Ripercorrendo gli elementi che hanno
reso grande il cinema del maestro giapponese,
di Federico Mattioni
TR-83
08.07.2023
C’è una disposizione, un rimando velatamente spirituale nella modalità di piazzamento della cinepresa nei film di Yasujirō Ozu: bassa, statica, eppure librante. Gli interpreti che guardano sul filo dell’obiettivo, poco al di sopra, appena verso sinistra o destra. Questa inquadratura, definita “tatami shot” per via della sua vicinanza ai tappeti giapponesi, offre una prospettiva dal basso verso l’alto. Essa si pone come il richiamo, intimo e riflessivo, di un misticismo paradisiaco. E forse è proprio questo che il cinema di Ozu - il regista giapponese più giapponese di tutti - ha cercato sempre di raffigurare: un paradiso in terra di umana accettazione. Questo elemento rassicura, poiché nell’accettazione non vi è rassegnazione. L’opera di Ozu tratta quasi sempre, almeno dagli anni ‘40 fino al 1962 - anno del suo ultimo film - temi quali i rapporti interpersonali, la prospettiva immediata o lontana di un matrimonio, la separazione dal nucleo familiare, l’elaborazione di un lutto, la conflittualità tra aspirazioni lavorative e doveri affettivi, e i soliti compromessi rassegnati alle regole della società. È solo tramite l’amore, e attraverso una modalità davvero unica di raccontarlo, che il cinema del regista entra nel cuore dello spettatore, che lo elabora interpretandolo per mezzo di quella sua quiete racchiusa, e allo stesso tempo distante, dalla frenesia metropolitana.
Le bevute di sakè nelle taverne giapponesi o un paesaggio che muta forma a secondo delle disposizioni d’animo, sono i tocchi, le magie di un cineasta fuori dagli schemi di quel cinema occidentale da cui ha, tuttavia, imparato molto nel suo periodo di apprendistato degli anni ‘30. Dentro quelle spazialità a cielo aperto, che si posano morbide sul racconto, si respira aria di cinema puro. Storie lineari che procedono secondo dialoghi dell’animo. Da Tarda primavera (1949) in poi, il cinema di Ozu si trasforma e comincia a raccontare le vicende summenzionate, replicando costantemente lo stesso taglio formale. Diventa un cinema di unicità relazionali, profondamente sentimentali. I temi si fanno più seri e adulti da C’era un padre (1942), e maturano definitivamente nel quasi melò Viaggio a Tokyo (1953) - considerato da molti come il più bel film della storia del cinema - fino ad arrivare all’esordio in un film a colori: il bellissimo Fiori d’equinozio (1958). A dire il vero, Ozu, esordendo negli anni ‘20 con una serie di film perduti, ha fatto i conti, almeno negli anni ‘30, con una comicità buffa e malinconica che pone la sua attenzione sui giovani e le loro relazioni con la generazione dei padri. Non è ancora il regista che tutti conosciamo, ma serve per inquadrare meglio il suo percorso.
Per molti Ozu è un realista, ma se si osservano con attenzione i suoi film, ci si accorgerà che non vi è termine meno adeguato per definire la sua opera. Cosa significa poi essere un realista quando si fa cinema? Raccontare la quotidianità, forse? Ma la quotidianità, soprattutto a livello di sentimenti, non può essere una forma di realismo. La soggettività è una matrice solida, seppur ambivalente, dello sguardo personale di un autore. La soggettività, e l’aleatorietà meccanica del mezzo di ripresa, possono offrire una visione dubbia dei rapporti e delle relazioni. Ozu non è un cineasta realista. Ozu è piuttosto un regista che guarda all’introspezione. Un’introspezione mostrata attraverso pennellate di emotività regalate dai volti dei suoi attori, dai loro sguardi e, più precisamente, dalla loro direzionalità. Anche i paesaggi, che tanto hanno da offrire al pubblico, giocano un ruolo fondamentale. Come nel lungometraggio che è un po' la summa della sua filmografia: L’autunno della famiglia Kohayagawa (1962).
