INT-53
13.12.2023
Erenik Beqiri si è formato all’Accademia d’Arte di Tirana, dove ha conseguito il Master Degree in regia. Ha diretto cinque cortometraggi, presentati nei più importanti festival del mondo. I due più recenti, The Van (2019) e A Short Trip (2023), sono stati presentati rispettivamente in concorso a Cannes e a Venezia, vincendo alla Biennale il Premio Orizzonti al miglior cortometraggio.
Entrambi i lavori sono stati proiettati anche al Balkan Film Festival di Roma, al margine del quale abbiamo avuto la possibilità di intervistare il regista.
I tuoi ultimi due lavori ruotano attorno al tema dell'emigrazione. Nei grandi paesi europei si parla continuamente delle persone che arrivano e non di quelle che vanno via. Tu hai scelto di concentrarti sull’altro versante, come mai?
Onestamente mi è venuto naturale, in Albania è una questione che tiene banco dagli anni novanta, praticamente dalla caduta del regime comunista. Come sai, abbiamo emigrato molto verso l’Italia, è un argomento estremamente presente nel nostro quotidiano. In qualche maniera finisce per far parte del tuo inconscio, se ne parla in continuazione e finisci per parlarne anche tu. In entrambi i corti non ho pensato di parlare di immigrazione, volevo parlare delle relazioni. La possibilità di partire mi serviva per portare i personaggi verso una situazione estrema a livello emotivo, in cui dovevano fronteggiare una realtà complessa. Mi è servita per metterli in una condizione in cui potessero mostrare le loro vere e intime sfumature personali.
Entrambe le storie in effetti si concentrano su una coppia, una sorta di “unità minima”, da un lato una relazione e dall’altro il rapporto padre-figlio. Quello che ti interessava era mettere alla prova questi legami in un frangente drammatico?
Esatto, il limite fa emergere il carattere dei personaggi. Davanti all’idea di un futuro migliore o dell’integrazione bisogna fare delle scelte ed è in quel momento che si tira fuori chi si è veramente. Mi piace mettere i personaggi in quelle situazioni anche per capire fino a dove possono spingersi, è un processo di scoperta che coinvolge anche gli attori. Quando iniziamo a lavorare è sempre interessante sentire la loro opinione e riflettere insieme sulle evoluzioni che i personaggi possono avere.
Quando sviluppi i tuoi soggetti cerchi di ispirarti a fatti che conosci direttamente?
Sì e no. Chiaramente mi piace indirizzare il percorso dei personaggi e la storia, ma in questi casi specifici ho voluto rendere i corti il più possibile vicini alla realtà. Semplicemente credo che il miglior modo in cui il cinema può raccontare è essendo onesto. È vero, ascolti quel che ti accade attorno e afferri qualche episodio per incollarlo ad altri e tirare fuori la tua storia. Ma bisogna sempre iniziare dal proprio punto di vista personale, per me in questi due corti era importante la realtà. Questo non vuol dire che non ci sia spazio per scelte personali. Sul set di The Van mi chiedevano spesso perché i personaggi dovessero lottare nel retro di un camioncino, quando potevano tranquillamente farlo in un vicolo. Avevano ragione, ma per me era importante l’elemento della parete. Man mano che la possibilità di partire si fa più concreta le pareti si avvicinano al protagonista, fino a schiacciarlo. E lo spazio di lotta è nascosto, chiuso, ma è anche pubblico, perché il van si muove per le strade della città.
È un’intuizione che si sposa molto bene con la trama infatti. E la claustrofobia si aggrava grazie al formato quadrato, che però hai scelto di usare anche in Short Trip, dove ha meno relazione con la storia. Cosa ti dà quel formato, perché hai scelto di usarlo?
