NC-183
12.01.2024
Il nostro presente è il futuro che immaginavano nel passato. Una frase contorta, che però rende il senso di spaesamento che si può provare oggi nel cercare di districarci tra le tante novità tecnologiche che hanno fatto il loro ingresso nella quotidianità.
Ancora capita di leggere libri o vedere film del passato in cui si immaginava quale sarebbe potuto essere il mondo del nuovo millennio, e ultimamente, sempre più spesso, sta succedendo di riconoscere in quelle anticipazioni qualcosa di simile alla nostra realtà: i grandi schermi onnipresenti di Fahrenheit 451, gli scenari apocalittici di The Day After Tomorrow, la violenza insensata di Arancia Meccanica…distopie divenute una realtà talmente radicata da non venire neanche più considerata sorprendente.
Negli ultimi anni però sono saltate alla ribalta alcune innovazioni che portano ancora in sé un quantitativo tale di rivoluzione da riuscire a suscitare ancora dibattiti e interrogativi etici, e, negli ultimi tempi in particolare, ci si è ritrovati a parlare di intelligenza artificiale, realtà virtuale e metaverso.
Il mondo del cinema, che della nostra quotidianità fa ormai parte, è stato investito da un’ondata di modernità, essendo un’arte che molto si appoggia sulla tecnologia.
Sull’ IA nel cinema si è ampiamente dibattuto, soprattutto a seguito degli scioperi che hanno interessato vari comparti del mondo cinematografico, e che hanno visto la partecipazione di molte star che chiedevano a gran voce garanzie che evitassero l’ingresso a gamba tesa dell’intelligenza artificiale in quegli atti tradizionalmente considerati artistici, come scrittura e recitazione, e quindi strenuamente difesi come appannaggio esclusivo dell’uomo.
Dopo anni di riflessioni si è giunti alla conclusione che sia impossibile definire cosa sia arte e quale sia il suo scopo, ma una cosa è certa: i migliori film, come i migliori quadri, scatti fotografici, statue, sinfonie o canzoni… sono quelle che contengono un pezzo dell’anima di chi le ha realizzate. Privare un’opera di quest’anima per inserirvi un surrogato di coscienza artificiale, farebbe perdere parte della magia a opere che ci regalano emozioni ed esperienze di vita. E forse, anche chi di solito agisce guidato dal valore del denaro, ha visto il limite invalicabile che probabilmente porterebbe alla svalutazione - se non all’implosione - dell’arte stessa. Per questo, fortunatamente, sembra che gli scioperi di quest’anno appena passato abbiano sortito il loro effetto e sempre di più il mondo si stia muovendo per regolamentare e limitare l’azione di questo nuovo, e destabilizzante, fenomeno.
Per quanto riguarda il metaverso, invece, le possibili applicazioni e le traduzioni di questa dimensione in forma d’arte sono ancora talmente embrionali da non suscitare grande preoccupazione, ma anzi sembra che stiano stimolando nuove ricerche e nuove forme di sperimentazione.
La virtual reality è forse l’ambito più interessante da esplorare per le possibili collaborazioni con la cinepresa. In realtà, il mondo del cinema si è già accorto del potenziale della VR, e molte sono le opere che sono state realizzate servendosi di questa tecnologia per gli scopi più disparati.
Ne abbiamo avuto un esempio nello spazio apposito che la Biennale di Venezia dedica ormai da qualche anno all’unione tra cinema e VR, con la sezione Venice Immersive (prima Venice VR Expanded). In questo contesto sono infatti stati proiettati diversi prodotti realizzati sfruttando la virtual reality. La mostra ha deciso di esporre diversi risultati della VR, di cui uno in particolare interessa più strettamente il mondo del cinema: i video 360°.
Ma forse occorre fare un passo indietro e definire bene cosa si intenda per virtual reality, un significato che è contenuto nelle due parole che la identificano ma che spesso diventa troppo vago quando si parla di un argomento così vasto. La VR si occupa di tutto ciò che è mondo virtuale, digitale, e di cui è possibile fare esperienza in modo quasi analogo alla realtà “reale” grazie ad appositi visori che coinvolgono completamente la vista.
