TR-85
29.07.2023
In poco più di vent’anni di carriera, Shūji Terayama è stato in grado di abbattere ogni limite tra cinema e teatro, tra vita e palcoscenico, tra realtà e finzione. La versatilità del suo genio è impressionante: regista, sceneggiatore e drammaturgo, ma anche romanziere, poeta, filosofo, pugile, critico sportivo. La sua produzione è caratterizzata da eccessi di ogni tipo: nudità insistita di uomini, donne e bambini, violenza gratuita e senza controllo, incitamento alla rivolta e alla distruzione. Terayama non si limita a raccontare certi eccessi, ma li porta in scena in modo concreto, spingendo i propri attori a scagliarsi contro il pubblico, provocando risse, incidenti, denunce. Il regista chiave dell’avanguardia giapponese è un guardone schedato, un giocatore d’azzardo compulsivo, uno scriteriato che si scaverà la fossa da solo per non aver ascoltato gli ordini dei medici. Ma anche un’artista dall’approccio rivoluzionario, un grande difensore della libertà artistica, un uomo di incredibile sensibilità poetica.
Non è dunque facile addentrarsi fino al cuore della sua produzione, perché questa è tanto sterminata quanto varia, rinnovata di continuo dall’incontro di media, tecniche e temi che si intrecciano in modi inediti e sorprendenti. Senza considerare che la sua opera letteraria resta ad oggi di difficile accesso per un lettore occidentale. Ciò che ci interessa in questa sede è però un carattere specifico del suo cinema. I capolavori per i quali è più ricordato – Pastoral e Throw Away Your Books, Rally in the Streets – e molti suoi cortometraggi degli anni Settanta portano i segni di un gioco insistito con lo spettatore, di un vero e proprio attacco alla sua percezione visiva. Questa breve analisi vuole mettere in luce le qualità anti-spettacolari e le implicazioni concettuali di una delle azioni fondamentali del cinema di Terayama: la violazione dell’immagine.
Per cominciare vale la pena soffermarsi sull’analisi di Butterfly, un cortometraggio che Terayama realizza nel 1974. Questo film di dieci minuti si dispiega su due piani di rappresentazione: nel primo la macchina da presa si addentra in un appartamento colmo di bambole, statue antropomorfe e strani personaggi, soffermandosi su momenti di violenza e cannibalismo; nel secondo delle sagome nere si muovono libere davanti a uno schermo. Questi due piani sono sovrapposti, in modo che le sagome del secondo coprano parzialmente la sequenza di immagini del primo. È come quando, in una sala cinematografica, gli spettatori seduti davanti a noi si alzano all’improvviso, interferendo con la proiezione.
In verità i due piani non sembrano semplicemente sovrapposti, ma interconnessi: l’uno rimanda all’altro. Tra i personaggi del primo, che hanno il volto dipinto di bianco come nel kabuki, uno ha l’occhio destro coperto da una benda. Quando lo vediamo per la prima volta se ne sta seduto su le scale e tiene il cadavere di una farfalla tra le mani. Più tardi, su un suo primo piano, la benda sull’occhio è sostituita da quella stessa farfalla, che scorre su uno spago, ora a coprigli l’occhio ora a svelarlo. E, ancora dopo, la sagoma della farfalla scorre davanti alle immagini dei cannibali, impedendoci di vederle con chiarezza – un insetto senza vita a cui il cinema restituisce il movimento e che abbandona lo schermo grazie alle sue ali morte. Il personaggio dall’occhio coperto è una sorta di guardone che si muove tra le sale della casa a spiare gli strani individui che le abitano.
Più che rappresentare un alter ego del regista, l’uomo sembra riportare tutti i vizi e gli handicap dello spettatore: vorrebbe vedere il più possibile di questo sogno inquietante e colorato, ma non può che averne una visione parziale, come gli spettatori di Terayama sono impossibilitati a vedere con chiarezza ciò che sta al di là delle sagome scure. Non resta che affidarsi all’intuizione e all’immaginazione per completare la visione dello spettacolo (la farfalla che sostituisce la benda potrebbe simboleggiare proprio questo processo mentale). Non solo: l’atto di guardare con un occhio solo – come insegna Stan Brakhage – racchiude il senso del fare cinema, nella misura in cui rimanda allo sguardo monco della cinepresa. In Butterfly c’è anche un certo gusto per la scomposizione e il rimescolamento. L’immagine è scomposta in due piani di rappresentazione che si scambiano associazioni di idee e suggestioni visive, mentre tra le mani dei cannibali in scena si alternano pezzi di carne, gambe di bambole e maschere di plastica: le cose si confondono nelle loro rappresentazioni e la fame acquista il senso di un cannibalismo di immagini.
