INT-51
17.11.2023
Dopo essere stato presentato a Settembre al Festival di Venezia, Yurt, il primo lungometraggio di Nehir Tuna, è stato riproiettato in Italia in occasione della 29esima edizione del MedFilm Festival. Ambientato in Turchia nella seconda metà degli anni 90’ - periodo caratterizzato da forti tensioni religiose - il film racconta le vicende di Ahmet, giovane quattordicenne che viene costretto dal padre, appena convertitosi all’Islam, ad abbandonare la sua agiata esistenza per andare a vivere in uno “yurt” - un dormitorio - in modo da imparare i valori musulmani. La difficile esperienza del ragazzo all’interno dell’istituzione verrà resa meno opprimente dalla presenza di Hakan, ragazzo con cui stringerà un forte legame.
Il coming of age di Tuna esplora efficacemente la perdita dell’innocenza del protagonista attraverso le varie difficoltà che esso si trova ad affrontare. Una tematica che permette al regista di raccontare uno spaccato del suo paese, caratterizzato da continue lotte politico-religiose.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Nehir Tuna, che ci ha raccontato degli elementi autobiografici presenti nell’opera, dell’uso del bianco e nero e del legame tra i due giovani protagonisti.
Hai presentato il film per la prima volta a Venezia, come è andata? Ti ha soddisfatto la reazione del pubblico?
È andata bene e il pubblico italiano ha risposto bene, soprattutto per via della canzone italiana Ma che freddo fa che ho inserito in una sequenza importante. Mi hanno anche chiesto come facevo a conoscere Nada nel Q&A dopo la première. Prima della proiezione mi avevano detto che avrebbero fatto diverse domande sulla canzone, ma non pensavo così tante.
Già che siamo in tema, come mai ha scelto di utilizzare Ma che freddo fa (1969) di Nada?
Ho scoperto la canzone tramite un giornale locale. Spesso leggo la rubrica di questo giornalista a cui piace scrivere di come dobbiamo imparare ad assaporare meglio la vita e quello che abbiamo. Un giorno, in uno dei suoi articoli, aveva parlato della canzone e di quanto gli fosse piaciuta. Ho deciso di ascoltare il brano e mene sono innamorato fin da subito. Non capivo le parole ovviamente, però la canzone mi trasmetteva qualcosa, mi ha fatto ricordare la mia infanzia. È stato qualcosa di magnetico, sapevo che dovevo usarla nel mio film.
Mi fa piacere sentire questo, più che altro perché questo brano assume un valore più universale grazie al film.
Esatto. Mi avevano chiesto di utilizzare brani pop degli anni ‘90, ma ho insistito molto sulla canzone di Nada.
Hai apportato grandi modifiche rispetto alla sceneggiatura originale?
Nulla di drastico, più che altro dettagli a livello di regia. Volevo trovare il modo migliore per rappresentare l’ansia e la tensione del protagonista. Mi venivano sempre nuove idee, anche durante le riprese. Di solito ho bene in mente di come voglio che il film sia, ma mi piace sperimentare sul set e, ad esempio, girare la scena da più inquadrature. Anche con la gestione degli attori è lo stesso, chiedo sempre a questi di adottare approcci diversi per una determinata scena. Così in fase di montaggio ho tanto materiale su cui lavorare ed evito anche di pensare “oh, potevo farlo diversamente”.
Ci sono elementi autobiografici nel film?
Ho vissuto cinque anni in un dormitorio, per questo sono legato alla storia del film e penso di aver rappresentato efficacemente la vita all’interno di queste istituzioni. È stato divertente ricordare quel periodo della mia vita e riscoprire certi episodi. È stato come una sessione terapeutica, una lunga e costosa sessione terapeutica (il regista ride, n.d.r.)!
Hai cercato altre persone che hanno avuto esperienze simili alla tua durante la preparazione del film?
Si, conosco molte persone che sono state in questi dormitori. Più che altro perché sono delle istituzioni convenienti per famiglie in difficoltà economiche che non riescono a crescere i propri figli. La mia situazione era leggermente diversa, però spesso questi posti sono ancore di salvezza per alcune famiglie, danno un rifugio e un’istruzione gratuita ai ragazzi.
Sono ancora così presenti al giorno d’oggi?
Si, anzi, ce ne sono di più oggi che negli anni ‘80 o ‘90. In passato c’erano problemi perché questi dormitori erano visti come luoghi frequentati da estremisti religiosi. Ma ora la situazione è cambiata, c’è più “libertà”.