Dei cinque sensi che determinano il nostro punto di contatto col mondo, la vista è sicuramente lo strumento di percezione più immediato e su cui facciamo più affidamento. Scopo della virtual reality è appunto quello di “convincere” i nostri occhi di trovarsi, effettivamente, in un mondo veritiero. Per far ciò, chi progetta questa dimensione deve conferirle anche le sue leggi fisiche, una coerenza e, soprattutto, la possibilità per lo “spettatore” di farne esperienza nel modo più diretto possibile, senza l’intermezzo di uno schermo.
Ci sono due declinazioni principali in cui la VR è stata applicata al mondo del cinema.
La prima sono i già citati video 360°. Si tratta di video che vengono fruiti attraverso degli specifici visori che coprono tutto lo spettro visivo, e che sono sensibili ai movimenti dello spettatore che, girandosi e muovendosi, può osservare la scena come se si trovasse all’interno di essa.
Per spiegare meglio, prendiamo ad esempio uno dei corti presentati alla Biennale di Venezia 2021: Angels of Amsterdam, per la regia di Anna Abrahams e Avinash Changa. L’opera permette allo spettatore di assistere alla scena, rappresentata in un caffè di Amsterdam del XVII secolo, come se fosse un avventore del locale, di cui può ammirare anche la ricostruzione storica. Questo tipo di esperienza potrebbe far pensare più a un gioco che a una forma di fruizione di una storia, e gli stessi registi hanno espresso consapevolezza del fatto che spesso le prodezze della tecnologia distraggono lo spettatore dalla storia stessa.
C’è un aspetto, però, per cui questo tipo di esperienza aumenta notevolmente le possibilità del cinema di esprimere al massimo il suo potenziale. Da sempre infatti la magia della Settima Arte sta nella capacità di far dimenticare allo spettatore di trovarsi davanti a uno schermo, cercare di proporre il punto di vista più inclusivo possibile, che faccia percepire all’occhio di osservare quelle scene dal vivo. Un pò come il cinema in 3D, che già ha esplorato questo aspetto.
La virtual reality porta questo concetto alle sue estreme conseguenze, secondo la teoria della “cognizione incarnata”, per cui ogni tipo di cognizione, di esperienza della mente, di pensiero, per quanto astratto possa essere, si basa su esperienze corporee. Con il grado di coinvolgimento richiamato dalla virtual reality, risulta evidente quanto questo tipo di esperienza di visione sia in grado di far immergere lo spettatore nel mondo raccontato, farlo empatizzare con i personaggi e fargli vivere sensazioni che possono essere evocate solo attraverso gli strumenti più convenzionali.
Ovviamente è inevitabile chiedersi se non si corra il rischio di creare realtà virtuali le cui esperienze siano talmente più piacevoli o semplicemente più intense di quelle ordinarie da precludere la partecipazione alla realtà reale. Ma questo è un dubbio atavico che ha sempre accompagnato le novità e che non è mai stato fugato se non dal tempo e dalla convivenza con esse stesse. In passato si credeva addirittura che i libri fossero un male, perché chi si immergeva nella loro lettura era estraniato dalla realtà circostante.
La creatività è però una caratteristica imprescindibile per l’avanzamento delle arti, e qualsiasi nuovo strumento nelle mani dei creativi è prezioso se permette di addentrarsi in nuovi territori finora intoccati. È grazie a registi visionari come l’argentino Eduardo Williams che nuovi scenari vengono esplorati. Il suo ultimo lavoro, El auge de Humano 3, è stato proiettato nella sezione “Internazionale” del Festival di Locarno 2023. In quest’opera cinematografica, il regista aggiunge al già complicato impianto narrativo del film un processo di ripresa e montaggio innovativo e sperimentale. Le riprese sono infatti state girate con una VR camera, un obbiettivo sferico con ripresa a 360°. Una prima scelta innovativa è stata quella di far comparire nel film la camera stessa: nella scena finale si può vedere l’obbiettivo rotolare giù da una collina inseguito dai ragazzi protagonisti delle oniriche vicende. In questo modo si è ovviamente rotto “il velo di maya” della finzione, ma evidentemente lo scopo del regista non era quello di creare una storia verosimile.
Quale fosse effettivamente lo scopo, è difficile ipotizzarlo: il regista stesso ha ammesso di fare cinema per non dover svolgere un noioso lavoro d’ufficio, a differenza dei suoi protagonisti che non riescono mai a fare nulla perché sono sempre impegnati a cercare lavoro o a lavorare. E sicuramente è stata questa libertà a dargli la possibilità di utilizzare un procedimento così sperimentale nella realizzazione del film.