Terayama si affida all’accumulo di stimoli e alla saturazione visiva per negare una visione lineare e un consumo integrale delle proprie opere, non solo nei cortometraggi degli anni Settanta, ma già in alcune sperimentazioni teatrali precedenti. Nel 1969 fonda la Tenjo Sajiki, una compagnia teatrale con sede a Tokyo il cui nome rimanda al titolo giapponese di Les Enfants du paradis (1945), il film di Marcel Carné conosciuto in Italia come Amanti perduti. Il secondo spettacolo della compagnia, Garigari hakase no hanzai, instaura un particolare rapporto con il suo pubblico, tanto da essere il primo spettacolo per cui Terayama usa il termine di “teatro partecipato”. Scrive Eugenio De Angelis:
La distinzione tra palco e platea viene annullata, il rapporto tra attori e spettatori reso paritario e l’edificio-teatro diventa un grande set diviso da tende che rappresentano le varie stanze di una casa. Gli spettatori – che Terayama in questo caso definisce “visitatori” – vengono separati e fatti sedere nelle diverse stanze, dove le scene si svolgono simultaneamente in modo tale che il pubblico abbia solo una visione parziale dell’opera, come – sembra dire l’autore – l’essere umano la ha della propria vita. In questo modo Terayama traduce sul palco la sua concezione della Storia, la quale comprende anche gli avvenimenti che non sono accaduti, facendo intuire allo spettatore che le scene che non riesce a vedere esistono e devono essere ricostruite attraverso la propria immaginazione.
La scoperta del teatro di Jerzy Grotoswki porterà Terayama a insistere su sperimentazioni che abbattono ogni barriera percepita tra gli attori e il pubblico (nello spettacolo appena descritto non erano previsti posti a sedere). Su questa direzione, molti spettacoli successivi si caratterizzano per un abbandono degli spazi teatrali convenzionali. I suoi street play (o city drama) riversano dozzine di attori per le strade, mettendo a soqquadro interi quartieri di Tokyo e catturando l’attenzione di centinaia di passanti. Gli attori di Terayama spingono il pubblico a prendere parte in modo attivo all’evento, ora attirandolo con performance divertenti e interattive, ora provocandolo con insulti e gesti irruenti. Non bisogna confondere lo street play con il comune teatro di strada: per Terayama si tratta di inserire il germe del teatro nella realtà quotidiana, far detonare l’equilibrio urbano e abbattere ogni confine tra la vita e le sue rappresentazioni.
L’ultimo street play della Tenjo Sajiki è il monumentale Nokku, che ha luogo tra il 19 e il 20 aprile 1975 – per una durata di circa trenta ore – e che si sviluppa in trentatré differenti location nel distretto di Suginami. In due giorni vengono coinvolte più di mille persone, provocando incidenti e portando in molti casi a richiedere l’intervento della polizia. Gli spettatori vengono bendati e trasportati in autobus, gli vengono consegnate delle mappe e possono così spostarsi da un sito all’altro nel corso dell’evento. Il pubblico segue gli attori in strada, verso stabilimenti balneari, parchi, presunte sale operatorie, e chiunque può offrirsi volontario per essere inscatolato, trasportato e poi abbandonato in giro per Tokyo. Ma lo spettacolo si dispiega su un territorio troppo vasto e le performance hanno luogo simultaneamente in punti diversi. La mole di performance a cui prendere parte è tanto ricca e si svolge in un periodo così esteso che a nessuno è concesso di vivere integralmente l’esperienza di Nokku.
