presentato lo scorso settembre all’ultima Mostra del cinema di Venezia in occasione delle Giornate degli autori e selezionato tra i dieci titoli della competizione internazionale dell’Hot Docs Festival di Toronto, Frammenti di un percorso amoroso (2023) è un documentario anomalo e suggestivo che prende forma a partire da un archivio di immagini catturate nell’arco di quasi vent’anni. L’opera prima della parigina Chloé Barreau si muove infatti in un territorio personale, intimo, in cui i frammenti della propria esperienza sentimentale vengono rimaneggiati e rivitalizzati attraverso una lunga serie di interviste, filmati d’epoca e lettere d’amore. Un corpus di materiali personali che si lega alle parole di uomini e donne che, in un certo momento della propria esistenza, hanno amato e frequentato la stessa Chloé.
Questa pratica di auto-narrazione, in cui qualcuno ci ha visto del fastidioso narcisismo, rappresenta in realtà la vera forza del film: l’intimità delle immagini d’archivio, la struggente dolcezza delle lettere più personali, il bisogno ossessivo di dover filmare i propri amanti, il proprio amore... Sono senza dubbio questi gli elementi più toccanti e coinvolgenti del racconto. E se è vero che questi stessi elementi sono rielaborati all’interno di un’impostazione narrativa molto classica (e per certi versi convenzionale), bisogna ammettere che la forza dell’ossessione che ha guidato Chloé nel filmare l’infilmabile (ovvero il sentimento stesso) resiste in una forma pura e splendidamente ingenua che è quella di ogni grande amatore e amante.
Come si fa a capire quando e come iniziare a guardarsi indietro e ripercorrere il proprio percorso? Cioè in che modo ci si rende conto che è arrivato il momento di raccontare la propria storia?
Diciamo che quando si superano i quarant’anni si arriva un po’ alla fase dei primi bilanci. È un momento in cui spesso diventa inevitabile guardarsi indietro, perché all’improvviso la gioventù ti sembra molto lontana. Ho cominciato a scrivere il film diversi anni fa, dopo una separazione terribile. Pensavo che quella storia sarebbe durata per sempre e invece no. Per me è stato un momento di assoluta disperazione in cui ho pensato che non avrei amato mai più. Qualche tempo dopo, in realtà, mi sono sposata. Ma tutto questo non c’è nel film perché volevo che ci fosse una certa distanza storica. È in quel periodo che ho cominciato a scrivere Frammenti di un percorso amoroso, ma non era ancora il momento giusto per metabolizzare tutto... Questa idea comunque ce l’avevo da tantissimo tempo: ho sempre saputo di avere una vera ossessione per l’amore. Avevo molto da raccontare e da molto tempo, ma non era mai il momento giusto, anche a livello produttivo. Sono stata finalista al Solinas, ho vinto dei premi di scrittura in Francia, ho partecipato a delle residenze di scrittura. Il progetto piaceva molto, ma non partiva mai. È stato soprattutto il Me Too a cambiare lo scenario produttivo e a rendere possibile anche un progetto come il mio, che veniva considerato troppo personale, troppo intimo, troppo sentimentale... Tanti modi per non dire “troppo femminile”.
In questa distanza storica, comunque, i materiali d’archivio si sono impreziositi. Oltre che per il contenuto anche per la forma. Soprattutto per la forma. Cioè per motivi tecnologici ed estetici.
Sì, i materiali che avevo accumulato hanno acquistato nel tempo un carattere forte. Quando li guardavo dieci o vent’anni fa non facevano così tanto effetto come adesso. Era tutto ancora troppo vicino. Ma adesso vedere i materiali in 4:3, in video, è un’altra cosa. Oggi poi queste tecnologie stanno tornando alla grande: siamo passati a un paradigma totalmente digitale, ma avvertiamo una perdita di tracce fisiche. Il mondo si è ridotto a un cellulare, gli oggetti sono spariti. Ecco, quando ci accorgiamo di tutto questo, quello è il momento giusto: il momento in cui capiamo cosa abbiamo perso.