L’utilizzo di una VR camera a 360° comporta aggiustamenti tecnici per cui la soluzione non è già fornita da anni e anni di esperienza. Essendo un procedimento nuovo, deve essere trovata con spirito di inventiva e creatività, al contempo sfruttando le nuove potenzialità offerte da questa metodologia. Ad esempio, la DOP Victoria Pereda, che è stata anche operatrice di camera, ha portato per la maggior parte del tempo la camera sulla testa, potendosi così muovere più liberamente per seguire gli attori e ottenere così immagini che rendessero il più possibile l’idea di osservare la scena da un punto di vista interno al gruppo di amici. Di contro, nuove soluzioni hanno dovuto essere prese per registrare l’audio, perché ovviamente tutto diventava campo di ripresa e quindi i normali boom erano inservibili.
L’intervento della VR nella realizzazione di questo film, che allo spettatore si presenta come una normale proiezione su schermo piatto, non termina qui. Il regista ha infatti spiegato che per trasformare le riprese a 360° nel prodotto finale, che appunto si presenta come un normale video di formato widescreen cinematografico 16:9, ha indossato lui stesso il visore VR e quello che è risultato incorniciato dai bordi dello schermo non è altro che l’immagine di ciò che ha visto muovendosi in questa realtà creata dalle sue stesse riprese. Quello che poi è stato montato è quindi l'esito di una selezione del girato, che ha sicuramente lasciato ancora più potere decisionale al regista. È stata svelata così una nuova possibile applicazione della VR al mondo del cinema, ma anche i pericoli di una deriva più individualistica di quella che è sempre stata un’arte di realizzazione collettiva.
Un altro ambito in cui sono state sperimentate le capacità della VR è il montaggio. È il caso dell’intenso lavoro di compilazione svolto da Davide Rapp nel suo corto intitolato Montegelato, presentato sempre alla selezione ufficiale di Venice VR Expanded 2021. Questo meticoloso lavoro è stato realizzato raccogliendo filmati di ogni genere e di ogni epoca – dvd, blueray, vhs, super 8 – che ritraessero le cascate di Montegelato. Questa località in provincia di Roma ha infatti servito da set per numerosissime produzioni cinematografiche.
Quello di Davide Rapp è il primo film il cui montaggio è stato realizzato con la VR, le cui potenzialità sono state messe all’opera per creare un filmato in 360° con audio spazializzato in modo da dare il più possibile una sensazione di “immersione”. E soprattutto lo scopo è stato cercare di ottenere un filmato in grado di ricostruire la morfologia del luogo. Come spiega il regista in un video per la sua casa di produzione, partendo da immagini frammentate, si è ottenuta un’unica proiezione in cui diversi personaggi di diversi film, muovendosi in questo spazio condiviso, costruiscono una nuova narrazione. È stato il regista stesso ad aver fatto per primo un’esperienza al 100% virtuale, infatti non è mai stato di persona alle cascate ma ne ha piano piano conosciuto la morfologia attraverso i video raccolti per questo progetto di ricerca.
Viene infine da chiedersi se questo stesso procedimento non potrà essere utilizzato in futuro per studiare e ricostruire la nostra civiltà.
Le tecnologie del nuovo decennio hanno appena mosso i primi passi nel mondo del cinema e delle arti, ed è prevedibile che cresceranno in fretta e presto saranno in grado di camminare con le proprie gambe. Quello che è meno prevedibile sono le possibili perdite e i possibili guadagni che il genere umano otterrà da questa "collaborazione". Ma ultimamente è diventato sempre più evidente come non sia possibile arrestare la corsa delle tecnologie per impedire a ciò che ci spaventa di svilupparsi e acquisire potere all’interno della nostra società. La soluzione ai nostri timori va cercata nel tentativo di conoscere e comprendere queste nuove tecnologie per gestirle al meglio e saperle rendere uno strumento nelle nostre mani sapienti.
Il caso della VR applicata al cinema è solo un esempio delle potenzialità che si possono sbloccare e delle conseguenti riflessioni che è necessario affrontare nel momento in cui si inseriscono nuovi elementi in un linguaggio diventato così tanto parte ed espressione dell’uomo.