Può sembrare assurdo, ma non sono un grande fan del formato ristretto. Come hai detto tu, in The Van era importante intrappolare il personaggio in una specie di scatola, ma volevo anche mettere alla prova me stesso. Mentre per Short Trip volevamo usare il 16:9, a un certo punto però ci siamo resi conto di quanto fosse importante rimanere concentrati sul personaggio della protagonista, andarle vicino. Volevo proprio che la sua espressione risaltasse, rimanere su di lei. Quindi è venuto naturale cambiare, non ci ho nemmeno pensato molto. In quel caso non c’era la volontà di mostrarla intrappolata, ma di darle più spazio. Forse una delle ragioni è stata anche che per la prima volta non giravo in Albania, ma in Francia, a Marsiglia. Non volevo che in secondo piano ci fosse spazio per scorci da cartolina o panorami caratteristici. Il formato più piccolo mi dava la possibilità di evitarlo.
Questa dedizione ai personaggi si ritrova poi nell’uso della macchina a mano, in entrambi i corti la macchina da presa è a stretto contatto con i protagonisti. Volevi seguirli passo dopo passo?
In parte è una conseguenza del mezzo, se lavori a un corto non puoi esplorare tutti i punti di vista, devi scegliere. Nel mio caso ho sentito il bisogno di trovare gli occhi attraverso cui vedere la storia. Quella scelta si spiega anche così, stare vicino ai personaggi serve a guidare la narrazione. Molte riprese sono rimaste fuori dal montaggio finale proprio per non deviare.
E hai mai pensato di fare di queste storie un lungometraggio? The Van forse è perfetto per essere raccontato in un corto, ma Short Trip aveva materiale narrativo per ampliare il discorso.
È curioso perché in The Van sono partito dalla scena finale e da lì poi ho costruito il resto. Short Trip invece l’ho scritto pensandolo in corto, ma mentre ci lavoravo mi sono reso conto che aveva come un qualcosa in più e quindi l’ho scritto anche come lungometraggio, esplorando i personaggi e come reagivano agli avvenimenti che nel corto vengono solo programmati e non visti. Più che altro per Short Trip mi interessava concentrarmi sul concetto di separazione, che a pensarci è l’esatto opposto di The Van…non credo sia un caso. Volevo muovermi il più possibile in una direzione in cui non ero già andato nel corto precedente, soprattutto raccontando la storia di un personaggio femminile. Se hanno qualcosa in comune non è voluto, ma credo sia inevitabile, succede quasi inconsciamente.
Finora hai diretto solo cortometraggi. Sicuramente avrai pensato anche a fare dei lunghi, c’è qualcosa nel metraggio più breve che ti attira come regista?
Da qualche parte bisogna pur iniziare. E ovviamente ci sono ragioni pratiche, sia economiche che di prassi, i corti spesso sono utilissimi per crearti una sorta di biglietto da visita con l’industria in generale.
A proposito di industria, ritirando il premio Orizzonti a Venezia hai fatto riferimento all’importanza che aveva per il cinema albanese. Ti sembra che negli ultimi anni i paesi più ricchi d’Europa abbiano iniziato a guardare con maggiore interesse verso le cinematografie meno “esplorate”, come quelle della regione balcanica?
Per quel che riguarda il cinema albanese, siamo in un momento di transizione. C’è una nuova generazione che si sta facendo strada e stanno emergendo nuove voci molto promettenti, che hanno ovviamente bisogno del giusto spazio per esprimersi in maniera onesta. Sono molto curioso. In Albania non si arriva a produrre più di due film l’anno, a volte anche nessuno. Per cui è complicato, ma c’è margine per cambiare e per incentivare i nuovi talenti. Se invece vogliamo ampliare il discorso a un interesse generale verso i Balcani, credo che ci sia semplicemente una genuina curiosità. Non sono sicuro, ma mi pare si sappia poco di quello che arriva da quella parte dell’Europa, è come se fossimo sempre degli outsider in qualche maniera. I festival sono sempre stati attenti e lo sono ancora oggi, ma non sono sicuro ci sia una sorta di rinascimento, di movimento generale. Certo, alcuni film dal Kosovo o dalla Macedonia hanno raccontato storie in maniera molto intelligente, perché anche questo è importante: non solo quello che dici, ma come lo dici, devi saper coinvolgere anche lo spettatore.
Come spettatore italiano, vedere storie di immigrazione albanese è particolarmente d’impatto per le ragioni storiche che sappiamo. Ed è un tema ancora attuale, mentre parliamo il governo italiano e quello albanese hanno firmato un memorandum d’intesa proprio sulla gestione dei flussi migratori. Nel raccontare queste storie hai sentito una sorta di responsabilità storica o politica?