Come hai approcciato questi materiali d’archivio sul piano emotivo? Tu negli anni li avevi rivisti? Conoscevi i loro contenuti o è stata per te una sorpresa continua?
No, conoscevo più o meno tutto. O meglio, sapevo cosa avevo a disposizione ma non nel dettaglio. Lavorare su questi materiali è stato anche frustrante, perché facendo un lungometraggio e non una miniserie abbiamo dovuto sacrificare tantissimo materiale. Li ho realizzati all’epoca pensando che non sarebbero interessati a nessuno, però poi mi sono accorta che queste scene banali della vita hanno un valore universale. Sì, facevo fotografia e quindi un pochino sapevo filmare, però il loro valore è più emotivo che estetico.
Sì, anzi mi sembra che la bellezza delle immagini di repertorio sia proprio nella loro amatorialità. È stato Brakhage a notare come nel termine cineamatore ci sia già la parola amore. L’amatorialità di un cineasta rappresenta già un atto d’amore verso il cinema, perché esprime un’urgenza di filmare che trascende la professionalità.
Questa cosa che dici è bellissima. In cineamatore c’è già la parola amore... è vero. Il cinema amatoriale è in un certo senso il più puro. Io filmavo senza alcuna ambizione cinematografica, filmavo per conservare l’attimo, perché era il mio modo di amare. Nel rivedere i materiali ci siamo accorti infatti di una sottotrama, quella di Chloé che diventa regista.
Ma ci sono stati dei materiali troppo personali, troppo intimi, che sono stati esclusi volutamente dal montaggio? Perché i materiali d’archivio non si esprimono più di tanto sulle cose del sesso. C’è un certo pudore, diciamo.
Sì, alcune cose sono state escluse. Soprattutto fotografie di nudi e cose del genere. Non tanti video, in realtà... C’è stata anche qualche discussione col produttore al riguardo.
Forse con una produzione francese sarebbe stato più facile…
Sicuramente. Ma vivo in Italia da 25 anni e il progetto non poteva che svilupparsi qui. Anche se poi la cosa curiosa, in realtà, è che si tratta di un film francese fatto da una produzione italiana. In questo senso devo dire che i produttori sono stati audaci, perché il problema della lingua non se lo sono mai posto. Dentro il film c’è il mio immaginario, del quartiere latino (ogni tanto sembra di stare un po’ in un film di Rohmer). E questo ha rappresentato anche un rischio, perché non volevo che il film scadesse in un certo intellettualismo francese. La parte romana è quindi molto importante per me.
Si è spesso parlato del tuo film in relazione a una sorta di documentazione diaristica, come se si potesse tracciare una linea diretta con i lavori di Jonas Mekas e Anne Charlotte Robinson, cineasti che hanno effettivamente usato la macchina da presa come una penna per appuntare, annotare... e anche come strumento di terapia. Però il tuo caso, a dire il vero, mi sembra diverso.
No, il diario non è una cosa che mi appartiene, come linguaggio. Non ho mai avuto un modo introspettivo di filmare: filmavo l’altro, in un tentativo di magnificarlo, di catturare il momento, di trattenerlo. È sempre stata più una cosa da storico, da archivista. Ovviamente c’è una dimensione terapeutica in questo, ma senza un’intenzione consapevole. Io volevo usare la mia figura semplicemente come pretesto. Mi dava fastidio quando mi dicevano “Ah questo è molto narcisistico”, perché non ho mai voluto fare una cosa su di me. Semplicemente avevo questi materiali, avevo questa storia che mi riguardava, ma ci tenevo a stare in un’assenza, per così dire. Per me che non ho mai fatto analisi fare questo film è stato sicuramente utile per capire qualcosa di me. Ma in realtà spero che la dimensione terapeutica riguardi soprattutto lo spettatore.