In L’autunno della famiglia Kohayagawa i colori si saturano, e il rapporto dell’anziano vedovo con le sue tre figlie è raccontato con meno umorismo del solito. Il quadro d’ambiente è sottilmente malinconico e si evince un ritorno al dramma d’inizio anni ‘40. Con la maturità acquisita durante gli anni ‘50, Ozu è sempre più conscio degli stravolgimenti sociali dovuti al progresso industriale dell’epoca (di fatto la distilleria di sakè di cui è proprietario il protagonista, versa in difficoltà per via della sua arretratezza tecnologica). Simbolicamente esplicite sono le sequenze che mostrano i fumi delle fabbriche e quelle dei corvi appollaiati sui sepolcri, immagini che assumono un carattere premonitore, venendo contemplate con la tipica saggezza orientale e uno sguardo rivolto al futuro di chi rimane. Le luci al neon, che inquadrano gli interni dei locali e i banconi dove si poggiano i bevitori - protagonisti del degno commiato, avvenuto nel 1962, con Il gusto del sakè - sono un leitmotiv del cinema di Ozu al pari delle abitazioni di famiglia e, soprattutto, dei treni (Viaggio a Tokyo ne è pieno) che, con il loro movimento, squarciano la placida composizione del paesaggio. L’andare, il venire, il tornare, sono azioni perpetue nei film del cineasta, e scandiscono, quasi sempre, promesse di matrimonio, obiettivi tra coniugi in crisi o consorti da individuare. Non è un paese per scapoli, si potrebbe parafrasare, eppure ci sono molti vedovi o vedove tra i personaggi ozuiani, basti pensare allo stesso padre della famiglia Kohayagawa. C’è l’accettazione della vecchiaia senza la sua conseguente rassegnazione.
Ma Ozu non è stato solo un sublime narratore di storie crepuscolari, infatti, per inquadrare al meglio l’occhio cinematografico del maestro giapponese, è bene guardare anche ai suoi esordi. Sono nato, ma... (1932), il suo primo successo, venne realizzato con una produzione che, all’epoca, puntava ad adattare il modello statunitense al cinema giapponese. Protagonisti sono due fratelli, al centro di una serie di marachelle da bulli della classe, che arriveranno a compiere uno sciopero della fame per protestare contro il padre che, sul posto di lavoro, si fa sottomettere dai suoi superiori. Un film che si apre come una commedia tendente alle gag comiche tipiche dell’era del muto, ma che pian piano evolve in una matura riflessione sulle strutture sociali. Alcuni elementi di quest’opera verranno poi ripresi, e attualizzati, in Buon giorno (1959), film che si concentra sul “riflesso” del consumismo e che rappresenta una delle ultime sei pellicole (a colori) di Ozu. In Sono nato, ma… lo sguardo del regista comincia ad essere posato, anche se non vi è contenuta dentro quella riflessività che diverrà evidente nel corso degli anni ‘40. È però proprio dai film di maggior successo degli anni ‘30 che Ozu comincia a sottolineare, anche nelle interviste, la sua allergia cronica per le dissolvenze e tutto quel “tecnicismo” che toglie respiro all’atmosfera. Il cineasta critica un certo tipo di cinema americano tutto incentrato sul racconto, e non le manda a dire a chi, pur analizzando film, proprio non riesce a guardare oltre la narrazione e ad apprezzare un cinema di atmosfera, come il suo.
Ha sempre preferito, quindi, gli stacchi tradizionali, la semplicità lineare del racconto, la spoliazione da tutto ciò che è tecnica, artificio. Non a caso Ozu si professa un autore controcorrente, lontano da quella “grammatica del cinema” che intrappola i film dentro dei canoni di stampo accademico. A tal proposito il regista disse: “Non credo che nel cinema esista una grammatica. Ciò che viene chiamata grammatica in realtà non lo è in senso stretto, mi sento di dire che non ci si deve preoccupare di attenersi ad essa. Si parla di queste cose come se fossero scontate per la messa in scena. Per esempio: si dice che quando si gira una scena in cui vi sono un uomo e una donna che stanno conversando faccia a faccia, la macchina da presa, nel riprenderli alternatamente, non debba mai superare la linea che unisce i loro sguardi, rimanendo, in questo modo, sempre da un parte o dall'altra di essa. Io, invece, riprendo questa scena e mostrando prima l’uomo che guarda verso sinistra, e poi anche la donna che guarda verso sinistra, farò sentire gli spettatori istintivamente presi in parte dal dialogo”. Una dichiarazione di forte autonomia iconoclasta. Gli interpreti dei suoi film, guardando sul filo della macchina da presa, ci rendono parte del dialogo grazie agli sguardi che dirigono verso di noi.
Figlio unico (1936), il primo lavoro sonoro di Ozu, è il film che meglio inquadra la povertà, in termini di messinscena, del cineasta. Seguendo la toccante vicenda di una madre e di un figlio, il film si accosta al genere melodrammatico con largo anticipo rispetto alle opere più mature e compiute degli anni ‘50. Figlio unico è una pellicola che, con sincera commozione, ci mostra una metropoli affollata e affannata - non a caso l’accompagnamento sonoro è costantemente marcato dal suono di dei martelli che scandiscono il ritmo di un tempo infernale - abitata da un'umanità insoddisfatta e alla perenne ricerca di spazi aperti, serenità, e comprensione reciproca. L’osservazione del ciclico susseguirsi delle stagioni della vita, e la rappresentazione dei valori familiari, sono ingredienti imprescindibili nella poetica del cineasta. Questi elementi trovano in Fratelli e sorelle della famiglia Toda (1941) il loro apice. La pellicola è, allo stesso tempo, il ritratto di un'epoca e una sorta di “manifesto” delle tematiche che Ozu tratterà nella seconda parte della sua carriera. Inoltre il lungometraggio, calmo e riflessivo, rientra in una serie di opere sofferte - quelle dei primi anni ‘40 - e chiuse in se stesse, dove il conflitto mondiale, allora in corso, viene solo lievemente accennato.