Le sfumature rivoluzionarie di Nokku sono da ricercare proprio nella parzialità della fruizione: lo spettatore si ritrova immerso in un’opera che non si può dire in alcun modo conclusa, ma diramata e aperta come la vita urbana. L’atto di teatralizzare la vita urbana e quello di urbanizzare il teatro sono per Terayama il più grande attacco alla linearità di rappresentazione e di lettura. È chiaro a questo punto come nell’arte di Shūji Terayama ci siano sempre cose non viste, gesti e immagini che vengono negati e di cui lo spettatore registra la perdita. Quella che l’autore giapponese mette in campo non è una provocazione sterile, che si compiace della semplice frustrazione dei suoi spettatori-voyeur, ma piuttosto un richiamo serio e violento alla coscienza di chi guarda. Terayama non accetta l’idea di un consumo spettacolare automatizzato, l’idea di un pubblico passivo che possa limitarsi a fruire un flusso di immagini o gesti. Le sue produzioni fanno appello all’attenzione dello spettatore, che in un flusso intenso e frammentario di stimoli visivi e sonori è richiamato a completare e ricostruire pezzi di trama o singole immagini. La negazione, in Terayama, si fa momento di incontro. Ed è solo l’incontro con il pubblico a permettere il compimento ultimo dell’opera.
Per scuotere la massa di critici, cinefili o semplici curiosi che si avvicinano alla sua opera, Terayama sviluppa strategie sempre più sofisticate con cui mettere in luce la vulnerabilità di chi guarda. Il regista sembra indicare che in sala (o in strada) non ci si debba mai limitare a guardare, ma che si debba anzitutto sentire e partecipare alla rappresentazione per mezzo di tutti i sensi, in una posizione non più favorevole solo alla visione e all’ascolto, ma profondamente immersiva e interattiva. Per svegliare lo spettatore dall’automatismo dei suoi riti di consumo è però necessario scardinare le sue convinzioni in un’ottica terroristica.
Terayama vuole restituire l’idea di poter fare qualsiasi cosa del suo pubblico e non sembra porsi limiti al riguardo: per la versione presentata ad Amsterdam del suo spettacolo Ahen sensō, il pubblico è invitato a bere una zuppa nella quale è stato segretamente sciolto del sonnifero, in modo che la concretezza della rappresentazione si possa mescolare con le immagini di un sogno. In ambito cinematografico, invece, gli assalti più convincenti sono quelli di due cortometraggi realizzati a metà degli anni Settanta: Laura e The Trial. Nel primo caso si tratta di un assalto al pubblico. Nel secondo di un assalto allo schermo.
In Laura tre ragazze – di cui una vestita in modo particolarmente provocante – si rivolgono direttamente al pubblico in sala. Lo guardano negli occhi, lo indicano, lo insultano. E questo di per sé non rappresenta alcuna novità, nemmeno per il cinema di Terayama (Throw Away your Books, Rally in the Streets cominciava allo stesso modo). Ma i personaggi sullo schermo iniziano a prendere di mira uno spettatore in particolare: “Tu là, due file a partire da davanti! Con cosa stai armeggiando? Siamo proprio davanti a te! Ti vediamo benissimo, smettila. Perché non vieni qui?” E dopo ripetute provocazioni, lo spettatore fa magicamente la sua comparsa in scena.
Terayama proietta il film su uno schermo che presenta dei tagli verticali pressoché impossibili da notare. Durante la proiezione un suo collaboratore, Henrikku Morisaki, si alza dalla propria poltroncina in seconda fila, si avvicina allo schermo e vi entra per intero. Grazie a un taglio di montaggio, vediamo Morisaki cadere in scena, ai piedi delle tre donne. L’uomo viene svestito, molestato, schiaffeggiato. E, dopo le umiliazioni ricevute, è rigettato fuori dal film, completamente nudo.
La messa in ridicolo dell’uomo scatena degli effetti volutamente comici nella platea, ma al tempo stesso insinua con forza l’idea del film come oggetto potenzialmente pericoloso. Il cinema come luogo tutt’altro che sicuro. Nel fare questo, Terayama sembra riprendere l’idea artaudiana di crudeltà: “Lo spettatore andrà a teatro come va dal chirurgo o dal dentista, con lo stesso stato d’animo, pensando cioè che non morirà per questo, ma che sta per fare una cosa grave e dalla quale non uscirà integro".
