Tra i margini del sacro,
recensione di Jacopo Abballe
RV-21
23.06.2023
Per parlare della miseria come territorio della fame e della violenza, ma anche dei margini e del sacro, è necessario scomodare i nomi di Pasolini e Buñuel, nonché di un maestro dell’indipendente italiano, Nico D’Alessandria. Questo, almeno, relegando l’analisi al solo ambito cinematografico, perché altrimenti il discorso sarebbe ancora più ampio e nondimeno distante dalle reali influenze degli autori. Stiamo parlando dei fratelli D’Innocenzo – che hanno firmato la sceneggiatura di Bassifondi – e il regista Trash Secco, qui alla sua opera prima ma con un retroterra nel mondo del videoclip.
La storia è quella di Romeo e Callisto, due senzatetto che vivono su un margine del Tevere, alle soglie dell’Isola Tiberina. Salgono su, in superficie, per reperire qualche spiccio, qualcosa da mangiare, magari anche una sigaretta o un fondo di birra. Quel che capita, insomma. Insieme sono buffi: uno alto, magro e silenzioso, l’altro basso, grasso e chiacchierone. Ma sanno essere burberi, cinici, violenti. Si vogliono bene e si mandano a quel paese. Uno accetta la vita per quel poco che gli offre (“Non c’ho un cazzo e non mi manca niente!”), l’altro piange lacrime silenziose in attesa di una risposta dai figli. Ma condividono la fame. La paura.
Il cinema di Pasolini è senz’altro il primo collegamento possibile, quello più immediato e scontato. Non solo perché il racconto è focalizzato su due uomini di miseria, personaggi crudi e amorali, o per l’attenzione riservata ai margini della Capitale (sparite le borgate, qualche avanzo dell’immaginario pasoliniano sopravvive sotto la superficie); ma anzitutto per quella che si delinea come un’ostinata ricerca del sacro. Romeo e Callisto vengono raccontati senza retorica o sentimentalismo, inquadrati da subito come due uomini sporchi, maneschi, volgari. Ma emerge al contempo la volontà di elevarli a martiri della vita capitalista, a santi della Roma contemporanea. In una città che pullula di simboli cristiani ma che si è fatta più che mai ostile e immorale.
C’è poi l’influenza del regista indipendente Nico D’Alessandria, che alla fine degli anni Ottanta ha seguito le avventure del tossicodipendente Gerry Sperandini in un racconto a metà strada tra l’indagine documentaria e la narrazione di finzione, segnando uno dei più puri (e riusciti) esempi di cinéma vérité italiano. L’imperatore di Roma (1987) – girato in un bianco e nero mortuario – è ricordato oggi come un cult del cinema underground e la sua influenza si fa qui manifesta, concreta. Quando Romeo e Callisto chiedono qualche spiccio ai passanti per potersi pagare la colazione rimandano immediatamente alla figura di Sperandini, che elemosina cento lire per prendersi “la pizza co’ le patate.”
Quello che però manca rispetto ai modelli di riferimento è uno studio etnografico sufficiente. Prima di scrivere la sceneggiatura di Los olvidados (1950), Luis Buñuel frequentò i quartieri malfamati di Città del Messico ogni giorno per sei mesi: “Mi interessava trovare personaggi e storie” racconta Buñuel in un’intervista. La qualità di questo studio sul campo permise al regista aragonese di portare in scena un racconto fluido e naturalistico, in cui schegge surrealiste si insinuavano in un mondo di vero cinismo. In Bassifondi si ha invece l’impressione che sia la scrittura a modellare personaggi e storie, non viceversa. E questo non sarebbe nemmeno un problema se non si percepisse la pretesa di ritrovare un realismo crudo, in qualche modo autentico. Il film di Trash Secco fallisce proprio nel tentativo di mimetizzare i propri meccanismi narrativi: la scrittura – che pure restituisce degli splendidi dialoghi – è una protagonista invadente, che si concede momenti fini a se stessi (la scena del trip, in cui la regia è altrettanto nulla) e incredibili forzature (quale senzatetto berrebbe del latte scaduto da un anno?). Una sequenza particolarmente ispirata è invece quella finale, che smonta definitivamente il naturalismo del racconto per aprire il film a una realtà altra, più poetica e squisitamente cinematografica. La ricostruzione di una sorta di Pietà subacquea con luci al laser e trucchi volutamente posticci segna il definitivo abbandono di certe influenze, calando l’opera nelle profondità di un’estetica tutta contemporanea.
