Tra Free Willy e Suburra,
recensione di Cosimo Maj
RV-20
13.06.2023
Se lo Sceriffo Brody del cult di Spielberg doveva uccidere uno squalo per non avere più paura del mare, Walter, il protagonista di Denti da squalo, ne deve salvare uno per ritrovare la libertà di buttarsi tra le onde. Il film è l’opera prima di Davide Gentile, 38 anni, regista con un passato nel mondo della pubblicità e dei cortometraggi, che ha lavorato più all’estero che in Italia. La storia si apre e si chiude su una spiaggia, simbolo della circolare elaborazione di un lutto. Walter, tredici anni, ha da poco perso il padre, ex criminale diventato uomo onesto, morto per una buona azione sul posto di lavoro. Al bambino rimane solo la madre Rita, interpretata con eccessivo mestiere da Virginia Raffaele, cameriera che vorrebbe passare più tempo con suo figlio. Il giovane Walter è invece alla ricerca di qualcosa e il suo vagare senza meta lo porta in una villa abbandonata, al cui interno c’è una piscina che ospita uno squalo, un vero squalo. Walter fa anche la conoscenza del “guardiano”, il poco più grande di lui Carlo, che prima lo bullizza e poi ne diventa il più fido aiutante.
Gli sceneggiatori del film, Gianluca Leoncini e Valerio Cilio, che vinsero con questo progetto il Solinas nel 2014, lo hanno definito “una favola” e non hanno nascosto i tanti riferimenti cinematografici al suo interno. Certamente, come la stessa definizione di favola vuole, è un racconto che presenta una verità morale, un punto di vista su quella che è l’eterna lotta tra il crimine e la legalità, bene e male. Ma è anche, soprattutto, la storia di una famiglia e di un lutto, dell’ancestrale desiderio di contatto tra uomo e animale, in questo caso un bambino e uno squalo che, come l’orca nel finale di Free Willy, viene liberato e libera il protagonista dei suoi fantasmi. L’aspetto emotivo, intimo del giovane Walter e il suo rapporto con il padre defunto sono i due cardini di un film che fatica però a decollare. Le intuizioni registiche e scenografiche non mancano (la piscina, lo stesso litorale e la villa) ma la scrittura è eccessivamente schematica, rigida, e i personaggi abbozzati. Specialmente il mondo del crimine che fa da scenario alla storia è copia carbone mal riuscita di tanti racconti portati sugli schermi italiani negli ultimi anni. I dialoghi sono scritti in modo caricaturale e, a parte i protagonisti, gli altri personaggi, soprattutto i criminali (sia giovani che vecchi) parlano con battute a effetto che ricalcano con fiacchezza quelle di prodotti seriali come Romanzo criminale e Suburra.
Sono ottime alcune prove attoriali, tra cui quella di Edoardo Pesce con il suo istrionismo da Jack Nicholson nell’interpretare il mitologico boss Er Corsaro, e quella del giovanissimo Tiziano Menichelli, ben guidato e che presenta una gamma interessante di espressione dei sentimenti. Difatti l’interesse nelle scene deriva in buona parte dalle performance di alcuni attori, mentre la scrittura manierista e didascalica appesantisce il fluire della storia. La sensazione che si ha è quella di un’operazione che voglia a tutti costi ricercare il “diverso”, “l’originale”, finendo per sbattere con la realtà di una sceneggiatura fiacca, nella quale i vari riferimenti cinematografici sembrano solo dei richiami alla memoria dello spettatore, nel tentativo di farlo appassionare ancora di più alla storia, di per sé tuttavia semplice e onesta.
Tra Free Willy e Suburra,
recensione di Cosimo Maj
RV-20
13.06.2023
Se lo Sceriffo Brody del cult di Spielberg doveva uccidere uno squalo per non avere più paura del mare, Walter, il protagonista di Denti da squalo, ne deve salvare uno per ritrovare la libertà di buttarsi tra le onde. Il film è l’opera prima di Davide Gentile, 38 anni, regista con un passato nel mondo della pubblicità e dei cortometraggi, che ha lavorato più all’estero che in Italia. La storia si apre e si chiude su una spiaggia, simbolo della circolare elaborazione di un lutto. Walter, tredici anni, ha da poco perso il padre, ex criminale diventato uomo onesto, morto per una buona azione sul posto di lavoro. Al bambino rimane solo la madre Rita, interpretata con eccessivo mestiere da Virginia Raffaele, cameriera che vorrebbe passare più tempo con suo figlio. Il giovane Walter è invece alla ricerca di qualcosa e il suo vagare senza meta lo porta in una villa abbandonata, al cui interno c’è una piscina che ospita uno squalo, un vero squalo. Walter fa anche la conoscenza del “guardiano”, il poco più grande di lui Carlo, che prima lo bullizza e poi ne diventa il più fido aiutante.
Gli sceneggiatori del film, Gianluca Leoncini e Valerio Cilio, che vinsero con questo progetto il Solinas nel 2014, lo hanno definito “una favola” e non hanno nascosto i tanti riferimenti cinematografici al suo interno. Certamente, come la stessa definizione di favola vuole, è un racconto che presenta una verità morale, un punto di vista su quella che è l’eterna lotta tra il crimine e la legalità, bene e male. Ma è anche, soprattutto, la storia di una famiglia e di un lutto, dell’ancestrale desiderio di contatto tra uomo e animale, in questo caso un bambino e uno squalo che, come l’orca nel finale di Free Willy, viene liberato e libera il protagonista dei suoi fantasmi. L’aspetto emotivo, intimo del giovane Walter e il suo rapporto con il padre defunto sono i due cardini di un film che fatica però a decollare. Le intuizioni registiche e scenografiche non mancano (la piscina, lo stesso litorale e la villa) ma la scrittura è eccessivamente schematica, rigida, e i personaggi abbozzati. Specialmente il mondo del crimine che fa da scenario alla storia è copia carbone mal riuscita di tanti racconti portati sugli schermi italiani negli ultimi anni. I dialoghi sono scritti in modo caricaturale e, a parte i protagonisti, gli altri personaggi, soprattutto i criminali (sia giovani che vecchi) parlano con battute a effetto che ricalcano con fiacchezza quelle di prodotti seriali come Romanzo criminale e Suburra.
Sono ottime alcune prove attoriali, tra cui quella di Edoardo Pesce con il suo istrionismo da Jack Nicholson nell’interpretare il mitologico boss Er Corsaro, e quella del giovanissimo Tiziano Menichelli, ben guidato e che presenta una gamma interessante di espressione dei sentimenti. Difatti l’interesse nelle scene deriva in buona parte dalle performance di alcuni attori, mentre la scrittura manierista e didascalica appesantisce il fluire della storia. La sensazione che si ha è quella di un’operazione che voglia a tutti costi ricercare il “diverso”, “l’originale”, finendo per sbattere con la realtà di una sceneggiatura fiacca, nella quale i vari riferimenti cinematografici sembrano solo dei richiami alla memoria dello spettatore, nel tentativo di farlo appassionare ancora di più alla storia, di per sé tuttavia semplice e onesta.