Il film successivo è The Trial, che lega il tema del desiderio al carattere freddo e pungente del metallo: un signore martella un chiodo sul pavimento e fa godere una donna stesa sul letto; un poliziotto cerca di ripulire una parete bianca da tutti i chiodi che la puntellano; un uomo senza vestiti porta sulla sua schiena il peso di un enorme chiodo; delle ragazze succhiano e leccano un grosso chiodo mosse da profondo desiderio. Le immagini di Terayama sembrano conficcare nella mente dello spettatore l’idea di una penetrazione dai forti connotati sessuali e politici. Il gesto di segnare una parete come atto di affermazione e di rivolta, per segnare la dimensione civile e imporre il puro piacere. Il chiodo come fallica chiave di volta per accedere a un mondo di desiderio e al contempo come croce, dannazione per tutti gli uomini – padroni e insieme schiavi delle proprie pulsioni.
La grande intuizione del film è da ricercare anche stavolta nel rapporto che instaura con il pubblico. Durante l’ultima apparizione dell’uomo nudo che trascina l’enorme chiodo/croce, i fotogrammi si dissolvono nel bianco. La musica di J. A. Seazer continua in totale libertà, mentre sullo schermo seguono quasi dieci minuti di pura astrazione. Nel frattempo i collaboratori di Terayama invitano il pubblico ad incidere a loro volta il corpo della proiezione. “Un’esperienza resa possibile dal fatto che lo schermo è composto da una tavola di legno verniciata di bianco, davanti alla quale è stata lasciata una cesta di chiodi e martelli a inizio proiezione.”
Il suono duro e ridondante di una mano che martella va a sostituire qualsiasi dialogo, in un film completamente muto che va completato in silenzio. Per Terayama si tratta anzitutto di affermare la propria cinefilia: “Questa è l’espressione del mio amore per il cinema. Amo lo schermo così tanto che voglio ficcarci un chiodo dentro”. Invitare il pubblico a violare lo schermo, non per abbatterlo, ma per penetrarlo sessualmente. Se la proiezione di Laura richiedeva la partecipazione di un collaboratore/complice, quella di The Trial chiama all'azione tutto il pubblico in sala e sancisce il compimento dell’opera grazie alla partecipazione attiva degli spettatori: un’esperienza che abbandona i termini di una semplice visione e acquista i toni di un rito orgiastico e liberatorio.
È ormai chiaro come negazione e penetrazione siano idee chiave nell’arte di Shūji Terayama, alle quali bisogna però legare un’altra suggestione fondamentale: la cancellazione. I personaggi di Terayama cancellano di tutto. I bambini di Emperor Tomato Ketchup tracciano delle grosse X sulle immagini di Marx, Mao, Dostoevskij, Machiavelli e molti altri. In An Attempt to Describe the Measure of a Man un uomo vestito di nero cancella, ritaglia e accartoccia le immagini di una donna proiettate su uno schermo. Nel cortometraggio The Eraser una mano entra in campo per passare una gomma sulle immagini malinconiche del film, che si consumano davanti ai nostri occhi come ricordi persi nella memoria. La protagonista di The Woman with Two Heads cerca di cancellare dalla parete l’ombra dell’uomo che l’ha posseduta. Sarà proprio l’attenzione verso la cancellazione delle immagini, nella seconda metà degli anni Settanta, a direzionare la sperimentazione tecnica di Terayama sulle possibilità offerte dal blue screen. Nei film di questo periodo il corpo dell’immagine è particolarmente fragile, esposto com’è a qualsiasi ritocco virtuale (si veda Smallpox Tale, del 1975).
Immagini negate, schermi violati, scene di cancellazione: difficile non vedere in questa insistenza sull’annullamento un atto di resistenza alla propria morte. In fondo, come si vede in Video Letter (del 1983, realizzato con il poeta Shuntarō Tanikawa), lo stesso Terayama portava sulla propria pelle i segni più indelebili. L’insistenza con cui il regista è intervenuto sul corpo dell’immagine filmica assume quindi il tono di una ripetuta sublimazione: il corpo segnato più a fondo è sempre stato il suo, quello di Terayama – corroso dalla cirrosi epatica, sporco di ferite, macchiato di morte. Sono gli unici segni che non ha saputo cancellare.
Sono nato, un cadavere imperfetto
decenni dopo
diventerò un cadavere perfetto.