C’è una dimensione analitica, ma più che altro in un’accezione saggistica, come una sorta di studio sull’amore in cui la propria esperienza è solo un pretesto. E questo motiva anche il titolo che rimanda a Roland Barthes.
Sì, anche se c’è un limite a questo perché non volevo che fosse un trattato sull’amore. E questa è stata una discussione enorme con i produttori, perché dall’altra parte c’era la volontà di fare esattamente questo. Volevano molti più discorsi generali sull’amore e molti meno discorsi particolari. Erano terrorizzati dall’aspetto personale del film e non è stato facile realizzarlo come lo volevo io. Insomma, più che il lato saggistico, per me era l’aspetto romanzesco a dover emergere. Volevo raccontare una storia e per raccontare una storia bisogna raccontare i particolari. Secondo me quando gli intervistati dicono generalità (ci sono dei momenti così e dicono cose belle) il film rischia di diventare velocemente noioso. Nel dire delle verità sull’amore si scade sempre un po’ nel Bacio Perugina. Invece è proprio grazie a una storia molto specifica che si abbraccia l’universale. È anche per questo che ci ho tenuto a mantenere la struttura cronologica. I produttori volevano mescolare tutto. Per me invece la cronologia era fondamentale: si fa un percorso e ogni personaggio ha il suo momento, non è intercambiabile con gli altri. In questo c’è forse l’aspetto più strutturalista del film. Penso ovviamente a Barthes, ma anche Barthes fa un saggio strano. È il saggio di un letterato, scritto in un modo tutt’altro che filosofico, molto poetico. Insomma, c’è un aspetto romanzesco nel film e anche uno epistolare. Io adoro Le relazioni pericolose, mi sono laureata con quel libro e lo trovo geniale per il modo in cui sfrutta le lettere in un romanzo. In un modo simile, le lettere sono usate nel film per un discorso al presente: una lettera è qualcosa di eterno, quando la leggi è sempre al presente.
Il fatto che quasi tutti i tuoi amanti abbiano prodotto delle lettere mi ha stupito…
In quegli anni, a Parigi, tutti scrivevamo delle lettere. In particolare il V era un ambiente molto letterario. Io scrivevo molto alle persone. Ero particolarmente investita nella scrittura e così innescavo negli altri il fatto di rispondermi. Magari iniziavo io, però poi si trasformava sempre in uno scambio. In più, generalizzando, le donne tendono a scrivere con più facilità dei propri sentimenti. Essendo stata con diverse donne questo scambio diventava quindi particolarmente gratificante. Ma nella mia generazione era comunque un fatto comune. Quello che mi sorprende, infatti, è che questo film abbia avuto un enorme successo tra i ventenni di oggi. Questa cosa ancora non me la spiego.
Nel film ci sono molte persone di cinema: Rebecca Zlotowski, Anna Mouglalis, Marco Giuliani... Mi viene quindi da pensare, sempre in rapporto a un discorso di cine-amatorialità, se ci sia un nesso tra cinema e amore anche in questo senso. Il cinema è insomma uno strumento che ti ha aiutato a connetterti con gli altri.
Sì, ovvio. Io sono nata in una strada dove ci sono cinque cinema d’essai. E a Parigi, nel quartiere latino, si va al cinema due volte a settimana, minimo. Io e i miei amici siamo nati quindi con un certo imprinting. In un contesto del genere le conversazioni sul cinema sono un continuo. C’era una scena a questo proposito che mi dispiace molto di aver sacrificato. Nella prima versione del film c’erano delle scene integralmente ambientate nel passato, tra cui una bellissima, a casa mia, tra sigarette e alcol alle tre di mattina, con gente che parlava di cinema. Rappresentava bene questo flusso, ecco. Poi c’è anche il fatto che l’amore per me è un film, un’esperienza artistica. Come se noi umani avessimo inventato questo modo di raccontarci delle storie per rendere la vita più intensa. C’è quindi una parte di creazione in questo, nel vivere l’amore. E a sua volta il cinema influisce tantissimo sulle nostre certezze, anche quelle amorose. È stato probabilmente il cinema a farmi capire che mi piacevano le donne. Mi ricordo di The Celluloid Closet (1995), un documentario bellissimo sull’omosessualità nel cinema americano. L’ho visto in sala almeno quattro volte, da sola.