Anche C’era un padre (1942), un dramma turgido e composto, condivide con il precedente lavoro i primi segni di quella “placida trascendenza” che invaderà la filmografia del regista nel decennio successivo. Si tratta di un film che è certamente utile per constatare la maturità espressiva di un autore che sta decidendo di andare verso una direzione ben precisa: quella di descrivere un mondo in progresso, protettore dei suoi ideali nonostante i cambiamenti che smuovono le certezze acquisite. Una visione che, da Tarda primavera (1949) e Il tempo del raccolto del grano (1951), diverrà un vero e proprio marchio di fabbrica.
Una figura che fa la sua comparsa proprio sul set di Tarda primavera, e che giocherà un ruolo fondamentale nella seconda parte dell’opera di Ozu - permettendo il definitivo sviluppo di tutti quegli elementi drammaturgici per cui il regista, ad oggi, è maggiormente ricordato - è quella del fido sceneggiatore Kōgo Noda. Noda arricchisce i caratteri dei personaggi ozuiani di un nuovo stato d’animo: l’aspirazione. Aspirare a metter su famiglia, aspirare a rifiutare un matrimonio combinato o aspirare a trovare una posizione lavorativa soddisfacente, sono le molteplici variazioni di un sentimento che, pian piano, diviene parte integrante del racconto. Inoltre si capisce che, a fare la differenza ogni volta, è il tono con cui si sceglie di raccontare queste conflittualità.
Racconti di primavere ed estati, di autunni e giusto di timidi accenni alla stagione invernale. Il regista preferisce di fatto le stagioni di mezzo, quelle in cui, come nei suoi film, tutto muta. Tarda primavera inquadra piuttosto bene sia la disgregazione familiare che i tentativi a favore di una sua ricomposizione, compiendo il primo passo verso una “direzione tematica” che prenderà sempre più il sopravvento, e che raggiungerà il suo apice in Tardo Autunno (1960) e Il gusto del sakè (1962) - lungometraggi con cui Ozu si congederà dal cinema. Al centro di Tarda Primavera ci sono i sentimenti che intercorrono tra un padre ed una figlia, Shukichi e Noriko. Il loro è un rapporto segnato da una serie di blocchi emotivi: lui è orientato a trovarsi una nuova moglie per persuadere la figlia a sposarsi, mentre lei non ha nessuna intenzione di farlo, nonostante le pressioni della zia Masa. C’è un momento estremamente significativo di questo rapporto: una scena in cui padre e figlia sembrano rincorrersi da una parte all’altra della casa e, ad ogni incrocio - che avvenga in una stanza o nell’altra - le parole che si scambiano escono fuori smozzicate, troncate dall’emotività, in linea con gli ambienti spogli che vengono mostrati.
Shukichi e Noriko non riescono mai ad esprimersi compiutamente. Il loro mondo interiore ha il sopravvento su quello esteriore, ed è qui che Ozu sale in cattedra. Nonostante i due personaggi parlino e riflettano tra loro, non riescono mai a far emergere completamente i loro punti di vista. Molto di ciò che vorrebbero dirsi resta ancorato alla loro interiorità, un’interiorità che il cineasta decide di esprimere attraverso l’ambientazione. Gli interni la fanno da padrone, ma gli esterni aprono ad ulteriori nuovi “scenari interiori”. Sono la forza, l’alchimia segreta di uno sguardo indagatore dei tumulti d’animo. Sono la cifra poetica del suo universo celestiale. Per il regista, lo scorcio di una gita in bicicletta sul lungo mare, vale più di mille parole.
Il tempo del raccolto del grano compie un ulteriore salto verso l’indipendenza, mentale ed emotiva, di una donna - che porta nuovamente il nome di Noriko - fieramente determinata a non entrare nella logica del compromesso. La libertà di pensiero e di azione è fondamentale. Per lei, nonostante le pressioni familiari affinché si sposi nell’ennesimo matrimonio combinato, la sua scelta di rimanere sola, e in pace con se stessa, sembra l’unica opzione possibile. Il tutto osservato durante la stagione della raccolta del grano di una civiltà patriarcale contadina - sospesa tra modernità e tradizione - destinata a fermarsi nel tempo per colpa della sua mancanza di comprensione verso donne pronte a riscattarsi dalla loro condizione. Non a caso, le figure femminili sono sempre quelle che assistono, che prendono decisioni importanti, e le cui emozioni vengono “riflesse” dal paesaggio.