NC-183
12.01.2024
Il nostro presente è il futuro che immaginavano nel passato. Una frase contorta, che però rende il senso di spaesamento che si può provare oggi nel cercare di districarci tra le tante novità tecnologiche che hanno fatto il loro ingresso nella quotidianità.
Ancora capita di leggere libri o vedere film del passato in cui si immaginava quale sarebbe potuto essere il mondo del nuovo millennio, e ultimamente, sempre più spesso, sta succedendo di riconoscere in quelle anticipazioni qualcosa di simile alla nostra realtà: i grandi schermi onnipresenti di Fahrenheit 451, gli scenari apocalittici di The Day After Tomorrow, la violenza insensata di Arancia Meccanica…distopie divenute una realtà talmente radicata da non venire neanche più considerata sorprendente.
Negli ultimi anni però sono saltate alla ribalta alcune innovazioni che portano ancora in sé un quantitativo tale di rivoluzione da riuscire a suscitare ancora dibattiti e interrogativi etici, e, negli ultimi tempi in particolare, ci si è ritrovati a parlare di intelligenza artificiale, realtà virtuale e metaverso.
Il mondo del cinema, che della nostra quotidianità fa ormai parte, è stato investito da un’ondata di modernità, essendo un’arte che molto si appoggia sulla tecnologia.
Sull’ IA nel cinema si è ampiamente dibattuto, soprattutto a seguito degli scioperi che hanno interessato vari comparti del mondo cinematografico, e che hanno visto la partecipazione di molte star che chiedevano a gran voce garanzie che evitassero l’ingresso a gamba tesa dell’intelligenza artificiale in quegli atti tradizionalmente considerati artistici, come scrittura e recitazione, e quindi strenuamente difesi come appannaggio esclusivo dell’uomo.
Dopo anni di riflessioni si è giunti alla conclusione che sia impossibile definire cosa sia arte e quale sia il suo scopo, ma una cosa è certa: i migliori film, come i migliori quadri, scatti fotografici, statue, sinfonie o canzoni… sono quelle che contengono un pezzo dell’anima di chi le ha realizzate. Privare un’opera di quest’anima per inserirvi un surrogato di coscienza artificiale, farebbe perdere parte della magia a opere che ci regalano emozioni ed esperienze di vita. E forse, anche chi di solito agisce guidato dal valore del denaro, ha visto il limite invalicabile che probabilmente porterebbe alla svalutazione - se non all’implosione - dell’arte stessa. Per questo, fortunatamente, sembra che gli scioperi di quest’anno appena passato abbiano sortito il loro effetto e sempre di più il mondo si stia muovendo per regolamentare e limitare l’azione di questo nuovo, e destabilizzante, fenomeno.
Per quanto riguarda il metaverso, invece, le possibili applicazioni e le traduzioni di questa dimensione in forma d’arte sono ancora talmente embrionali da non suscitare grande preoccupazione, ma anzi sembra che stiano stimolando nuove ricerche e nuove forme di sperimentazione.
La virtual reality è forse l’ambito più interessante da esplorare per le possibili collaborazioni con la cinepresa. In realtà, il mondo del cinema si è già accorto del potenziale della VR, e molte sono le opere che sono state realizzate servendosi di questa tecnologia per gli scopi più disparati.
Ne abbiamo avuto un esempio nello spazio apposito che la Biennale di Venezia dedica ormai da qualche anno all’unione tra cinema e VR, con la sezione Venice Immersive (prima Venice VR Expanded). In questo contesto sono infatti stati proiettati diversi prodotti realizzati sfruttando la virtual reality. La mostra ha deciso di esporre diversi risultati della VR, di cui uno in particolare interessa più strettamente il mondo del cinema: i video 360°.
Ma forse occorre fare un passo indietro e definire bene cosa si intenda per virtual reality, un significato che è contenuto nelle due parole che la identificano ma che spesso diventa troppo vago quando si parla di un argomento così vasto. La VR si occupa di tutto ciò che è mondo virtuale, digitale, e di cui è possibile fare esperienza in modo quasi analogo alla realtà “reale” grazie ad appositi visori che coinvolgono completamente la vista.
