Uno strano interludio,
recensione di Alberto de Carolis Villars
RV-55
27.03.2024
Si può realmente “afferrare” il significato di un film come May December? Siamo davvero in grado di comprendere gli impulsi che animano i personaggi di quest’opera bizzarra, anomala e inconsueta? Molto probabilmente no, poichè gli interrogativi che emergono nella nostra mente durante la visione dell’ultimo lungometraggio di Todd Haynes non troveranno mai un’esauriente e definitiva risposta, rimanendo appositamente celati in una zona grigia, tra la luce e l’ombra.
Elizabeth Berry (Natalie Portman) è una celebre attrice in procinto di iniziare le riprese di un nuovo film. Il progetto ruota attorno alla storia di Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore), donna che in passato ha scontato una pena carceraria a causa della relazione, e della successiva gravidanza, con Joe (Charles Melton), un dodicenne di venticinque anni più giovane. Elizabeth riesce a recarsi a Savannah, in Georgia – città nativa della coppia – con lo scopo di osservare Gracie e prepararsi a interpretarla. L’iniziale, fasulla, cordialità tra i personaggi, si trasformerà ben presto in un astio sopito; da una parte Elizabeth svelerà una natura sordida e vampirizzante, dall’altra Gracie diverrà sempre più illeggibile e moralmente ambigua.
Presentata in competizione al Festival di Cannes 2023, la pellicola ha immediatamente spiazzato il pubblico per via della sua natura destabilizzante, involuta e provocatoria. Un film che, attraverso le sue atmosfere dormienti e rarefatte, sembra voler portare all’estremo la sopportazione dello spettatore. Tramite il suo ghigno ambiguo, May December ci sfida senza sosta, mettendo continuamente in discussione le nostre certezze ed evitando abilmente di presentarci una prospettiva chiara e rassicurante. Ogni sequenza viene architettata come una trappola narrativa. Non a caso, appena siamo portati a credere a qualcosa o a propendere per la veridicità di un fatto, questo impulso viene prontamente messo in dubbio da un elemento disorientante.
Un lavoro costruito con incredibile sapienza e controllo, che vede un Haynes impegnato a distorcere meticolosamente tutti gli elementi che compongono la storia, con lo scopo di sviare gli occhi e confondere la mente. Insomma, una delicata operazione che riproduce una realtà dalla natura equivoca e incerta, sottolineata da una macchina da presa che decide, molto spesso, di lasciare i personaggi a metà o totalmente fuori dall’inquadratura. Questo escamotage visivo immette una costante tensione all’interno del racconto, un’angoscia sussurrata, eppure costantemente rimarcata, da un tema musicale riadattato da Marcelo Zarvos e originariamente composto da Michel Legrand per il film Messaggero d’amore (1971) di Joseph Losey. Il brano viene adoperato in maniera magistrale e irrompe improvvisamente sulla scena rendendo paradossalmente minaccioso l’universo in cui si muovono i protagonisti. Ma ad evidenziare ulteriormente la perenne sensazione di straniamento che percorre da cima a fondo May December, ci pensano le tonalità acquerello delle immagini: sfumature che si evolvono dal rosa pallido al grigio, dal beige all’écru, dal violaceo all’indaco, e che hanno il chiaro scopo di sedurre silenziosamente lo spettatore per trasportarlo nelle umide e paludose atmosfere del sud.
Sotto l’apparente immobilità visiva del film si snoda un racconto che, nel costruire i suoi personaggi, sembra guardare alle morbose figure della drammaturgia di Tennessee Williams. Animati da mute ossessioni e traumi irrisolti, i protagonisti si muovono nello spazio dell’archetipo e del simbolo. Come Jo, rimasto il bambino di 24 anni prima, che nella sua fanciullesca disperazione alleva farfalle e proietta su di esse la sua voglia di “spiccare il volo”, o Gracie, così psicoticamente sicura di sé stessa da costruire una realtà che intrappola, come la tela di un ragno o una casa di bambole, chiunque le si avvicini, o ancora Elizabeth, talmente accecata dalla sua brama di assorbire qualsiasi dettaglio da trasformarsi in una creatura gorgonica totalmente priva di scrupoli.
Chi è colpevole? Chi ferisce chi? Impossibile saperlo, poiché l'attento script di Samy Burch fa in modo che nessun personaggio esca giustificato dagli eventi narrati. Perché May December non è solo un’opera che indaga i territori più oscuri dell’identità umana, ma un prodotto che mostra come la vera essenza della realtà sia impossibile da cogliere. Un tragico paradosso – che Todd Haynes decide di esplicitare attraverso una messa in scena pirandelliana e ingegnosamente camp – ribadito fino all’ultimo fotogramma del subdolo e scisso finale.
May December è un’opera che, a fine visione, lascia con noi la sala per continuare a infestare la nostra mente. Tutto merito di un Haynes all’apice del suo talento, di un fenomenale trio di attori protagonisti e di una squisita e impertinente sceneggiatura, che striscia sotto la nostra pelle e ci regala momenti di proibita e superba delizia.
