Sequestri e liberazioni,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-18
25.05.2023
Ancora un sequestro. Di nuovo un’indagine, ancora inquisiti e inquisitori. Da Moro a Mortara, Bellocchio prosegue la sua epopea di corpi trafugati nel tentativo di disvelare l’inconscio sepolto dell’Italia, la sua origine lacerata e le sue crisi fondanti. Sia il caso Moro che quello Mortara – il rapimento, nella Bologna del 1858, del piccolo Edgardo dalla sua famiglia ebrea per ordine di Papa Pio IX affinché ricevesse un’educazione cattolica in quanto segretamente battezzato – sono elevati da Bellocchio a simboli della fine violenta di un’epoca, irreparabile perdita di innocenza morale e politica. Se però nelle opere sugli ultimi giorni del segretario della Democrazia Cristiana la rappresentazione del dramma umano riusciva a farsi onirica eco di uno smarrimento collettivo, culmine di una rabbia ideologica che investiva le fondamenta di idee di mondo e potere non più sostenibili, in Rapito si ha l’impressione di superare a fatica la didascalia del titolo, restare sospesi tra le lettere minuscole e maiuscole della storia, in un melodramma che caratterizza in eccesso i suoi personaggi invece di capirli.
È un film questo che parla dell’irremovibilità del male, di quanto l’affermazione identitaria sia preludio dell’intolleranza, sintomo di guerra. Al centro vi è l’impotenza di due uomini, il padre di Edgardo e il Papa Re, i quali, alle prese col tramonto delle loro rispettive autorità, diventano maschere di uno speculare fallimento. Tramite la figura del giovane Edgardo, personaggio traumatizzato e scisso, ebreo e cristiano, Bellocchio approfondisce conflitti cruciali della sua filmografia come la ribellione nei confronti dei padri, il senso di colpa, il travagliato dialogo tra divino e umano. Il tono sentimentale del film è ossessivo, scoordinato, sospinto da musiche forsennate, sempre sull’orlo del disastro, della capitolazione. Quando infine l’inevitabile accade, una palla di cannone sbaraglia le mura di Porta Pia e riunisce la nazione, oltre al potere papale si squarcia lo schermo, si rinnova lo sguardo dello spettatore, testimone di una morte e di una nascita, del dilagare di una furia e del suo immediato pentimento.
Rapito, come spesso accade nel cinema di Bellocchio, è allucinato resoconto di un incubo, luogo in cui ombre e fantasmi tramano nel buio. Stavolta però la spettrale trasfigurazione della Storia mostra i suoi limiti, i destini di Mortara e dell’Italia si intrecciano a forza, tanto che il film sente il ripetuto bisogno di scrivere date e avvenimenti, informare, riempire vuoti, confermare a tutti i costi la rilevanza del suo tema. Manca sia la misura che l’eversione, il sussurro oltre le grida, il cuore dietro le nevrosi. Solo in un momento l’immagine si fa vera vertigine, infrangendo le gabbie della ricostruzione storica, dei tic inconsci, dell’enfasi narrativa: il Papa è morto da poco, Edgardo ormai adulto ne protegge la salma dalla folla in rivolta. Poi un lampo negli occhi, il dubbio riguardo la miseria umana e la malvagità della fede. La collera, il desiderio di gettare al fiume quel corpo venerato, ripudiare gli idoli e gli dei che gli hanno rovinato l’esistenza. Non se ne farà nulla, il Cristo tornerà sulla croce, l’uomo disperato aspetterà la sua liberazione.
Sequestri e liberazioni,
recensione di Andrea Tiradritti
RV-18
25.05.2023
Ancora un sequestro. Di nuovo un’indagine, ancora inquisiti e inquisitori. Da Moro a Mortara, Bellocchio prosegue la sua epopea di corpi trafugati nel tentativo di disvelare l’inconscio sepolto dell’Italia, la sua origine lacerata e le sue crisi fondanti. Sia il caso Moro che quello Mortara – il rapimento, nella Bologna del 1858, del piccolo Edgardo dalla sua famiglia ebrea per ordine di Papa Pio IX affinché ricevesse un’educazione cattolica in quanto segretamente battezzato – sono elevati da Bellocchio a simboli della fine violenta di un’epoca, irreparabile perdita di innocenza morale e politica. Se però nelle opere sugli ultimi giorni del segretario della Democrazia Cristiana la rappresentazione del dramma umano riusciva a farsi onirica eco di uno smarrimento collettivo, culmine di una rabbia ideologica che investiva le fondamenta di idee di mondo e potere non più sostenibili, in Rapito si ha l’impressione di superare a fatica la didascalia del titolo, restare sospesi tra le lettere minuscole e maiuscole della storia, in un melodramma che caratterizza in eccesso i suoi personaggi invece di capirli.
È un film questo che parla dell’irremovibilità del male, di quanto l’affermazione identitaria sia preludio dell’intolleranza, sintomo di guerra. Al centro vi è l’impotenza di due uomini, il padre di Edgardo e il Papa Re, i quali, alle prese col tramonto delle loro rispettive autorità, diventano maschere di uno speculare fallimento. Tramite la figura del giovane Edgardo, personaggio traumatizzato e scisso, ebreo e cristiano, Bellocchio approfondisce conflitti cruciali della sua filmografia come la ribellione nei confronti dei padri, il senso di colpa, il travagliato dialogo tra divino e umano. Il tono sentimentale del film è ossessivo, scoordinato, sospinto da musiche forsennate, sempre sull’orlo del disastro, della capitolazione. Quando infine l’inevitabile accade, una palla di cannone sbaraglia le mura di Porta Pia e riunisce la nazione, oltre al potere papale si squarcia lo schermo, si rinnova lo sguardo dello spettatore, testimone di una morte e di una nascita, del dilagare di una furia e del suo immediato pentimento.
Rapito, come spesso accade nel cinema di Bellocchio, è allucinato resoconto di un incubo, luogo in cui ombre e fantasmi tramano nel buio. Stavolta però la spettrale trasfigurazione della Storia mostra i suoi limiti, i destini di Mortara e dell’Italia si intrecciano a forza, tanto che il film sente il ripetuto bisogno di scrivere date e avvenimenti, informare, riempire vuoti, confermare a tutti i costi la rilevanza del suo tema. Manca sia la misura che l’eversione, il sussurro oltre le grida, il cuore dietro le nevrosi. Solo in un momento l’immagine si fa vera vertigine, infrangendo le gabbie della ricostruzione storica, dei tic inconsci, dell’enfasi narrativa: il Papa è morto da poco, Edgardo ormai adulto ne protegge la salma dalla folla in rivolta. Poi un lampo negli occhi, il dubbio riguardo la miseria umana e la malvagità della fede. La collera, il desiderio di gettare al fiume quel corpo venerato, ripudiare gli idoli e gli dei che gli hanno rovinato l’esistenza. Non se ne farà nulla, il Cristo tornerà sulla croce, l’uomo disperato aspetterà la sua liberazione.