Hai avuto sempre in mente di girare il film in bianco e nero?
Si. Ho lavorato a lungo in pre-produzione con il direttore della fotografia per capire se si potevano girare certe scene con le sfumature che volevo. Durante le riprese, “vedevo” il film in bianco e nero, e, sin dall’inizio, sapevo che volevo usare questa palette perché rappresenta appieno l’esperienza nei dormitori. Non c’è varietà, non c’è “colore”. Puoi essere in questo modo o in quest’altro, non c’è una via di mezzo. Inoltre il colore bianco mi ha permesso di rappresentare l’innocenza dei ragazzi che stanno vivendo una fase di transizione e si trovano indottrinati da queste istituzioni. Volevo mostrare la purezza della loro gioventù, in netto contrasto con il mondo adulto.
E cosa puoi dirmi sulle sequenze a colori?
Quelle sono arrivate più tardi, non erano presenti inizialmente nella sceneggiatura. Inoltre, quando si vede un film in bianco e nero, si pensa subito che sia “datato”, mentre la storia che racconto è piuttosto contemporanea. Io e il direttore della fotografia abbiamo pensato che poteva essere interessante aggiungere delle scene a colori poiché queste rappresentano il senso di libertà dei due ragazzi all’infuori del dormitorio. Poi se hai notato bene, c’è un cambio di palette tra le prime scene a colori e quelle successive. All’inizio ho adoperato delle tonalità pastello proprio per enfatizzare quel sentimento di libertà, ma pian piano i colori diventano più “reali” proprio perché la vita dei due giovani diventa più “reale”, non così colorata come all’inizio, ma nemmeno limitata al bianco e nero della vita dei dormitori. Volevo creare un certo equilibrio tra queste due realtà.
Doğa Karakaş, il giovane attore che interpreta Ahmed, mi ha davvero impressionato. Puoi dirmi qualcosa su di lui?
È un attore molto talentuoso. C’è stata molta chimica tra di noi, riusciva a comprendere subito la mia visione e quello che volevo da lui. Il processo di casting è stato piuttosto lungo però, non riuscivo a trovare la persona giusta, e l’aspetto fisico del personaggio è “cambiato” molte volte durante questa fase. All’inizio non immaginavo Ahmed come un ragazzo biondo con gli occhi azzurri, ma mi sono ricreduto una volta che ho trovato Doğa. Bisogna sapersi adattare e non rimanere troppo fissati sulle proprie idee.
Durante la produzione siete stati nei dormitori?
Oh no, sarebbe stato troppo intenso (il regista ride, n.d.r.). Can Bartu Aslan, l’attore che interpreta Hakan, ha voluto vivere in uno dei dormitori durante il periodo delle riprese perché voleva, tramite quell’esperienza, entrare più in sintonia con il suo personaggio.
Come hai preparato i due attori per i ruoli? Ti chiedo questo perché nel film, il contesto politico ha una certa importanza e i due giovani interpreti non hanno mai vissuto quella realtà.
Il contesto politico ha una certa importanza nel film, ma non per i ragazzi nello specifico. Nel senso, loro non sono pienamente consapevoli di ciò che sta accadendo, e questo ha portato dei benefici per la gestione degli attori. Però ti dico, Can Bartu Aslan mi ha chiesto se gli facevo sentire la musica che ascoltavo in quel periodo perché credeva che poteva aiutarlo a connettersi di più con il periodo storico.
Come definiresti la relazione tra Ahmed e Hakan? C’è qualcosa che si avvicina di più ad un amore platonico rispetto alla semplice amicizia.
Esatto, se ci pensi, il film racconta di Ahmed e della sua costante ricerca di amore. Cerca affetto nella figura paterna, ha una breve relazione romantica con una ragazza e poi c’è Hakan. All’inizio, Ahmed lo vede come un modello da seguire, un fratello maggiore. La loro relazione ha diverse sfaccettature e gradualmente Ahmed capisce che quello che stava cercando l’ha trovato in Hakan. Ha incontrato un amico, un fratello e qualcuno da amare.
Sarebbe troppo scontato interpretare il film come una semplice storia d’amore.
L’amore è al centro del film ovviamente, Ahmed lo sta cercando tramite gli altri e vuole che questo sia ricambiato. Ma le persone che frequenta vogliono che lui sia qualcos’altro, deve “cambiare”, se vuole essere amato. Questa concezione riguarda non solo Hakan, ma anche il padre. E alla fine, Ahmed capisce che non vuole cambiare per essere amato.