In Viaggio a Tokyo (1953), il lungometraggio di Ozu più conosciuto in Occidente, si suggella il tema della frattura tra la generazione passata e quella presente, l’insanabile distanza tra quel senso di protezione genitoriale e il desiderio di autonomia e indipendenza dei figli. L’azione che accompagna questo grande film si struttura sul lungo pellegrinaggio che i protagonisti compiono dalla provincia fino alla città. L’immagine dei due anziani genitori, seduti su un muretto del Parco di Ueno, è rimasta impressa nella memoria cinefila. Sono due figure quasi totemiche che, come in uno splendido quadro, ci comunicano il bisogno meditativo di una presenza da individuare fra le linee di un meraviglioso paesaggio quasi astratto.
Pare che il soggetto di Viaggio a Tokyo sia stato ispirato, in maniera libera - dato che lo sceneggiatore Noda non aveva neanche visto il film - da Cupo tramonto (1937) di Leo McCarey. Attraverso l’osservazione del rapporto tra una coppia di genitori e i loro figli, Ozu riesce a delineare, con estrema perfezione, le incomprensioni e le mancanze dei legami umani. Il rapporto tra i familiari, però, non assume mai la forma di un conflitto aperto, e la comunicazione procede per flebili confessioni a mezza bocca. In Viaggio a Tokyo è espressa tutta l’umanità, pura e incontaminata, della poetica del suo autore. Quello che viene descritto è, in fin dei conti, l’inevitabile passaggio da una società di stampo feudale a una capitalistica. I figli si allontanano dai padri e dalle madri per il lavoro o a causa della mutevolezza dei sentimenti. Tutti i fenomeni terreni hanno carattere effimero, tema portante della filmografia ozuiana.
Con il passare degli anni, la critica giapponese tacciò Ozu di accademismo e mancanza di modernizzazione, ma il regista, nonostante tutto, rimase sempre intenzionato a continuare sulla sua rotta. Non a caso, commentando proprio questo fatto, affermò: “ …se è vero che nelle cose futili seguo i capricci e le mode, e nelle cose importanti seguo la morale, in arte seguo me stesso”. Questa è la ragione per cui non volle mai scendere a compromessi.
“Se i miei film costituissero il trenta o quaranta per cento del totale della produzione, potrebbero seriamente corrompere il cinema giapponese. Ma dal momento che essi sono meno dell’un per cento, non penso si tratti di un problema serio. Tutti mi dicono che sto sbagliando, che sono indietro coi tempi, ma lasciatemi solo fare quel che voglio”, chiosa il cineasta con una nota polemica. In alcuni film di metà anni Cinquanta, Ozu, probabilmente rattristato dalle opinioni dell’intellighenzia pubblica, scade nei cliché del melodramma. Uno scatto ultimo lo si può realmente percepire proprio dalla scelta di realizzare i suoi film a colori. Questa serie di pellicole si apre con Fiori d’equinozio (1958), un canto del cigno della sua poetica che sancisce anche il ritorno alla commedia, una mediazione esemplare tra il suo cinema degli anni ‘30 e quello maturo e profondo degli anni ‘50. Abbiamo di nuovo un padre che tenta goffamente d’imporre l’uomo giusto alla propria figlia, finendo per soccombere, moralmente, alla predominanza del carattere femminile. Al centro del film vi è quella nostalgia per il passato che mal si adatta con la frenesia dei tempi moderni. L’utilizzo del colore, inoltre - suddiviso astutamente tra dominanti e armonici di tinte prevalentemente rosse - forma stratagemmi pittorici metatestuali, volti ad indagare i significati subliminali degli sguardi che si posano sugli oggetti situati all’interno delle stanze (come il bollitore rosso di casa Hirayama, il telefono o una maglietta stesa).
Una variazione rispetto alla filmografia del regista, sta nel finale, attardato, meditato e riflessivo, di Fiori d’equinozio. Una conclusione che sembra dirci che, dopotutto, bisogna accettare le scelte dei propri figli, e dove sembra esservi racchiuso tutto il percorso autoriale di Ozu. Perché in fondo “..i critici e i registi sono come il sakè: più invecchiano e più sono buoni”. La visione caustica, amara, e saltuariamente caratterizzata da incursioni nella commedia del suo ultimo film del 1962, ce lo mostra davvero come sono gli anziani bevitori di sakè: solitari, distaccati, ma non ancora distrutti dalla frattura con i loro figli, o meglio, le loro figlie. Uno sguardo intriso di nostalgia, caratterizzato da numerose ellissi, e in una modalità sempre più statica. La macchina da presa sembra quasi fermarsi, poggiandosi su quelle ultime, e indimenticabili, inquadrature d’interni ormai vuoti.