In verità un ultimo collegamento da tracciare è ancora una volta con Buñuel, per il modo in cui un finale “impossibile” stravolge le coordinate del racconto (Simon del deserto, 1965), ma anche per la presenza ricorrente – nel corso del film – di animali che si fanno protagonisti della scena: un asino, un cane e un topo che simbolicamente e in modo alternato rimandano alle figure di Romeo e Callisto. Eppure una lezione estetica fondamentale di Buñuel, così come di Pasolini, non sembra in alcun modo recuperata: l’uso della musica. In Accattone (1961) l’impiego della Passione secondo Matteo di Bach contribuiva all’identificazione della figura di Citti con quella di un santo; Buñuel, nel periodo francese, era arrivato a un totale rifiuto della musica extradiegietica per non scadere in effetti facilmente melodrammatici e ricercare tutta la forza espressiva nella vitalità delle immagini e nella crudezza dei suoni. La musica, nella sua presenza o assenza, come altro strumento di provocazione. Accattone e Los olvidados hanno fatto rivoltare rispettivamente l’Italia e il Messico. Bassifondi non farà rivoltare nemmeno Trastevere: la musica ne è complice, perché accompagna momenti di dolore e grande interpretazione con effetti puerilmente melò. Nonostante resista l’intenzione, come dichiarato dai D’Innocenzo, di fare un controcampo de La grande bellezza (2013), certe soluzioni formali si riallacciano a un modo di fare cinema tutto sommato classico, canonico. L’opera prima di Trash Secco può contare senz’altro su delle intuizioni vincenti e dei raccordi impressionanti, su una vicenda tragica e al contempo appassionante. Ma c’era da scavare ancora, nel fango e nella storia del cinema. C’era da andare più a fondo.
Tra i margini del sacro,
recensione di Jacopo Abballe
RV-21
23.06.2023
Per parlare della miseria come territorio della fame e della violenza, ma anche dei margini e del sacro, è necessario scomodare i nomi di Pasolini e Buñuel, nonché di un maestro dell’indipendente italiano, Nico D’Alessandria. Questo, almeno, relegando l’analisi al solo ambito cinematografico, perché altrimenti il discorso sarebbe ancora più ampio e nondimeno distante dalle reali influenze degli autori. Stiamo parlando dei fratelli D’Innocenzo – che hanno firmato la sceneggiatura di Bassifondi – e il regista Trash Secco, qui alla sua opera prima ma con un retroterra nel mondo del videoclip.
La storia è quella di Romeo e Callisto, due senzatetto che vivono su un margine del Tevere, alle soglie dell’Isola Tiberina. Salgono su, in superficie, per reperire qualche spiccio, qualcosa da mangiare, magari anche una sigaretta o un fondo di birra. Quel che capita, insomma. Insieme sono buffi: uno alto, magro e silenzioso, l’altro basso, grasso e chiacchierone. Ma sanno essere burberi, cinici, violenti. Si vogliono bene e si mandano a quel paese. Uno accetta la vita per quel poco che gli offre (“Non c’ho un cazzo e non mi manca niente!”), l’altro piange lacrime silenziose in attesa di una risposta dai figli. Ma condividono la fame. La paura.
Il cinema di Pasolini è senz’altro il primo collegamento possibile, quello più immediato e scontato. Non solo perché il racconto è focalizzato su due uomini di miseria, personaggi crudi e amorali, o per l’attenzione riservata ai margini della Capitale (sparite le borgate, qualche avanzo dell’immaginario pasoliniano sopravvive sotto la superficie); ma anzitutto per quella che si delinea come un’ostinata ricerca del sacro. Romeo e Callisto vengono raccontati senza retorica o sentimentalismo, inquadrati da subito come due uomini sporchi, maneschi, volgari. Ma emerge al contempo la volontà di elevarli a martiri della vita capitalista, a santi della Roma contemporanea. In una città che pullula di simboli cristiani ma che si è fatta più che mai ostile e immorale.