INT-51
17.11.2023
Dopo essere stato presentato a Settembre al Festival di Venezia, Yurt, il primo lungometraggio di Nehir Tuna, è stato riproiettato in Italia in occasione della 29esima edizione del MedFilm Festival. Ambientato in Turchia nella seconda metà degli anni 90’ - periodo caratterizzato da forti tensioni religiose - il film racconta le vicende di Ahmet, giovane quattordicenne che viene costretto dal padre, appena convertitosi all’Islam, ad abbandonare la sua agiata esistenza per andare a vivere in uno “yurt” - un dormitorio - in modo da imparare i valori musulmani. La difficile esperienza del ragazzo all’interno dell’istituzione verrà resa meno opprimente dalla presenza di Hakan, ragazzo con cui stringerà un forte legame.
Il coming of age di Tuna esplora efficacemente la perdita dell’innocenza del protagonista attraverso le varie difficoltà che esso si trova ad affrontare. Una tematica che permette al regista di raccontare uno spaccato del suo paese, caratterizzato da continue lotte politico-religiose.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Nehir Tuna, che ci ha raccontato degli elementi autobiografici presenti nell’opera, dell’uso del bianco e nero e del legame tra i due giovani protagonisti.
Hai presentato il film per la prima volta a Venezia, come è andata? Ti ha soddisfatto la reazione del pubblico?
È andata bene e il pubblico italiano ha risposto bene, soprattutto per via della canzone italiana Ma che freddo fa che ho inserito in una sequenza importante. Mi hanno anche chiesto come facevo a conoscere Nada nel Q&A dopo la première. Prima della proiezione mi avevano detto che avrebbero fatto diverse domande sulla canzone, ma non pensavo così tante.
Già che siamo in tema, come mai ha scelto di utilizzare Ma che freddo fa (1969) di Nada?
Ho scoperto la canzone tramite un giornale locale. Spesso leggo la rubrica di questo giornalista a cui piace scrivere di come dobbiamo imparare ad assaporare meglio la vita e quello che abbiamo. Un giorno, in uno dei suoi articoli, aveva parlato della canzone e di quanto gli fosse piaciuta. Ho deciso di ascoltare il brano e mene sono innamorato fin da subito. Non capivo le parole ovviamente, però la canzone mi trasmetteva qualcosa, mi ha fatto ricordare la mia infanzia. È stato qualcosa di magnetico, sapevo che dovevo usarla nel mio film.
Mi fa piacere sentire questo, più che altro perché questo brano assume un valore più universale grazie al film.
Esatto. Mi avevano chiesto di utilizzare brani pop degli anni ‘90, ma ho insistito molto sulla canzone di Nada.
Hai apportato grandi modifiche rispetto alla sceneggiatura originale?
Nulla di drastico, più che altro dettagli a livello di regia. Volevo trovare il modo migliore per rappresentare l’ansia e la tensione del protagonista. Mi venivano sempre nuove idee, anche durante le riprese. Di solito ho bene in mente di come voglio che il film sia, ma mi piace sperimentare sul set e, ad esempio, girare la scena da più inquadrature. Anche con la gestione degli attori è lo stesso, chiedo sempre a questi di adottare approcci diversi per una determinata scena. Così in fase di montaggio ho tanto materiale su cui lavorare ed evito anche di pensare “oh, potevo farlo diversamente”.
Ci sono elementi autobiografici nel film?
Ho vissuto cinque anni in un dormitorio, per questo sono legato alla storia del film e penso di aver rappresentato efficacemente la vita all’interno di queste istituzioni. È stato divertente ricordare quel periodo della mia vita e riscoprire certi episodi. È stato come una sessione terapeutica, una lunga e costosa sessione terapeutica (il regista ride, n.d.r.)!
Hai cercato altre persone che hanno avuto esperienze simili alla tua durante la preparazione del film?
Si, conosco molte persone che sono state in questi dormitori. Più che altro perché sono delle istituzioni convenienti per famiglie in difficoltà economiche che non riescono a crescere i propri figli. La mia situazione era leggermente diversa, però spesso questi posti sono ancore di salvezza per alcune famiglie, danno un rifugio e un’istruzione gratuita ai ragazzi.
Sono ancora così presenti al giorno d’oggi?
Si, anzi, ce ne sono di più oggi che negli anni ‘80 o ‘90. In passato c’erano problemi perché questi dormitori erano visti come luoghi frequentati da estremisti religiosi. Ma ora la situazione è cambiata, c’è più “libertà”.