Ripercorrendo gli elementi che hanno
reso grande il cinema del maestro giapponese,
di Federico Mattioni
TR-83
08.07.2023
C’è una disposizione, un rimando velatamente spirituale nella modalità di piazzamento della cinepresa nei film di Yasujirō Ozu: bassa, statica, eppure librante. Gli interpreti che guardano sul filo dell’obiettivo, poco al di sopra, appena verso sinistra o destra. Questa inquadratura, definita “tatami shot” per via della sua vicinanza ai tappeti giapponesi, offre una prospettiva dal basso verso l’alto. Essa si pone come il richiamo, intimo e riflessivo, di un misticismo paradisiaco. E forse è proprio questo che il cinema di Ozu - il regista giapponese più giapponese di tutti - ha cercato sempre di raffigurare: un paradiso in terra di umana accettazione. Questo elemento rassicura, poiché nell’accettazione non vi è rassegnazione. L’opera di Ozu tratta quasi sempre, almeno dagli anni ‘40 fino al 1962 - anno del suo ultimo film - temi quali i rapporti interpersonali, la prospettiva immediata o lontana di un matrimonio, la separazione dal nucleo familiare, l’elaborazione di un lutto, la conflittualità tra aspirazioni lavorative e doveri affettivi, e i soliti compromessi rassegnati alle regole della società. È solo tramite l’amore, e attraverso una modalità davvero unica di raccontarlo, che il cinema del regista entra nel cuore dello spettatore, che lo elabora interpretandolo per mezzo di quella sua quiete racchiusa, e allo stesso tempo distante, dalla frenesia metropolitana.
Le bevute di sakè nelle taverne giapponesi o un paesaggio che muta forma a secondo delle disposizioni d’animo, sono i tocchi, le magie di un cineasta fuori dagli schemi di quel cinema occidentale da cui ha, tuttavia, imparato molto nel suo periodo di apprendistato degli anni ‘30. Dentro quelle spazialità a cielo aperto, che si posano morbide sul racconto, si respira aria di cinema puro. Storie lineari che procedono secondo dialoghi dell’animo. Da Tarda primavera (1949) in poi, il cinema di Ozu si trasforma e comincia a raccontare le vicende summenzionate, replicando costantemente lo stesso taglio formale. Diventa un cinema di unicità relazionali, profondamente sentimentali. I temi si fanno più seri e adulti da C’era un padre (1942), e maturano definitivamente nel quasi melò Viaggio a Tokyo (1953) - considerato da molti come il più bel film della storia del cinema - fino ad arrivare all’esordio in un film a colori: il bellissimo Fiori d’equinozio (1958). A dire il vero, Ozu, esordendo negli anni ‘20 con una serie di film perduti, ha fatto i conti, almeno negli anni ‘30, con una comicità buffa e malinconica che pone la sua attenzione sui giovani e le loro relazioni con la generazione dei padri. Non è ancora il regista che tutti conosciamo, ma serve per inquadrare meglio il suo percorso.
Per molti Ozu è un realista, ma se si osservano con attenzione i suoi film, ci si accorgerà che non vi è termine meno adeguato per definire la sua opera. Cosa significa poi essere un realista quando si fa cinema? Raccontare la quotidianità, forse? Ma la quotidianità, soprattutto a livello di sentimenti, non può essere una forma di realismo. La soggettività è una matrice solida, seppur ambivalente, dello sguardo personale di un autore. La soggettività, e l’aleatorietà meccanica del mezzo di ripresa, possono offrire una visione dubbia dei rapporti e delle relazioni. Ozu non è un cineasta realista. Ozu è piuttosto un regista che guarda all’introspezione. Un’introspezione mostrata attraverso pennellate di emotività regalate dai volti dei suoi attori, dai loro sguardi e, più precisamente, dalla loro direzionalità. Anche i paesaggi, che tanto hanno da offrire al pubblico, giocano un ruolo fondamentale. Come nel lungometraggio che è un po' la summa della sua filmografia: L’autunno della famiglia Kohayagawa (1962).