Onestamente, nonostante i film possono avere questo alone politico o sociale, non sono una persona che fa della politica il perno principale del suo lavoro o della sua vita. Ho letto del memorandum, ma ne so poco. Come ti ho detto, quel che mi interessa sono i personaggi. Se si inizia con un proposito, una sorta di obiettivo politico, il risultato non è interessante, né per te né per il pubblico. Anche da spettatore, preferisco vedere qualcosa che mi coinvolga dal punto di vista emotivo.
Per il futuro stai lavorando a un lungometraggio, After Dark. Cosa ci puoi dire a riguardo?
Ci lavoriamo da quattro anni, siamo ancora nella fase di finanziamento che è sempre molto delicata perché è dove riesci a capire in che maniera il progetto può essere realizzato. Parlare di un film prima di farlo è sempre un campo minato, non sai mai come andrà poi la lavorazione e quante cose cambieranno. In ogni caso l’idea è mischiare il fantastico e il gotico con l’attualità per raccontare una storia di Tirana.
Quest’anno a Venezia Pablo Larraín ha portato qualcosa di simile, con El Conde. Il cinema di genere è qualcosa che ami come spettatore?
Non particolarmente in realtà. Quando vado al cinema cerco di non ragionare per generi, non è un cinema di cui sono particolarmente appassionato. Mi interessa mischiare, ho provato a farlo anche in The Van. Mi sembra sia un approccio molto fruttuoso sia per il film in sé che per me come regista, mi fa scoprire nuovi modi di raccontare e nuovi modi di provare a presentarmi al pubblico, di provare a stuzzicarlo. È vero, però, che sono cresciuto guardando la televisione italiana e vedendo i grandi film di genere, da Jurassic Park al Dracula di Coppola. La questione per me adesso è come sovrapporre l’immaginario della mia infanzia alla realtà per raccontare una storia che stia in entrambi i mondi.
INT-53
13.12.2023
Erenik Beqiri si è formato all’Accademia d’Arte di Tirana, dove ha conseguito il Master Degree in regia. Ha diretto cinque cortometraggi, presentati nei più importanti festival del mondo. I due più recenti, The Van (2019) e A Short Trip (2023), sono stati presentati rispettivamente in concorso a Cannes e a Venezia, vincendo alla Biennale il Premio Orizzonti al miglior cortometraggio.
Entrambi i lavori sono stati proiettati anche al Balkan Film Festival di Roma, al margine del quale abbiamo avuto la possibilità di intervistare il regista.
I tuoi ultimi due lavori ruotano attorno al tema dell'emigrazione. Nei grandi paesi europei si parla continuamente delle persone che arrivano e non di quelle che vanno via. Tu hai scelto di concentrarti sull’altro versante, come mai?
Onestamente mi è venuto naturale, in Albania è una questione che tiene banco dagli anni novanta, praticamente dalla caduta del regime comunista. Come sai, abbiamo emigrato molto verso l’Italia, è un argomento estremamente presente nel nostro quotidiano. In qualche maniera finisce per far parte del tuo inconscio, se ne parla in continuazione e finisci per parlarne anche tu. In entrambi i corti non ho pensato di parlare di immigrazione, volevo parlare delle relazioni. La possibilità di partire mi serviva per portare i personaggi verso una situazione estrema a livello emotivo, in cui dovevano fronteggiare una realtà complessa. Mi è servita per metterli in una condizione in cui potessero mostrare le loro vere e intime sfumature personali.
Entrambe le storie in effetti si concentrano su una coppia, una sorta di “unità minima”, da un lato una relazione e dall’altro il rapporto padre-figlio. Quello che ti interessava era mettere alla prova questi legami in un frangente drammatico?