Hai avuto sempre in mente di girare il film in bianco e nero?
Si. Ho lavorato a lungo in pre-produzione con il direttore della fotografia per capire se si potevano girare certe scene con le sfumature che volevo. Durante le riprese, “vedevo” il film in bianco e nero, e, sin dall’inizio, sapevo che volevo usare questa palette perché rappresenta appieno l’esperienza nei dormitori. Non c’è varietà, non c’è “colore”. Puoi essere in questo modo o in quest’altro, non c’è una via di mezzo. Inoltre il colore bianco mi ha permesso di rappresentare l’innocenza dei ragazzi che stanno vivendo una fase di transizione e si trovano indottrinati da queste istituzioni. Volevo mostrare la purezza della loro gioventù, in netto contrasto con il mondo adulto.
E cosa puoi dirmi sulle sequenze a colori?
Quelle sono arrivate più tardi, non erano presenti inizialmente nella sceneggiatura. Inoltre, quando si vede un film in bianco e nero, si pensa subito che sia “datato”, mentre la storia che racconto è piuttosto contemporanea. Io e il direttore della fotografia abbiamo pensato che poteva essere interessante aggiungere delle scene a colori poiché queste rappresentano il senso di libertà dei due ragazzi all’infuori del dormitorio. Poi se hai notato bene, c’è un cambio di palette tra le prime scene a colori e quelle successive. All’inizio ho adoperato delle tonalità pastello proprio per enfatizzare quel sentimento di libertà, ma pian piano i colori diventano più “reali” proprio perché la vita dei due giovani diventa più “reale”, non così colorata come all’inizio, ma nemmeno limitata al bianco e nero della vita dei dormitori. Volevo creare un certo equilibrio tra queste due realtà.
Doğa Karakaş, il giovane attore che interpreta Ahmed, mi ha davvero impressionato. Puoi dirmi qualcosa su di lui?
È un attore molto talentuoso. C’è stata molta chimica tra di noi, riusciva a comprendere subito la mia visione e quello che volevo da lui. Il processo di casting è stato piuttosto lungo però, non riuscivo a trovare la persona giusta, e l’aspetto fisico del personaggio è “cambiato” molte volte durante questa fase. All’inizio non immaginavo Ahmed come un ragazzo biondo con gli occhi azzurri, ma mi sono ricreduto una volta che ho trovato Doğa. Bisogna sapersi adattare e non rimanere troppo fissati sulle proprie idee.
Durante la produzione siete stati nei dormitori?
Oh no, sarebbe stato troppo intenso (il regista ride, n.d.r.). Can Bartu Aslan, l’attore che interpreta Hakan, ha voluto vivere in uno dei dormitori durante il periodo delle riprese perché voleva, tramite quell’esperienza, entrare più in sintonia con il suo personaggio.
Come hai preparato i due attori per i ruoli? Ti chiedo questo perché nel film, il contesto politico ha una certa importanza e i due giovani interpreti non hanno mai vissuto quella realtà.
Il contesto politico ha una certa importanza nel film, ma non per i ragazzi nello specifico. Nel senso, loro non sono pienamente consapevoli di ciò che sta accadendo, e questo ha portato dei benefici per la gestione degli attori. Però ti dico, Can Bartu Aslan mi ha chiesto se gli facevo sentire la musica che ascoltavo in quel periodo perché credeva che poteva aiutarlo a connettersi di più con il periodo storico.
Come definiresti la relazione tra Ahmed e Hakan? C’è qualcosa che si avvicina di più ad un amore platonico rispetto alla semplice amicizia.
Esatto, se ci pensi, il film racconta di Ahmed e della sua costante ricerca di amore. Cerca affetto nella figura paterna, ha una breve relazione romantica con una ragazza e poi c’è Hakan. All’inizio, Ahmed lo vede come un modello da seguire, un fratello maggiore. La loro relazione ha diverse sfaccettature e gradualmente Ahmed capisce che quello che stava cercando l’ha trovato in Hakan. Ha incontrato un amico, un fratello e qualcuno da amare.
Sarebbe troppo scontato interpretare il film come una semplice storia d’amore.
L’amore è al centro del film ovviamente, Ahmed lo sta cercando tramite gli altri e vuole che questo sia ricambiato. Ma le persone che frequenta vogliono che lui sia qualcos’altro, deve “cambiare”, se vuole essere amato. Questa concezione riguarda non solo Hakan, ma anche il padre. E alla fine, Ahmed capisce che non vuole cambiare per essere amato.