SHŪJI TERAYAMA (1935 – 1983)
TR-85
29.07.2023
In poco più di vent’anni di carriera, Shūji Terayama è stato in grado di abbattere ogni limite tra cinema e teatro, tra vita e palcoscenico, tra realtà e finzione. La versatilità del suo genio è impressionante: regista, sceneggiatore e drammaturgo, ma anche romanziere, poeta, filosofo, pugile, critico sportivo. La sua produzione è caratterizzata da eccessi di ogni tipo: nudità insistita di uomini, donne e bambini, violenza gratuita e senza controllo, incitamento alla rivolta e alla distruzione. Terayama non si limita a raccontare certi eccessi, ma li porta in scena in modo concreto, spingendo i propri attori a scagliarsi contro il pubblico, provocando risse, incidenti, denunce. Il regista chiave dell’avanguardia giapponese è un guardone schedato, un giocatore d’azzardo compulsivo, uno scriteriato che si scaverà la fossa da solo per non aver ascoltato gli ordini dei medici. Ma anche un’artista dall’approccio rivoluzionario, un grande difensore della libertà artistica, un uomo di incredibile sensibilità poetica.
Non è dunque facile addentrarsi fino al cuore della sua produzione, perché questa è tanto sterminata quanto varia, rinnovata di continuo dall’incontro di media, tecniche e temi che si intrecciano in modi inediti e sorprendenti. Senza considerare che la sua opera letteraria resta ad oggi di difficile accesso per un lettore occidentale. Ciò che ci interessa in questa sede è però un carattere specifico del suo cinema. I capolavori per i quali è più ricordato – Pastoral e Throw Away Your Books, Rally in the Streets – e molti suoi cortometraggi degli anni Settanta portano i segni di un gioco insistito con lo spettatore, di un vero e proprio attacco alla sua percezione visiva. Questa breve analisi vuole mettere in luce le qualità anti-spettacolari e le implicazioni concettuali di una delle azioni fondamentali del cinema di Terayama: la violazione dell’immagine.
Per cominciare vale la pena soffermarsi sull’analisi di Butterfly, un cortometraggio che Terayama realizza nel 1974. Questo film di dieci minuti si dispiega su due piani di rappresentazione: nel primo la macchina da presa si addentra in un appartamento colmo di bambole, statue antropomorfe e strani personaggi, soffermandosi su momenti di violenza e cannibalismo; nel secondo delle sagome nere si muovono libere davanti a uno schermo. Questi due piani sono sovrapposti, in modo che le sagome del secondo coprano parzialmente la sequenza di immagini del primo. È come quando, in una sala cinematografica, gli spettatori seduti davanti a noi si alzano all’improvviso, interferendo con la proiezione.
In verità i due piani non sembrano semplicemente sovrapposti, ma interconnessi: l’uno rimanda all’altro. Tra i personaggi del primo, che hanno il volto dipinto di bianco come nel kabuki, uno ha l’occhio destro coperto da una benda. Quando lo vediamo per la prima volta se ne sta seduto su le scale e tiene il cadavere di una farfalla tra le mani. Più tardi, su un suo primo piano, la benda sull’occhio è sostituita da quella stessa farfalla, che scorre su uno spago, ora a coprigli l’occhio ora a svelarlo. E, ancora dopo, la sagoma della farfalla scorre davanti alle immagini dei cannibali, impedendoci di vederle con chiarezza – un insetto senza vita a cui il cinema restituisce il movimento e che abbandona lo schermo grazie alle sue ali morte. Il personaggio dall’occhio coperto è una sorta di guardone che si muove tra le sale della casa a spiare gli strani individui che le abitano.
Più che rappresentare un alter ego del regista, l’uomo sembra riportare tutti i vizi e gli handicap dello spettatore: vorrebbe vedere il più possibile di questo sogno inquietante e colorato, ma non può che averne una visione parziale, come gli spettatori di Terayama sono impossibilitati a vedere con chiarezza ciò che sta al di là delle sagome scure. Non resta che affidarsi all’intuizione e all’immaginazione per completare la visione dello spettacolo (la farfalla che sostituisce la benda potrebbe simboleggiare proprio questo processo mentale). Non solo: l’atto di guardare con un occhio solo – come insegna Stan Brakhage – racchiude il senso del fare cinema, nella misura in cui rimanda allo sguardo monco della cinepresa. In Butterfly c’è anche un certo gusto per la scomposizione e il rimescolamento. L’immagine è scomposta in due piani di rappresentazione che si scambiano associazioni di idee e suggestioni visive, mentre tra le mani dei cannibali in scena si alternano pezzi di carne, gambe di bambole e maschere di plastica: le cose si confondono nelle loro rappresentazioni e la fame acquista il senso di un cannibalismo di immagini.