C’è poi l’influenza del regista indipendente Nico D’Alessandria, che alla fine degli anni Ottanta ha seguito le avventure del tossicodipendente Gerry Sperandini in un racconto a metà strada tra l’indagine documentaria e la narrazione di finzione, segnando uno dei più puri (e riusciti) esempi di cinéma vérité italiano. L’imperatore di Roma (1987) – girato in un bianco e nero mortuario – è ricordato oggi come un cult del cinema underground e la sua influenza si fa qui manifesta, concreta. Quando Romeo e Callisto chiedono qualche spiccio ai passanti per potersi pagare la colazione rimandano immediatamente alla figura di Sperandini, che elemosina cento lire per prendersi “la pizza co’ le patate.”
Quello che però manca rispetto ai modelli di riferimento è uno studio etnografico sufficiente. Prima di scrivere la sceneggiatura di Los olvidados (1950), Luis Buñuel frequentò i quartieri malfamati di Città del Messico ogni giorno per sei mesi: “Mi interessava trovare personaggi e storie” racconta Buñuel in un’intervista. La qualità di questo studio sul campo permise al regista aragonese di portare in scena un racconto fluido e naturalistico, in cui schegge surrealiste si insinuavano in un mondo di vero cinismo. In Bassifondi si ha invece l’impressione che sia la scrittura a modellare personaggi e storie, non viceversa. E questo non sarebbe nemmeno un problema se non si percepisse la pretesa di ritrovare un realismo crudo, in qualche modo autentico. Il film di Trash Secco fallisce proprio nel tentativo di mimetizzare i propri meccanismi narrativi: la scrittura – che pure restituisce degli splendidi dialoghi – è una protagonista invadente, che si concede momenti fini a se stessi (la scena del trip, in cui la regia è altrettanto nulla) e incredibili forzature (quale senzatetto berrebbe del latte scaduto da un anno?). Una sequenza particolarmente ispirata è invece quella finale, che smonta definitivamente il naturalismo del racconto per aprire il film a una realtà altra, più poetica e squisitamente cinematografica. La ricostruzione di una sorta di Pietà subacquea con luci al laser e trucchi volutamente posticci segna il definitivo abbandono di certe influenze, calando l’opera nelle profondità di un’estetica tutta contemporanea.
In verità un ultimo collegamento da tracciare è ancora una volta con Buñuel, per il modo in cui un finale “impossibile” stravolge le coordinate del racconto (Simon del deserto, 1965), ma anche per la presenza ricorrente – nel corso del film – di animali che si fanno protagonisti della scena: un asino, un cane e un topo che simbolicamente e in modo alternato rimandano alle figure di Romeo e Callisto. Eppure una lezione estetica fondamentale di Buñuel, così come di Pasolini, non sembra in alcun modo recuperata: l’uso della musica. In Accattone (1961) l’impiego della Passione secondo Matteo di Bach contribuiva all’identificazione della figura di Citti con quella di un santo; Buñuel, nel periodo francese, era arrivato a un totale rifiuto della musica extradiegietica per non scadere in effetti facilmente melodrammatici e ricercare tutta la forza espressiva nella vitalità delle immagini e nella crudezza dei suoni. La musica, nella sua presenza o assenza, come altro strumento di provocazione. Accattone e Los olvidados hanno fatto rivoltare rispettivamente l’Italia e il Messico. Bassifondi non farà rivoltare nemmeno Trastevere: la musica ne è complice, perché accompagna momenti di dolore e grande interpretazione con effetti puerilmente melò. Nonostante resista l’intenzione, come dichiarato dai D’Innocenzo, di fare un controcampo de La grande bellezza (2013), certe soluzioni formali si riallacciano a un modo di fare cinema tutto sommato classico, canonico. L’opera prima di Trash Secco può contare senz’altro su delle intuizioni vincenti e dei raccordi impressionanti, su una vicenda tragica e al contempo appassionante. Ma c’era da scavare ancora, nel fango e nella storia del cinema. C’era da andare più a fondo.