Dei cinque sensi che determinano il nostro punto di contatto col mondo, la vista è sicuramente lo strumento di percezione più immediato e su cui facciamo più affidamento. Scopo della virtual reality è appunto quello di “convincere” i nostri occhi di trovarsi, effettivamente, in un mondo veritiero. Per far ciò, chi progetta questa dimensione deve conferirle anche le sue leggi fisiche, una coerenza e, soprattutto, la possibilità per lo “spettatore” di farne esperienza nel modo più diretto possibile, senza l’intermezzo di uno schermo.
Ci sono due declinazioni principali in cui la VR è stata applicata al mondo del cinema.
La prima sono i già citati video 360°. Si tratta di video che vengono fruiti attraverso degli specifici visori che coprono tutto lo spettro visivo, e che sono sensibili ai movimenti dello spettatore che, girandosi e muovendosi, può osservare la scena come se si trovasse all’interno di essa.
Per spiegare meglio, prendiamo ad esempio uno dei corti presentati alla Biennale di Venezia 2021: Angels of Amsterdam, per la regia di Anna Abrahams e Avinash Changa. L’opera permette allo spettatore di assistere alla scena, rappresentata in un caffè di Amsterdam del XVII secolo, come se fosse un avventore del locale, di cui può ammirare anche la ricostruzione storica. Questo tipo di esperienza potrebbe far pensare più a un gioco che a una forma di fruizione di una storia, e gli stessi registi hanno espresso consapevolezza del fatto che spesso le prodezze della tecnologia distraggono lo spettatore dalla storia stessa.
C’è un aspetto, però, per cui questo tipo di esperienza aumenta notevolmente le possibilità del cinema di esprimere al massimo il suo potenziale. Da sempre infatti la magia della Settima Arte sta nella capacità di far dimenticare allo spettatore di trovarsi davanti a uno schermo, cercare di proporre il punto di vista più inclusivo possibile, che faccia percepire all’occhio di osservare quelle scene dal vivo. Un pò come il cinema in 3D, che già ha esplorato questo aspetto.
La virtual reality porta questo concetto alle sue estreme conseguenze, secondo la teoria della “cognizione incarnata”, per cui ogni tipo di cognizione, di esperienza della mente, di pensiero, per quanto astratto possa essere, si basa su esperienze corporee. Con il grado di coinvolgimento richiamato dalla virtual reality, risulta evidente quanto questo tipo di esperienza di visione sia in grado di far immergere lo spettatore nel mondo raccontato, farlo empatizzare con i personaggi e fargli vivere sensazioni che possono essere evocate solo attraverso gli strumenti più convenzionali.
Ovviamente è inevitabile chiedersi se non si corra il rischio di creare realtà virtuali le cui esperienze siano talmente più piacevoli o semplicemente più intense di quelle ordinarie da precludere la partecipazione alla realtà reale. Ma questo è un dubbio atavico che ha sempre accompagnato le novità e che non è mai stato fugato se non dal tempo e dalla convivenza con esse stesse. In passato si credeva addirittura che i libri fossero un male, perché chi si immergeva nella loro lettura era estraniato dalla realtà circostante.
La creatività è però una caratteristica imprescindibile per l’avanzamento delle arti, e qualsiasi nuovo strumento nelle mani dei creativi è prezioso se permette di addentrarsi in nuovi territori finora intoccati. È grazie a registi visionari come l’argentino Eduardo Williams che nuovi scenari vengono esplorati. Il suo ultimo lavoro, El auge de Humano 3, è stato proiettato nella sezione “Internazionale” del Festival di Locarno 2023. In quest’opera cinematografica, il regista aggiunge al già complicato impianto narrativo del film un processo di ripresa e montaggio innovativo e sperimentale. Le riprese sono infatti state girate con una VR camera, un obbiettivo sferico con ripresa a 360°. Una prima scelta innovativa è stata quella di far comparire nel film la camera stessa: nella scena finale si può vedere l’obbiettivo rotolare giù da una collina inseguito dai ragazzi protagonisti delle oniriche vicende. In questo modo si è ovviamente rotto “il velo di maya” della finzione, ma evidentemente lo scopo del regista non era quello di creare una storia verosimile.
Quale fosse effettivamente lo scopo, è difficile ipotizzarlo: il regista stesso ha ammesso di fare cinema per non dover svolgere un noioso lavoro d’ufficio, a differenza dei suoi protagonisti che non riescono mai a fare nulla perché sono sempre impegnati a cercare lavoro o a lavorare. E sicuramente è stata questa libertà a dargli la possibilità di utilizzare un procedimento così sperimentale nella realizzazione del film.