Terayama si affida all’accumulo di stimoli e alla saturazione visiva per negare una visione lineare e un consumo integrale delle proprie opere, non solo nei cortometraggi degli anni Settanta, ma già in alcune sperimentazioni teatrali precedenti. Nel 1969 fonda la Tenjo Sajiki, una compagnia teatrale con sede a Tokyo il cui nome rimanda al titolo giapponese di Les Enfants du paradis (1945), il film di Marcel Carné conosciuto in Italia come Amanti perduti. Il secondo spettacolo della compagnia, Garigari hakase no hanzai, instaura un particolare rapporto con il suo pubblico, tanto da essere il primo spettacolo per cui Terayama usa il termine di “teatro partecipato”. Scrive Eugenio De Angelis:
La distinzione tra palco e platea viene annullata, il rapporto tra attori e spettatori reso paritario e l’edificio-teatro diventa un grande set diviso da tende che rappresentano le varie stanze di una casa. Gli spettatori – che Terayama in questo caso definisce “visitatori” – vengono separati e fatti sedere nelle diverse stanze, dove le scene si svolgono simultaneamente in modo tale che il pubblico abbia solo una visione parziale dell’opera, come – sembra dire l’autore – l’essere umano la ha della propria vita. In questo modo Terayama traduce sul palco la sua concezione della Storia, la quale comprende anche gli avvenimenti che non sono accaduti, facendo intuire allo spettatore che le scene che non riesce a vedere esistono e devono essere ricostruite attraverso la propria immaginazione.
La scoperta del teatro di Jerzy Grotoswki porterà Terayama a insistere su sperimentazioni che abbattono ogni barriera percepita tra gli attori e il pubblico (nello spettacolo appena descritto non erano previsti posti a sedere). Su questa direzione, molti spettacoli successivi si caratterizzano per un abbandono degli spazi teatrali convenzionali. I suoi street play (o city drama) riversano dozzine di attori per le strade, mettendo a soqquadro interi quartieri di Tokyo e catturando l’attenzione di centinaia di passanti. Gli attori di Terayama spingono il pubblico a prendere parte in modo attivo all’evento, ora attirandolo con performance divertenti e interattive, ora provocandolo con insulti e gesti irruenti. Non bisogna confondere lo street play con il comune teatro di strada: per Terayama si tratta di inserire il germe del teatro nella realtà quotidiana, far detonare l’equilibrio urbano e abbattere ogni confine tra la vita e le sue rappresentazioni.
L’ultimo street play della Tenjo Sajiki è il monumentale Nokku, che ha luogo tra il 19 e il 20 aprile 1975 – per una durata di circa trenta ore – e che si sviluppa in trentatré differenti location nel distretto di Suginami. In due giorni vengono coinvolte più di mille persone, provocando incidenti e portando in molti casi a richiedere l’intervento della polizia. Gli spettatori vengono bendati e trasportati in autobus, gli vengono consegnate delle mappe e possono così spostarsi da un sito all’altro nel corso dell’evento. Il pubblico segue gli attori in strada, verso stabilimenti balneari, parchi, presunte sale operatorie, e chiunque può offrirsi volontario per essere inscatolato, trasportato e poi abbandonato in giro per Tokyo. Ma lo spettacolo si dispiega su un territorio troppo vasto e le performance hanno luogo simultaneamente in punti diversi. La mole di performance a cui prendere parte è tanto ricca e si svolge in un periodo così esteso che a nessuno è concesso di vivere integralmente l’esperienza di Nokku.