In L’autunno della famiglia Kohayagawa i colori si saturano, e il rapporto dell’anziano vedovo con le sue tre figlie è raccontato con meno umorismo del solito. Il quadro d’ambiente è sottilmente malinconico e si evince un ritorno al dramma d’inizio anni ‘40. Con la maturità acquisita durante gli anni ‘50, Ozu è sempre più conscio degli stravolgimenti sociali dovuti al progresso industriale dell’epoca (di fatto la distilleria di sakè di cui è proprietario il protagonista, versa in difficoltà per via della sua arretratezza tecnologica). Simbolicamente esplicite sono le sequenze che mostrano i fumi delle fabbriche e quelle dei corvi appollaiati sui sepolcri, immagini che assumono un carattere premonitore, venendo contemplate con la tipica saggezza orientale e uno sguardo rivolto al futuro di chi rimane. Le luci al neon, che inquadrano gli interni dei locali e i banconi dove si poggiano i bevitori - protagonisti del degno commiato, avvenuto nel 1962, con Il gusto del sakè - sono un leitmotiv del cinema di Ozu al pari delle abitazioni di famiglia e, soprattutto, dei treni (Viaggio a Tokyo ne è pieno) che, con il loro movimento, squarciano la placida composizione del paesaggio. L’andare, il venire, il tornare, sono azioni perpetue nei film del cineasta, e scandiscono, quasi sempre, promesse di matrimonio, obiettivi tra coniugi in crisi o consorti da individuare. Non è un paese per scapoli, si potrebbe parafrasare, eppure ci sono molti vedovi o vedove tra i personaggi ozuiani, basti pensare allo stesso padre della famiglia Kohayagawa. C’è l’accettazione della vecchiaia senza la sua conseguente rassegnazione.
Ma Ozu non è stato solo un sublime narratore di storie crepuscolari, infatti, per inquadrare al meglio l’occhio cinematografico del maestro giapponese, è bene guardare anche ai suoi esordi. Sono nato, ma... (1932), il suo primo successo, venne realizzato con una produzione che, all’epoca, puntava ad adattare il modello statunitense al cinema giapponese. Protagonisti sono due fratelli, al centro di una serie di marachelle da bulli della classe, che arriveranno a compiere uno sciopero della fame per protestare contro il padre che, sul posto di lavoro, si fa sottomettere dai suoi superiori. Un film che si apre come una commedia tendente alle gag comiche tipiche dell’era del muto, ma che pian piano evolve in una matura riflessione sulle strutture sociali. Alcuni elementi di quest’opera verranno poi ripresi, e attualizzati, in Buon giorno (1959), film che si concentra sul “riflesso” del consumismo e che rappresenta una delle ultime sei pellicole (a colori) di Ozu. In Sono nato, ma… lo sguardo del regista comincia ad essere posato, anche se non vi è contenuta dentro quella riflessività che diverrà evidente nel corso degli anni ‘40. È però proprio dai film di maggior successo degli anni ‘30 che Ozu comincia a sottolineare, anche nelle interviste, la sua allergia cronica per le dissolvenze e tutto quel “tecnicismo” che toglie respiro all’atmosfera. Il cineasta critica un certo tipo di cinema americano tutto incentrato sul racconto, e non le manda a dire a chi, pur analizzando film, proprio non riesce a guardare oltre la narrazione e ad apprezzare un cinema di atmosfera, come il suo.
Ha sempre preferito, quindi, gli stacchi tradizionali, la semplicità lineare del racconto, la spoliazione da tutto ciò che è tecnica, artificio. Non a caso Ozu si professa un autore controcorrente, lontano da quella “grammatica del cinema” che intrappola i film dentro dei canoni di stampo accademico. A tal proposito il regista disse: “Non credo che nel cinema esista una grammatica. Ciò che viene chiamata grammatica in realtà non lo è in senso stretto, mi sento di dire che non ci si deve preoccupare di attenersi ad essa. Si parla di queste cose come se fossero scontate per la messa in scena. Per esempio: si dice che quando si gira una scena in cui vi sono un uomo e una donna che stanno conversando faccia a faccia, la macchina da presa, nel riprenderli alternatamente, non debba mai superare la linea che unisce i loro sguardi, rimanendo, in questo modo, sempre da un parte o dall'altra di essa. Io, invece, riprendo questa scena e mostrando prima l’uomo che guarda verso sinistra, e poi anche la donna che guarda verso sinistra, farò sentire gli spettatori istintivamente presi in parte dal dialogo”. Una dichiarazione di forte autonomia iconoclasta. Gli interpreti dei suoi film, guardando sul filo della macchina da presa, ci rendono parte del dialogo grazie agli sguardi che dirigono verso di noi.
Figlio unico (1936), il primo lavoro sonoro di Ozu, è il film che meglio inquadra la povertà, in termini di messinscena, del cineasta. Seguendo la toccante vicenda di una madre e di un figlio, il film si accosta al genere melodrammatico con largo anticipo rispetto alle opere più mature e compiute degli anni ‘50. Figlio unico è una pellicola che, con sincera commozione, ci mostra una metropoli affollata e affannata - non a caso l’accompagnamento sonoro è costantemente marcato dal suono di dei martelli che scandiscono il ritmo di un tempo infernale - abitata da un'umanità insoddisfatta e alla perenne ricerca di spazi aperti, serenità, e comprensione reciproca. L’osservazione del ciclico susseguirsi delle stagioni della vita, e la rappresentazione dei valori familiari, sono ingredienti imprescindibili nella poetica del cineasta. Questi elementi trovano in Fratelli e sorelle della famiglia Toda (1941) il loro apice. La pellicola è, allo stesso tempo, il ritratto di un'epoca e una sorta di “manifesto” delle tematiche che Ozu tratterà nella seconda parte della sua carriera. Inoltre il lungometraggio, calmo e riflessivo, rientra in una serie di opere sofferte - quelle dei primi anni ‘40 - e chiuse in se stesse, dove il conflitto mondiale, allora in corso, viene solo lievemente accennato.