Esatto, il limite fa emergere il carattere dei personaggi. Davanti all’idea di un futuro migliore o dell’integrazione bisogna fare delle scelte ed è in quel momento che si tira fuori chi si è veramente. Mi piace mettere i personaggi in quelle situazioni anche per capire fino a dove possono spingersi, è un processo di scoperta che coinvolge anche gli attori. Quando iniziamo a lavorare è sempre interessante sentire la loro opinione e riflettere insieme sulle evoluzioni che i personaggi possono avere.
Quando sviluppi i tuoi soggetti cerchi di ispirarti a fatti che conosci direttamente?
Sì e no. Chiaramente mi piace indirizzare il percorso dei personaggi e la storia, ma in questi casi specifici ho voluto rendere i corti il più possibile vicini alla realtà. Semplicemente credo che il miglior modo in cui il cinema può raccontare è essendo onesto. È vero, ascolti quel che ti accade attorno e afferri qualche episodio per incollarlo ad altri e tirare fuori la tua storia. Ma bisogna sempre iniziare dal proprio punto di vista personale, per me in questi due corti era importante la realtà. Questo non vuol dire che non ci sia spazio per scelte personali. Sul set di The Van mi chiedevano spesso perché i personaggi dovessero lottare nel retro di un camioncino, quando potevano tranquillamente farlo in un vicolo. Avevano ragione, ma per me era importante l’elemento della parete. Man mano che la possibilità di partire si fa più concreta le pareti si avvicinano al protagonista, fino a schiacciarlo. E lo spazio di lotta è nascosto, chiuso, ma è anche pubblico, perché il van si muove per le strade della città.
È un’intuizione che si sposa molto bene con la trama infatti. E la claustrofobia si aggrava grazie al formato quadrato, che però hai scelto di usare anche in Short Trip, dove ha meno relazione con la storia. Cosa ti dà quel formato, perché hai scelto di usarlo?
Può sembrare assurdo, ma non sono un grande fan del formato ristretto. Come hai detto tu, in The Van era importante intrappolare il personaggio in una specie di scatola, ma volevo anche mettere alla prova me stesso. Mentre per Short Trip volevamo usare il 16:9, a un certo punto però ci siamo resi conto di quanto fosse importante rimanere concentrati sul personaggio della protagonista, andarle vicino. Volevo proprio che la sua espressione risaltasse, rimanere su di lei. Quindi è venuto naturale cambiare, non ci ho nemmeno pensato molto. In quel caso non c’era la volontà di mostrarla intrappolata, ma di darle più spazio. Forse una delle ragioni è stata anche che per la prima volta non giravo in Albania, ma in Francia, a Marsiglia. Non volevo che in secondo piano ci fosse spazio per scorci da cartolina o panorami caratteristici. Il formato più piccolo mi dava la possibilità di evitarlo.
Questa dedizione ai personaggi si ritrova poi nell’uso della macchina a mano, in entrambi i corti la macchina da presa è a stretto contatto con i protagonisti. Volevi seguirli passo dopo passo?
In parte è una conseguenza del mezzo, se lavori a un corto non puoi esplorare tutti i punti di vista, devi scegliere. Nel mio caso ho sentito il bisogno di trovare gli occhi attraverso cui vedere la storia. Quella scelta si spiega anche così, stare vicino ai personaggi serve a guidare la narrazione. Molte riprese sono rimaste fuori dal montaggio finale proprio per non deviare.
E hai mai pensato di fare di queste storie un lungometraggio? The Van forse è perfetto per essere raccontato in un corto, ma Short Trip aveva materiale narrativo per ampliare il discorso.
È curioso perché in The Van sono partito dalla scena finale e da lì poi ho costruito il resto. Short Trip invece l’ho scritto pensandolo in corto, ma mentre ci lavoravo mi sono reso conto che aveva come un qualcosa in più e quindi l’ho scritto anche come lungometraggio, esplorando i personaggi e come reagivano agli avvenimenti che nel corto vengono solo programmati e non visti. Più che altro per Short Trip mi interessava concentrarmi sul concetto di separazione, che a pensarci è l’esatto opposto di The Van…non credo sia un caso. Volevo muovermi il più possibile in una direzione in cui non ero già andato nel corto precedente, soprattutto raccontando la storia di un personaggio femminile. Se hanno qualcosa in comune non è voluto, ma credo sia inevitabile, succede quasi inconsciamente.
