La fiera delle vanità e delle illusioni,
recensione di Alberto de Carolis Villars
RV-47
22.12.2023
“Il mondo è uno specchio che a ogni uomo rimanda la sua immagine. Se lo fissi con espressione accigliata, ti risponderà con un’occhiataccia. Se ridi di lui e con lui, diventerà un amico allegro e compiacente”. Questa frase uscita dalla penna del celebre scrittore vittoriano William Makepeace Thackeray sembra definire perfettamente la natura del secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice Emerald Fennell.
Una dark comedy squilibrata e pomposa, una love story camp, un thriller immorale ed erotico: che cos’è esattamente Saltburn? Pur non potendo dare una precisa risposta a questa domanda, si può affermare che l’ultimo lavoro della cineasta britannica sia una fiera delle vanità dove niente è come sembra, ogni cosa è il doppio dell’altra e tutti i personaggi, nessuno escluso, sono simili a scrigni che racchiudono un’individualità duplice e confusa.
Se in Promising Young Woman (2020) risultava chiaro come la regista stesse cominciando a plasmare le caratteristiche di un preciso “sguardo al vetriolo” sulla società, in Saltburn assistiamo al maturarsi di tutta una una serie di elementi, estetici e narrativi, che confermano il suo grande e sibillino talento. La sanguigna fattura che caratterizzava il precedente lavoro di Fennell - attrice di formazione che con il tempo ha saputo dimostrare anche una straordinaria attitudine per il ruolo di sceneggiatrice - raggiunge qui un eccellente equilibrio. Tramite un tono irriverente e grottesco la regista costruisce con sapienza un’ingegnosa satira che, attraverso la sua ridondante morbosità, risulta eccezionalmente perspicace e cosciente di sé.
Fennell dimostra di saper cogliere con grandissima precisione il perverso girotondo di caste che, ancora oggi, caratterizza le strutture della società inglese. Il suo è il ritratto di un mondo ingordo e decadente, talmente occupato ad abbuffarsi, e poi a vomitarsi bulimicamente addosso, da non accorgersi di star andando dritto verso la rovina. Un messaggio che la cineasta veicola con così decisa convinzione da farlo riflettere su qualsiasi sfumatura della messa in scena. Difatti, tutto in Saltburn è fastoso, ripieno, barocco e stravagante. La sua opulenta estetica, zeppa di decorazioni esornative, ninnoli, tessuti purpurei e caratterizzata da colori vivi, saturati e smaccatamente glitter, sembra rielaborare la pittura preraffaellita di artisti come John Everett Millais, William Hunt, Edward Robert Huges o J. W. Waterhouse, con la precisa intenzione di mostrarci un universo totalmente artefatto. Una dimensione fasulla e irreale che rende gli egotici protagonisti sempre più incoscienti della loro condizione.
Attraverso dei fini ingranaggi narrativi, Fennell sembra ritrovare le ossessioni ripleyane dei romanzi di Patricia Highsmith, nonché il loro culto della doppiezza e le loro dinamiche di alterazione della realtà. Nel gioco al massacro che si consuma tra i personaggi rivive invece la parabola dei migliori lavori cinematografici di Joseph Losey: le classi subalterne, seguendo una dinamica crudele e masochistica, si insinuano nelle vuote esistenze dei privilegiati, manipolandole e corrodendole dall’interno.
Saltburn vanta un cast di interpreti in grandissima forma. Barry Keoghan si dimostra nuovamente capace di regalare un’interpretazione di altissimo livello, impresa non facile dopo la strepitosa performance offerta nel precedente The Banshees of Inisherin (2022), pellicola che fece guadagnare all’attore una meritata nomination ai premi Oscar. Risulta evidente, invece, come Jacob Elordi stia svelando sempre più il suo inaspettato talento: oltre al Saltburn, quest’anno il divo di Euphoria ha recitato, con sorprendente bravura, anche in Priscilla di Sofia Coppola, tratteggiando un Elvis Presley inquieto e tormentato. Australiano di nascita, Elordi restituisce un accento posh impeccabile e incarna splendidamente un character desiderato e fagocitato da tutti coloro che lo circondano, inclusa la stessa macchina da presa, colta da un moto di ossessione per il suo corpo. Rosamund Pike, Richard E. Grant, Alison Oliver e Archie Madekwe, osservatore onnisciente e insieme al personaggio di Keoghan il più lucido rispetto agli altri protagonisti, completano una ensemble attoriale splendidamente assortita. Una menzione speciale va infine a Carey Mulligan, divertente e divertita in un piccolo ruolo studiato e deliziosamente iconico.
Insomma, Saltburn è un lavoro che divide: si può essere totalmente catturati dal suo artificio depravato o rinnegare il tutto con sdegnoso fastidio. Ma se si accetta di stare al gioco, e ci si lascia coinvolgere dalle sue atmosfere sulfuree e luciferine, si rimarrà irrimediabilmente attratti dal peccaminoso fascino che lo contraddistingue.