L’utilizzo di una VR camera a 360° comporta aggiustamenti tecnici per cui la soluzione non è già fornita da anni e anni di esperienza. Essendo un procedimento nuovo, deve essere trovata con spirito di inventiva e creatività, al contempo sfruttando le nuove potenzialità offerte da questa metodologia. Ad esempio, la DOP Victoria Pereda, che è stata anche operatrice di camera, ha portato per la maggior parte del tempo la camera sulla testa, potendosi così muovere più liberamente per seguire gli attori e ottenere così immagini che rendessero il più possibile l’idea di osservare la scena da un punto di vista interno al gruppo di amici. Di contro, nuove soluzioni hanno dovuto essere prese per registrare l’audio, perché ovviamente tutto diventava campo di ripresa e quindi i normali boom erano inservibili.
L’intervento della VR nella realizzazione di questo film, che allo spettatore si presenta come una normale proiezione su schermo piatto, non termina qui. Il regista ha infatti spiegato che per trasformare le riprese a 360° nel prodotto finale, che appunto si presenta come un normale video di formato widescreen cinematografico 16:9, ha indossato lui stesso il visore VR e quello che è risultato incorniciato dai bordi dello schermo non è altro che l’immagine di ciò che ha visto muovendosi in questa realtà creata dalle sue stesse riprese. Quello che poi è stato montato è quindi l'esito di una selezione del girato, che ha sicuramente lasciato ancora più potere decisionale al regista. È stata svelata così una nuova possibile applicazione della VR al mondo del cinema, ma anche i pericoli di una deriva più individualistica di quella che è sempre stata un’arte di realizzazione collettiva.
Un altro ambito in cui sono state sperimentate le capacità della VR è il montaggio. È il caso dell’intenso lavoro di compilazione svolto da Davide Rapp nel suo corto intitolato Montegelato, presentato sempre alla selezione ufficiale di Venice VR Expanded 2021. Questo meticoloso lavoro è stato realizzato raccogliendo filmati di ogni genere e di ogni epoca – dvd, blueray, vhs, super 8 – che ritraessero le cascate di Montegelato. Questa località in provincia di Roma ha infatti servito da set per numerosissime produzioni cinematografiche.
Quello di Davide Rapp è il primo film il cui montaggio è stato realizzato con la VR, le cui potenzialità sono state messe all’opera per creare un filmato in 360° con audio spazializzato in modo da dare il più possibile una sensazione di “immersione”. E soprattutto lo scopo è stato cercare di ottenere un filmato in grado di ricostruire la morfologia del luogo. Come spiega il regista in un video per la sua casa di produzione, partendo da immagini frammentate, si è ottenuta un’unica proiezione in cui diversi personaggi di diversi film, muovendosi in questo spazio condiviso, costruiscono una nuova narrazione. È stato il regista stesso ad aver fatto per primo un’esperienza al 100% virtuale, infatti non è mai stato di persona alle cascate ma ne ha piano piano conosciuto la morfologia attraverso i video raccolti per questo progetto di ricerca.
Viene infine da chiedersi se questo stesso procedimento non potrà essere utilizzato in futuro per studiare e ricostruire la nostra civiltà.
Le tecnologie del nuovo decennio hanno appena mosso i primi passi nel mondo del cinema e delle arti, ed è prevedibile che cresceranno in fretta e presto saranno in grado di camminare con le proprie gambe. Quello che è meno prevedibile sono le possibili perdite e i possibili guadagni che il genere umano otterrà da questa "collaborazione". Ma ultimamente è diventato sempre più evidente come non sia possibile arrestare la corsa delle tecnologie per impedire a ciò che ci spaventa di svilupparsi e acquisire potere all’interno della nostra società. La soluzione ai nostri timori va cercata nel tentativo di conoscere e comprendere queste nuove tecnologie per gestirle al meglio e saperle rendere uno strumento nelle nostre mani sapienti.
Il caso della VR applicata al cinema è solo un esempio delle potenzialità che si possono sbloccare e delle conseguenti riflessioni che è necessario affrontare nel momento in cui si inseriscono nuovi elementi in un linguaggio diventato così tanto parte ed espressione dell’uomo.