Finora hai diretto solo cortometraggi. Sicuramente avrai pensato anche a fare dei lunghi, c’è qualcosa nel metraggio più breve che ti attira come regista?
Da qualche parte bisogna pur iniziare. E ovviamente ci sono ragioni pratiche, sia economiche che di prassi, i corti spesso sono utilissimi per crearti una sorta di biglietto da visita con l’industria in generale.
A proposito di industria, ritirando il premio Orizzonti a Venezia hai fatto riferimento all’importanza che aveva per il cinema albanese. Ti sembra che negli ultimi anni i paesi più ricchi d’Europa abbiano iniziato a guardare con maggiore interesse verso le cinematografie meno “esplorate”, come quelle della regione balcanica?
Per quel che riguarda il cinema albanese, siamo in un momento di transizione. C’è una nuova generazione che si sta facendo strada e stanno emergendo nuove voci molto promettenti, che hanno ovviamente bisogno del giusto spazio per esprimersi in maniera onesta. Sono molto curioso. In Albania non si arriva a produrre più di due film l’anno, a volte anche nessuno. Per cui è complicato, ma c’è margine per cambiare e per incentivare i nuovi talenti. Se invece vogliamo ampliare il discorso a un interesse generale verso i Balcani, credo che ci sia semplicemente una genuina curiosità. Non sono sicuro, ma mi pare si sappia poco di quello che arriva da quella parte dell’Europa, è come se fossimo sempre degli outsider in qualche maniera. I festival sono sempre stati attenti e lo sono ancora oggi, ma non sono sicuro ci sia una sorta di rinascimento, di movimento generale. Certo, alcuni film dal Kosovo o dalla Macedonia hanno raccontato storie in maniera molto intelligente, perché anche questo è importante: non solo quello che dici, ma come lo dici, devi saper coinvolgere anche lo spettatore.
Come spettatore italiano, vedere storie di immigrazione albanese è particolarmente d’impatto per le ragioni storiche che sappiamo. Ed è un tema ancora attuale, mentre parliamo il governo italiano e quello albanese hanno firmato un memorandum d’intesa proprio sulla gestione dei flussi migratori. Nel raccontare queste storie hai sentito una sorta di responsabilità storica o politica?
Onestamente, nonostante i film possono avere questo alone politico o sociale, non sono una persona che fa della politica il perno principale del suo lavoro o della sua vita. Ho letto del memorandum, ma ne so poco. Come ti ho detto, quel che mi interessa sono i personaggi. Se si inizia con un proposito, una sorta di obiettivo politico, il risultato non è interessante, né per te né per il pubblico. Anche da spettatore, preferisco vedere qualcosa che mi coinvolga dal punto di vista emotivo.
Per il futuro stai lavorando a un lungometraggio, After Dark. Cosa ci puoi dire a riguardo?
Ci lavoriamo da quattro anni, siamo ancora nella fase di finanziamento che è sempre molto delicata perché è dove riesci a capire in che maniera il progetto può essere realizzato. Parlare di un film prima di farlo è sempre un campo minato, non sai mai come andrà poi la lavorazione e quante cose cambieranno. In ogni caso l’idea è mischiare il fantastico e il gotico con l’attualità per raccontare una storia di Tirana.
Quest’anno a Venezia Pablo Larraín ha portato qualcosa di simile, con El Conde. Il cinema di genere è qualcosa che ami come spettatore?
Non particolarmente in realtà. Quando vado al cinema cerco di non ragionare per generi, non è un cinema di cui sono particolarmente appassionato. Mi interessa mischiare, ho provato a farlo anche in The Van. Mi sembra sia un approccio molto fruttuoso sia per il film in sé che per me come regista, mi fa scoprire nuovi modi di raccontare e nuovi modi di provare a presentarmi al pubblico, di provare a stuzzicarlo. È vero, però, che sono cresciuto guardando la televisione italiana e vedendo i grandi film di genere, da Jurassic Park al Dracula di Coppola. La questione per me adesso è come sovrapporre l’immaginario della mia infanzia alla realtà per raccontare una storia che stia in entrambi i mondi.