Le sfumature rivoluzionarie di Nokku sono da ricercare proprio nella parzialità della fruizione: lo spettatore si ritrova immerso in un’opera che non si può dire in alcun modo conclusa, ma diramata e aperta come la vita urbana. L’atto di teatralizzare la vita urbana e quello di urbanizzare il teatro sono per Terayama il più grande attacco alla linearità di rappresentazione e di lettura. È chiaro a questo punto come nell’arte di Shūji Terayama ci siano sempre cose non viste, gesti e immagini che vengono negati e di cui lo spettatore registra la perdita. Quella che l’autore giapponese mette in campo non è una provocazione sterile, che si compiace della semplice frustrazione dei suoi spettatori-voyeur, ma piuttosto un richiamo serio e violento alla coscienza di chi guarda. Terayama non accetta l’idea di un consumo spettacolare automatizzato, l’idea di un pubblico passivo che possa limitarsi a fruire un flusso di immagini o gesti. Le sue produzioni fanno appello all’attenzione dello spettatore, che in un flusso intenso e frammentario di stimoli visivi e sonori è richiamato a completare e ricostruire pezzi di trama o singole immagini. La negazione, in Terayama, si fa momento di incontro. Ed è solo l’incontro con il pubblico a permettere il compimento ultimo dell’opera.
Per scuotere la massa di critici, cinefili o semplici curiosi che si avvicinano alla sua opera, Terayama sviluppa strategie sempre più sofisticate con cui mettere in luce la vulnerabilità di chi guarda. Il regista sembra indicare che in sala (o in strada) non ci si debba mai limitare a guardare, ma che si debba anzitutto sentire e partecipare alla rappresentazione per mezzo di tutti i sensi, in una posizione non più favorevole solo alla visione e all’ascolto, ma profondamente immersiva e interattiva. Per svegliare lo spettatore dall’automatismo dei suoi riti di consumo è però necessario scardinare le sue convinzioni in un’ottica terroristica.
Terayama vuole restituire l’idea di poter fare qualsiasi cosa del suo pubblico e non sembra porsi limiti al riguardo: per la versione presentata ad Amsterdam del suo spettacolo Ahen sensō, il pubblico è invitato a bere una zuppa nella quale è stato segretamente sciolto del sonnifero, in modo che la concretezza della rappresentazione si possa mescolare con le immagini di un sogno. In ambito cinematografico, invece, gli assalti più convincenti sono quelli di due cortometraggi realizzati a metà degli anni Settanta: Laura e The Trial. Nel primo caso si tratta di un assalto al pubblico. Nel secondo di un assalto allo schermo.
In Laura tre ragazze – di cui una vestita in modo particolarmente provocante – si rivolgono direttamente al pubblico in sala. Lo guardano negli occhi, lo indicano, lo insultano. E questo di per sé non rappresenta alcuna novità, nemmeno per il cinema di Terayama (Throw Away your Books, Rally in the Streets cominciava allo stesso modo). Ma i personaggi sullo schermo iniziano a prendere di mira uno spettatore in particolare: “Tu là, due file a partire da davanti! Con cosa stai armeggiando? Siamo proprio davanti a te! Ti vediamo benissimo, smettila. Perché non vieni qui?” E dopo ripetute provocazioni, lo spettatore fa magicamente la sua comparsa in scena.
Terayama proietta il film su uno schermo che presenta dei tagli verticali pressoché impossibili da notare. Durante la proiezione un suo collaboratore, Henrikku Morisaki, si alza dalla propria poltroncina in seconda fila, si avvicina allo schermo e vi entra per intero. Grazie a un taglio di montaggio, vediamo Morisaki cadere in scena, ai piedi delle tre donne. L’uomo viene svestito, molestato, schiaffeggiato. E, dopo le umiliazioni ricevute, è rigettato fuori dal film, completamente nudo.
La messa in ridicolo dell’uomo scatena degli effetti volutamente comici nella platea, ma al tempo stesso insinua con forza l’idea del film come oggetto potenzialmente pericoloso. Il cinema come luogo tutt’altro che sicuro. Nel fare questo, Terayama sembra riprendere l’idea artaudiana di crudeltà: “Lo spettatore andrà a teatro come va dal chirurgo o dal dentista, con lo stesso stato d’animo, pensando cioè che non morirà per questo, ma che sta per fare una cosa grave e dalla quale non uscirà integro".