Anche C’era un padre (1942), un dramma turgido e composto, condivide con il precedente lavoro i primi segni di quella “placida trascendenza” che invaderà la filmografia del regista nel decennio successivo. Si tratta di un film che è certamente utile per constatare la maturità espressiva di un autore che sta decidendo di andare verso una direzione ben precisa: quella di descrivere un mondo in progresso, protettore dei suoi ideali nonostante i cambiamenti che smuovono le certezze acquisite. Una visione che, da Tarda primavera (1949) e Il tempo del raccolto del grano (1951), diverrà un vero e proprio marchio di fabbrica.
Una figura che fa la sua comparsa proprio sul set di Tarda primavera, e che giocherà un ruolo fondamentale nella seconda parte dell’opera di Ozu - permettendo il definitivo sviluppo di tutti quegli elementi drammaturgici per cui il regista, ad oggi, è maggiormente ricordato - è quella del fido sceneggiatore Kōgo Noda. Noda arricchisce i caratteri dei personaggi ozuiani di un nuovo stato d’animo: l’aspirazione. Aspirare a metter su famiglia, aspirare a rifiutare un matrimonio combinato o aspirare a trovare una posizione lavorativa soddisfacente, sono le molteplici variazioni di un sentimento che, pian piano, diviene parte integrante del racconto. Inoltre si capisce che, a fare la differenza ogni volta, è il tono con cui si sceglie di raccontare queste conflittualità.
Racconti di primavere ed estati, di autunni e giusto di timidi accenni alla stagione invernale. Il regista preferisce di fatto le stagioni di mezzo, quelle in cui, come nei suoi film, tutto muta. Tarda primavera inquadra piuttosto bene sia la disgregazione familiare che i tentativi a favore di una sua ricomposizione, compiendo il primo passo verso una “direzione tematica” che prenderà sempre più il sopravvento, e che raggiungerà il suo apice in Tardo Autunno (1960) e Il gusto del sakè (1962) - lungometraggi con cui Ozu si congederà dal cinema. Al centro di Tarda Primavera ci sono i sentimenti che intercorrono tra un padre ed una figlia, Shukichi e Noriko. Il loro è un rapporto segnato da una serie di blocchi emotivi: lui è orientato a trovarsi una nuova moglie per persuadere la figlia a sposarsi, mentre lei non ha nessuna intenzione di farlo, nonostante le pressioni della zia Masa. C’è un momento estremamente significativo di questo rapporto: una scena in cui padre e figlia sembrano rincorrersi da una parte all’altra della casa e, ad ogni incrocio - che avvenga in una stanza o nell’altra - le parole che si scambiano escono fuori smozzicate, troncate dall’emotività, in linea con gli ambienti spogli che vengono mostrati.
Shukichi e Noriko non riescono mai ad esprimersi compiutamente. Il loro mondo interiore ha il sopravvento su quello esteriore, ed è qui che Ozu sale in cattedra. Nonostante i due personaggi parlino e riflettano tra loro, non riescono mai a far emergere completamente i loro punti di vista. Molto di ciò che vorrebbero dirsi resta ancorato alla loro interiorità, un’interiorità che il cineasta decide di esprimere attraverso l’ambientazione. Gli interni la fanno da padrone, ma gli esterni aprono ad ulteriori nuovi “scenari interiori”. Sono la forza, l’alchimia segreta di uno sguardo indagatore dei tumulti d’animo. Sono la cifra poetica del suo universo celestiale. Per il regista, lo scorcio di una gita in bicicletta sul lungo mare, vale più di mille parole.
Il tempo del raccolto del grano compie un ulteriore salto verso l’indipendenza, mentale ed emotiva, di una donna - che porta nuovamente il nome di Noriko - fieramente determinata a non entrare nella logica del compromesso. La libertà di pensiero e di azione è fondamentale. Per lei, nonostante le pressioni familiari affinché si sposi nell’ennesimo matrimonio combinato, la sua scelta di rimanere sola, e in pace con se stessa, sembra l’unica opzione possibile. Il tutto osservato durante la stagione della raccolta del grano di una civiltà patriarcale contadina - sospesa tra modernità e tradizione - destinata a fermarsi nel tempo per colpa della sua mancanza di comprensione verso donne pronte a riscattarsi dalla loro condizione. Non a caso, le figure femminili sono sempre quelle che assistono, che prendono decisioni importanti, e le cui emozioni vengono “riflesse” dal paesaggio.