La fiera delle vanità e delle illusioni,
recensione di Alberto de Carolis Villars
RV-47
22.12.2023
“Il mondo è uno specchio che a ogni uomo rimanda la sua immagine. Se lo fissi con espressione accigliata, ti risponderà con un’occhiataccia. Se ridi di lui e con lui, diventerà un amico allegro e compiacente”. Questa frase uscita dalla penna del celebre scrittore vittoriano William Makepeace Thackeray sembra definire perfettamente la natura del secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice Emerald Fennell.
Una dark comedy squilibrata e pomposa, una love story camp, un thriller immorale ed erotico: che cos’è esattamente Saltburn? Pur non potendo dare una precisa risposta a questa domanda, si può affermare che l’ultimo lavoro della cineasta britannica sia una fiera delle vanità dove niente è come sembra, ogni cosa è il doppio dell’altra e tutti i personaggi, nessuno escluso, sono simili a scrigni che racchiudono un’individualità duplice e confusa.
Se in Promising Young Woman (2020) risultava chiaro come la regista stesse cominciando a plasmare le caratteristiche di un preciso “sguardo al vetriolo” sulla società, in Saltburn assistiamo al maturarsi di tutta una una serie di elementi, estetici e narrativi, che confermano il suo grande e sibillino talento. La sanguigna fattura che caratterizzava il precedente lavoro di Fennell - attrice di formazione che con il tempo ha saputo dimostrare anche una straordinaria attitudine per il ruolo di sceneggiatrice - raggiunge qui un eccellente equilibrio. Tramite un tono irriverente e grottesco la regista costruisce con sapienza un’ingegnosa satira che, attraverso la sua ridondante morbosità, risulta eccezionalmente perspicace e cosciente di sé.
Fennell dimostra di saper cogliere con grandissima precisione il perverso girotondo di caste che, ancora oggi, caratterizza le strutture della società inglese. Il suo è il ritratto di un mondo ingordo e decadente, talmente occupato ad abbuffarsi, e poi a vomitarsi bulimicamente addosso, da non accorgersi di star andando dritto verso la rovina. Un messaggio che la cineasta veicola con così decisa convinzione da farlo riflettere su qualsiasi sfumatura della messa in scena. Difatti, tutto in Saltburn è fastoso, ripieno, barocco e stravagante. La sua opulenta estetica, zeppa di decorazioni esornative, ninnoli, tessuti purpurei e caratterizzata da colori vivi, saturati e smaccatamente glitter, sembra rielaborare la pittura preraffaellita di artisti come John Everett Millais, William Hunt, Edward Robert Huges o J. W. Waterhouse, con la precisa intenzione di mostrarci un universo totalmente artefatto. Una dimensione fasulla e irreale che rende gli egotici protagonisti sempre più incoscienti della loro condizione.
Attraverso dei fini ingranaggi narrativi, Fennell sembra ritrovare le ossessioni ripleyane dei romanzi di Patricia Highsmith, nonché il loro culto della doppiezza e le loro dinamiche di alterazione della realtà. Nel gioco al massacro che si consuma tra i personaggi rivive invece la parabola dei migliori lavori cinematografici di Joseph Losey: le classi subalterne, seguendo una dinamica crudele e masochistica, si insinuano nelle vuote esistenze dei privilegiati, manipolandole e corrodendole dall’interno.
Saltburn vanta un cast di interpreti in grandissima forma. Barry Keoghan si dimostra nuovamente capace di regalare un’interpretazione di altissimo livello, impresa non facile dopo la strepitosa performance offerta nel precedente The Banshees of Inisherin (2022), pellicola che fece guadagnare all’attore una meritata nomination ai premi Oscar. Risulta evidente, invece, come Jacob Elordi stia svelando sempre più il suo inaspettato talento: oltre al Saltburn, quest’anno il divo di Euphoria ha recitato, con sorprendente bravura, anche in Priscilla di Sofia Coppola, tratteggiando un Elvis Presley inquieto e tormentato. Australiano di nascita, Elordi restituisce un accento posh impeccabile e incarna splendidamente un character desiderato e fagocitato da tutti coloro che lo circondano, inclusa la stessa macchina da presa, colta da un moto di ossessione per il suo corpo. Rosamund Pike, Richard E. Grant, Alison Oliver e Archie Madekwe, osservatore onnisciente e insieme al personaggio di Keoghan il più lucido rispetto agli altri protagonisti, completano una ensemble attoriale splendidamente assortita. Una menzione speciale va infine a Carey Mulligan, divertente e divertita in un piccolo ruolo studiato e deliziosamente iconico.
Insomma, Saltburn è un lavoro che divide: si può essere totalmente catturati dal suo artificio depravato o rinnegare il tutto con sdegnoso fastidio. Ma se si accetta di stare al gioco, e ci si lascia coinvolgere dalle sue atmosfere sulfuree e luciferine, si rimarrà irrimediabilmente attratti dal peccaminoso fascino che lo contraddistingue.