Uno strano interludio,
recensione di Alberto de Carolis Villars
RV-55
27.03.2024
Si può realmente “afferrare” il significato di un film come May December? Siamo davvero in grado di comprendere gli impulsi che animano i personaggi di quest’opera bizzarra, anomala e inconsueta? Molto probabilmente no, poichè gli interrogativi che emergono nella nostra mente durante la visione dell’ultimo lungometraggio di Todd Haynes non troveranno mai un’esauriente e definitiva risposta, rimanendo appositamente celati in una zona grigia, tra la luce e l’ombra.
Elizabeth Berry (Natalie Portman) è una celebre attrice in procinto di iniziare le riprese di un nuovo film. Il progetto ruota attorno alla storia di Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore), donna che in passato ha scontato una pena carceraria a causa della relazione, e della successiva gravidanza, con Joe (Charles Melton), un dodicenne di venticinque anni più giovane. Elizabeth riesce a recarsi a Savannah, in Georgia – città nativa della coppia – con lo scopo di osservare Gracie e prepararsi a interpretarla. L’iniziale, fasulla, cordialità tra i personaggi, si trasformerà ben presto in un astio sopito; da una parte Elizabeth svelerà una natura sordida e vampirizzante, dall’altra Gracie diverrà sempre più illeggibile e moralmente ambigua.
Presentata in competizione al Festival di Cannes 2023, la pellicola ha immediatamente spiazzato il pubblico per via della sua natura destabilizzante, involuta e provocatoria. Un film che, attraverso le sue atmosfere dormienti e rarefatte, sembra voler portare all’estremo la sopportazione dello spettatore. Tramite il suo ghigno ambiguo, May December ci sfida senza sosta, mettendo continuamente in discussione le nostre certezze ed evitando abilmente di presentarci una prospettiva chiara e rassicurante. Ogni sequenza viene architettata come una trappola narrativa. Non a caso, appena siamo portati a credere a qualcosa o a propendere per la veridicità di un fatto, questo impulso viene prontamente messo in dubbio da un elemento disorientante.
Un lavoro costruito con incredibile sapienza e controllo, che vede un Haynes impegnato a distorcere meticolosamente tutti gli elementi che compongono la storia, con lo scopo di sviare gli occhi e confondere la mente. Insomma, una delicata operazione che riproduce una realtà dalla natura equivoca e incerta, sottolineata da una macchina da presa che decide, molto spesso, di lasciare i personaggi a metà o totalmente fuori dall’inquadratura. Questo escamotage visivo immette una costante tensione all’interno del racconto, un’angoscia sussurrata, eppure costantemente rimarcata, da un tema musicale riadattato da Marcelo Zarvos e originariamente composto da Michel Legrand per il film Messaggero d’amore (1971) di Joseph Losey. Il brano viene adoperato in maniera magistrale e irrompe improvvisamente sulla scena rendendo paradossalmente minaccioso l’universo in cui si muovono i protagonisti. Ma ad evidenziare ulteriormente la perenne sensazione di straniamento che percorre da cima a fondo May December, ci pensano le tonalità acquerello delle immagini: sfumature che si evolvono dal rosa pallido al grigio, dal beige all’écru, dal violaceo all’indaco, e che hanno il chiaro scopo di sedurre silenziosamente lo spettatore per trasportarlo nelle umide e paludose atmosfere del sud.
Sotto l’apparente immobilità visiva del film si snoda un racconto che, nel costruire i suoi personaggi, sembra guardare alle morbose figure della drammaturgia di Tennessee Williams. Animati da mute ossessioni e traumi irrisolti, i protagonisti si muovono nello spazio dell’archetipo e del simbolo. Come Jo, rimasto il bambino di 24 anni prima, che nella sua fanciullesca disperazione alleva farfalle e proietta su di esse la sua voglia di “spiccare il volo”, o Gracie, così psicoticamente sicura di sé stessa da costruire una realtà che intrappola, come la tela di un ragno o una casa di bambole, chiunque le si avvicini, o ancora Elizabeth, talmente accecata dalla sua brama di assorbire qualsiasi dettaglio da trasformarsi in una creatura gorgonica totalmente priva di scrupoli.
Chi è colpevole? Chi ferisce chi? Impossibile saperlo, poiché l'attento script di Samy Burch fa in modo che nessun personaggio esca giustificato dagli eventi narrati. Perché May December non è solo un’opera che indaga i territori più oscuri dell’identità umana, ma un prodotto che mostra come la vera essenza della realtà sia impossibile da cogliere. Un tragico paradosso – che Todd Haynes decide di esplicitare attraverso una messa in scena pirandelliana e ingegnosamente camp – ribadito fino all’ultimo fotogramma del subdolo e scisso finale.
May December è un’opera che, a fine visione, lascia con noi la sala per continuare a infestare la nostra mente. Tutto merito di un Haynes all’apice del suo talento, di un fenomenale trio di attori protagonisti e di una squisita e impertinente sceneggiatura, che striscia sotto la nostra pelle e ci regala momenti di proibita e superba delizia.