In Viaggio a Tokyo (1953), il lungometraggio di Ozu più conosciuto in Occidente, si suggella il tema della frattura tra la generazione passata e quella presente, l’insanabile distanza tra quel senso di protezione genitoriale e il desiderio di autonomia e indipendenza dei figli. L’azione che accompagna questo grande film si struttura sul lungo pellegrinaggio che i protagonisti compiono dalla provincia fino alla città. L’immagine dei due anziani genitori, seduti su un muretto del Parco di Ueno, è rimasta impressa nella memoria cinefila. Sono due figure quasi totemiche che, come in uno splendido quadro, ci comunicano il bisogno meditativo di una presenza da individuare fra le linee di un meraviglioso paesaggio quasi astratto.
Pare che il soggetto di Viaggio a Tokyo sia stato ispirato, in maniera libera - dato che lo sceneggiatore Noda non aveva neanche visto il film - da Cupo tramonto (1937) di Leo McCarey. Attraverso l’osservazione del rapporto tra una coppia di genitori e i loro figli, Ozu riesce a delineare, con estrema perfezione, le incomprensioni e le mancanze dei legami umani. Il rapporto tra i familiari, però, non assume mai la forma di un conflitto aperto, e la comunicazione procede per flebili confessioni a mezza bocca. In Viaggio a Tokyo è espressa tutta l’umanità, pura e incontaminata, della poetica del suo autore. Quello che viene descritto è, in fin dei conti, l’inevitabile passaggio da una società di stampo feudale a una capitalistica. I figli si allontanano dai padri e dalle madri per il lavoro o a causa della mutevolezza dei sentimenti. Tutti i fenomeni terreni hanno carattere effimero, tema portante della filmografia ozuiana.
Con il passare degli anni, la critica giapponese tacciò Ozu di accademismo e mancanza di modernizzazione, ma il regista, nonostante tutto, rimase sempre intenzionato a continuare sulla sua rotta. Non a caso, commentando proprio questo fatto, affermò: “ …se è vero che nelle cose futili seguo i capricci e le mode, e nelle cose importanti seguo la morale, in arte seguo me stesso”. Questa è la ragione per cui non volle mai scendere a compromessi.
“Se i miei film costituissero il trenta o quaranta per cento del totale della produzione, potrebbero seriamente corrompere il cinema giapponese. Ma dal momento che essi sono meno dell’un per cento, non penso si tratti di un problema serio. Tutti mi dicono che sto sbagliando, che sono indietro coi tempi, ma lasciatemi solo fare quel che voglio”, chiosa il cineasta con una nota polemica. In alcuni film di metà anni Cinquanta, Ozu, probabilmente rattristato dalle opinioni dell’intellighenzia pubblica, scade nei cliché del melodramma. Uno scatto ultimo lo si può realmente percepire proprio dalla scelta di realizzare i suoi film a colori. Questa serie di pellicole si apre con Fiori d’equinozio (1958), un canto del cigno della sua poetica che sancisce anche il ritorno alla commedia, una mediazione esemplare tra il suo cinema degli anni ‘30 e quello maturo e profondo degli anni ‘50. Abbiamo di nuovo un padre che tenta goffamente d’imporre l’uomo giusto alla propria figlia, finendo per soccombere, moralmente, alla predominanza del carattere femminile. Al centro del film vi è quella nostalgia per il passato che mal si adatta con la frenesia dei tempi moderni. L’utilizzo del colore, inoltre - suddiviso astutamente tra dominanti e armonici di tinte prevalentemente rosse - forma stratagemmi pittorici metatestuali, volti ad indagare i significati subliminali degli sguardi che si posano sugli oggetti situati all’interno delle stanze (come il bollitore rosso di casa Hirayama, il telefono o una maglietta stesa).
Una variazione rispetto alla filmografia del regista, sta nel finale, attardato, meditato e riflessivo, di Fiori d’equinozio. Una conclusione che sembra dirci che, dopotutto, bisogna accettare le scelte dei propri figli, e dove sembra esservi racchiuso tutto il percorso autoriale di Ozu. Perché in fondo “..i critici e i registi sono come il sakè: più invecchiano e più sono buoni”. La visione caustica, amara, e saltuariamente caratterizzata da incursioni nella commedia del suo ultimo film del 1962, ce lo mostra davvero come sono gli anziani bevitori di sakè: solitari, distaccati, ma non ancora distrutti dalla frattura con i loro figli, o meglio, le loro figlie. Uno sguardo intriso di nostalgia, caratterizzato da numerose ellissi, e in una modalità sempre più statica. La macchina da presa sembra quasi fermarsi, poggiandosi su quelle ultime, e indimenticabili, inquadrature d’interni ormai vuoti.