Anche nel film c’è un’intervistata che dice di aver visto diverse volte Mulholland Drive, al cinema, trascinandosi dietro il suo ragazzo.
Sì esatto! Un film del genere ha cambiato un paradigma culturale. Per la prima volta un film d’autore ma anche da grande pubblico mostrava qualcosa del genere. Che poi la scena in questione non è una scena di sesso. È una scena d’amore. Non vedi niente, solo un bacio, in primissimo piano. E senti il rumore della bocca. Una scena sconvolgente, che arriva dopo 40 minuti di film, con tutta una tensione erotica tra queste due donne... All’epoca erano tutti eccitatissimi davanti a quella scena. E secondo me, un sacco di donne, tornate a casa dopo il film, hanno ripensato la propria sessualità.
Il sesso e l’ossessione sono alla base di tutto il cinema. Mi viene in mente un altro film italiano di produzione recente che si basa sull’archivio ma che lo organizza in modo molto diverso: Gli ultimi giorni dell’umanità di Ghezzi e Gagliardo. Lì l’ossessione di un padre per la figlia è espressa da vecchi filmini che la vedono crescere.
La mia ossessione era più sull’amore che sul filmare. Non era una cosa consapevole, non era un gesto artistico. Mi hanno detto: “I tuoi amanti sono tutti bellissimi.” La bellezza fisica mi ha sempre colpito, però secondo me c’è uno sguardo che li rende belli. In quello sguardo c’è l’ossessione, nel momento in cui l’altro diventa un oggetto di contemplazione. In senso oggettificante, sì. Un’altra cosa che trovo commovente è quella bellezza di quando hai vent’anni e rivedere quelle stesse persone oggi, dopo i quaranta. Sono sempre bellissime, però vedi il cambiamento fisico. E questa cosa la trovo emozionante.
Oltre a Barthes quali sono state le influenze letterarie principali? Per il film ma anche per la tua formazione amorosa.
Io adoro la poesia. E in particolare un poeta francese che si chiama Pierre Reverdy. C’è una sua frase splendida: “È oggi che io vi amo.” Come se il verbo amare non potesse che essere al presente. Sono una specialista del XVIII secolo, in realtà. Amo molto quei romanzi come Manon Lescaut, Le relazioni pericolose. Marivaux come autore teatrale mi piace tantissimo. Ma ovviamente anche Flaubert, Victor Hugo, Proust. Dei gusti molti classici, in realtà. Da dieci anni a questa parte ho scelto di non leggere nient’altro che i classici. Posso leggere un romanzo contemporaneo solo se ho il sentore che diventerà un classico. Non perdo tempo a leggere cose che non siano fondamentali.
E la letteratura erotica del Novecento? Penso ad alcuni classici come quelli di Miller o di Apollinaire.
Hai letto Violette Leduc? Therese e Isabelle, La bastarda... Io mi ricordo che quando ero piccola, le prime emozioni erotiche, le prime masturbazioni, erano con i libri. O con i fumetti, tipo Manara. A pensarci oggi sembra un po’ assurdo. Ma la scrittura è erotica. Andavo a prendere questo libro che era nella biblioteca dei miei genitori, di Anais Nin, e...
Ho una domanda un po’ banale, ma la voglio fare. Hai una definizione dell’amore? A me ad esempio ha sempre colpito una frase che viene pronunciata ne La notte (1961) di Antonioni: “L’amore è qualcosa che fa il vuoto attorno.”
Mi fa molto ridere la definizione di Lacan: “L’amore è dare qualcosa che non hai a qualcuno che non la vuole”. Ma se devo sceglierne una direi quella di Valmont in Le relazioni pericolose, che è splendida: “L’amore è l’arte di aiutare la natura”. Bellissimo.