Il film successivo è The Trial, che lega il tema del desiderio al carattere freddo e pungente del metallo: un signore martella un chiodo sul pavimento e fa godere una donna stesa sul letto; un poliziotto cerca di ripulire una parete bianca da tutti i chiodi che la puntellano; un uomo senza vestiti porta sulla sua schiena il peso di un enorme chiodo; delle ragazze succhiano e leccano un grosso chiodo mosse da profondo desiderio. Le immagini di Terayama sembrano conficcare nella mente dello spettatore l’idea di una penetrazione dai forti connotati sessuali e politici. Il gesto di segnare una parete come atto di affermazione e di rivolta, per segnare la dimensione civile e imporre il puro piacere. Il chiodo come fallica chiave di volta per accedere a un mondo di desiderio e al contempo come croce, dannazione per tutti gli uomini – padroni e insieme schiavi delle proprie pulsioni.
La grande intuizione del film è da ricercare anche stavolta nel rapporto che instaura con il pubblico. Durante l’ultima apparizione dell’uomo nudo che trascina l’enorme chiodo/croce, i fotogrammi si dissolvono nel bianco. La musica di J. A. Seazer continua in totale libertà, mentre sullo schermo seguono quasi dieci minuti di pura astrazione. Nel frattempo i collaboratori di Terayama invitano il pubblico ad incidere a loro volta il corpo della proiezione. “Un’esperienza resa possibile dal fatto che lo schermo è composto da una tavola di legno verniciata di bianco, davanti alla quale è stata lasciata una cesta di chiodi e martelli a inizio proiezione.”
Il suono duro e ridondante di una mano che martella va a sostituire qualsiasi dialogo, in un film completamente muto che va completato in silenzio. Per Terayama si tratta anzitutto di affermare la propria cinefilia: “Questa è l’espressione del mio amore per il cinema. Amo lo schermo così tanto che voglio ficcarci un chiodo dentro”. Invitare il pubblico a violare lo schermo, non per abbatterlo, ma per penetrarlo sessualmente. Se la proiezione di Laura richiedeva la partecipazione di un collaboratore/complice, quella di The Trial chiama all'azione tutto il pubblico in sala e sancisce il compimento dell’opera grazie alla partecipazione attiva degli spettatori: un’esperienza che abbandona i termini di una semplice visione e acquista i toni di un rito orgiastico e liberatorio.
È ormai chiaro come negazione e penetrazione siano idee chiave nell’arte di Shūji Terayama, alle quali bisogna però legare un’altra suggestione fondamentale: la cancellazione. I personaggi di Terayama cancellano di tutto. I bambini di Emperor Tomato Ketchup tracciano delle grosse X sulle immagini di Marx, Mao, Dostoevskij, Machiavelli e molti altri. In An Attempt to Describe the Measure of a Man un uomo vestito di nero cancella, ritaglia e accartoccia le immagini di una donna proiettate su uno schermo. Nel cortometraggio The Eraser una mano entra in campo per passare una gomma sulle immagini malinconiche del film, che si consumano davanti ai nostri occhi come ricordi persi nella memoria. La protagonista di The Woman with Two Heads cerca di cancellare dalla parete l’ombra dell’uomo che l’ha posseduta. Sarà proprio l’attenzione verso la cancellazione delle immagini, nella seconda metà degli anni Settanta, a direzionare la sperimentazione tecnica di Terayama sulle possibilità offerte dal blue screen. Nei film di questo periodo il corpo dell’immagine è particolarmente fragile, esposto com’è a qualsiasi ritocco virtuale (si veda Smallpox Tale, del 1975).
Immagini negate, schermi violati, scene di cancellazione: difficile non vedere in questa insistenza sull’annullamento un atto di resistenza alla propria morte. In fondo, come si vede in Video Letter (del 1983, realizzato con il poeta Shuntarō Tanikawa), lo stesso Terayama portava sulla propria pelle i segni più indelebili. L’insistenza con cui il regista è intervenuto sul corpo dell’immagine filmica assume quindi il tono di una ripetuta sublimazione: il corpo segnato più a fondo è sempre stato il suo, quello di Terayama – corroso dalla cirrosi epatica, sporco di ferite, macchiato di morte. Sono gli unici segni che non ha saputo cancellare.
Sono nato, un cadavere imperfetto
decenni dopo
diventerò un cadavere perfetto.
SHŪJI TERAYAMA (1935 – 1983)