NC-144
27.03.2023
Quest’anno Il Gattopardo (1963) festeggia i sessant’anni dalla sua uscita nella sale. Elegante e malinconico, grandioso ed indimenticabile, il capolavoro di Luchino Visconti ha segnato uno dei risultati più significativi della squisita manifattura del cinema nostrano. All’inizio degli anni Sessanta l’industria cinematografica italiana si trovava nel pieno dei suoi anni d’oro; gli accordi economici presi nel decennio precedente con Francia e Stati Uniti contribuirono ad imporla come uno dei poli produttivi più influenti al mondo. Con il cosiddetto fenomeno della Hollywood sul Tevere (1950-1970 ca.) attori e registi americani giungevano a Cinecittà per realizzare pellicole destinate ad un grande successo internazionale. Grazie ai frutti di questo “rinascimento” si poteva disporre di grandi capitali e ottime maestranze, la cui professionalità assicurava prodotti di alto livello qualitativo. Nel 1960 il Festival di Cannes era stato infatti dominato dall’Italia. Con L’avventura Michelangelo Antonioni aveva diviso la critica e si era aggiudicato il Prix du jury, mentre Federico Fellini aveva afferrato, con La dolce vita, l’ambita Palma d’Oro. Le vittorie continuarono a susseguirsi in Germania, alla Berlinale, con l’assegnazione dell’Orso d’Oro a La notte (1961), sempre di Antonioni e, negli Usa, con l’Oscar a Sophia Loren - seconda italiana a vincere il premio dopo Anna Magnani (1956), ma prima interprete in assoluto ad essersi aggiudicata l’ambita statuetta per un’interpretazione in un film straniero - per La Ciociara (1960) di Vittorio De Sica.
Il progetto de Il Gattopardo nacque quindi in un clima di pieno fermento creativo. L’idea di trasporre il celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si concretizzò fin dalla sua uscita nel 1958, quando Goffredo Lombardo, ereditiere della Titanus - la più antica e rispettata casa di produzione cinematografica italiana - si infatuò del libro assicurandosene immediatamente i diritti. La storia del Risorgimento italiano, analizzato attraverso gli occhi di Don Fabrizio Corbera, principe di Salina - figura ispirata a Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno dello scrittore - che con lucida amarezza osserva il decadimento della classe nobiliare italiana dopo lo Sbarco a Marsala delle truppe garibaldine, si poneva come il potente affresco della fine di un’era. In un primo momento si decise di assegnare la regia a Mario Soldati - celebre per il suo stile calligrafico in opere come Piccolo mondo antico (1941), Malombra (1942), Eugenia Grandet (1947) - ma l’idea sfumò in breve tempo. La direzione dell’ambizioso progetto passò quindi ad Ettore Giannini - regista di Gli uomini sono nemici (1948), Carosello Napoletano (1954) e tra gli sceneggiatori del celebre Processo alla città (1952) di Luigi Zampa - con cui però nacquero fin da subito dei forti dissensi sulla prima stesura dello script, di cui Lombardo si diceva «profondamente insoddisfatto».
Fu solo quando collaborò con il grande Luchino Visconti per Rocco e i suoi fratelli (1960) - film scandalo e Gran premio della giuria alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia - che il produttore ebbe un’illuminazione. Il regista, proveniente da una delle più ricche e aristocratiche famiglie di Milano, era il solo a poter riportare l’essenza del testo di Lampedusa sul grande schermo, avvalorandola però della sua inconfondibile firma. Brutale, ricercato, colto, il cinema di Visconti aveva attraversato durante gli anni un’incredibile metamorfosi. Dal proto-neorealismo di Ossessione (1943) alla ripresa meta-documentaria di La terra trema (1948), dal realismo di Bellissima (1951) fino al revisionismo storico di Senso (1954), all’elaborazione poetica di Le notti bianche (1957) e alla critica sociale di Rocco e i suoi fratelli. Sotto l’influenza del regista, Lombardo, abituato a fare grossi incassi con prodotti di stampo popolare - Tormento (1950), I figli di nessuno (1951) - cominciò a circondarsi di esteti ed intellettuali. Fu così che Il Gattopardo venne affidato a Visconti che, avvalendosi del suo team di sceneggiatori di fiducia - composto da Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile - scrisse una nuova versione della sceneggiatura.
Ci sì interrogò quindi sulla scelta del cast. Per il ruolo del giovane ed ambiguo Tancredi Falconeri, nipote del principe, si fece immediatamente il nome di Alain Delon - pupillo di Visconti e interprete di Rocco e i suoi fratelli - la cui partecipazione venne, inizialmente, messa in dubbio da impegni precedenti. Si pensò allora a Warren Beatty, reduce dal grande successo di Splendor in the Grass (Splendore nell’erba, 1961), che, non convincendo pienamente autore e produttore, venne presto scartato. Non vi furono invece dubbi su Claudia Cardinale - all’epoca stella nascente - scelta per la parte della spudorata Angelica Sedara. Il reale problema era chi avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Don Fabrizio, protagonista dell’opera. Visconti voleva il russo Nikolaj Čerkasov, attore leggendario e collaboratore di Sergej Ėjzenštejn - per cui recitò in Aleksandr Nevskij (1938) e la saga di Ivan Groznyj (Ivan il terribile, 1944-1946) - ma i freddi rapporti dell’Unione Sovietica con l’Occidente lo resero totalmente irreperibile e costrinsero il cineasta a fare dietro front. Iniziarono così delle trattative con Laurence Olivier, divo del cinema anglosassone e colonna portante dei palcoscenici del West End, che si interruppero bruscamente poiché le compagnie di assicurazione si rifiutarono, a causa della sua fragile salute, di garantire per lui. Così, nella confusione generale, Lombardo fece il nome di Burt Lancaster, star hollywoodiana di grande fama e talento, provocando l’ira di Visconti che si rifiutò, categoricamente, di «lavorare con un cow-boy». Fu attraverso uno stratagemma del produttore - che aveva organizzato un incontro tra Lancaster e Visconti inventandosi, con entrambi, finti commenti entusiastici dell’uno nei confronti dell’altro - che i due finirono per scegliersi vicendevolmente. Nel frattempo Delon era riuscito a confermare la sua partecipazione, e per il resto dei - molti - personaggi di contorno Visconti mischiò i suoi fidati interpreti teatrali, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli, con giovani promesse del cinema franco-italiano come Pierre Clémenti, Lucilla Morlacchi, Mario Girotti e Ottavia Piccolo.
Imbarcandosi in questo progetto Goffredo Lombardo era consapevole che Visconti, celebre perfezionista, avrebbe preteso la compiutezza più assoluta. Le riprese de Il Gattopardo cominciarono il 14 maggio del 1962, dopo un anno di minuziosa ricerca delle location siciliane. Il film venne girato dal vero, in quelle dimore nobiliari dove un secolo prima erano avvenute le vicende storiche del romanzo. Evitando la più economica ma meno autentica soluzione di riprodurre le scenografie in studio, cominciarono le ristrutturazioni di tutti quei palazzi selezionati per l’ambientazione. Nella villa di Boscogrande, con cui la storia si apre, gli studi compiuti da una squadra di restauratori - composta da due mastri stuccatori romani, cinque caposquadra ed operai scelti sul posto - portarono a cambiare l’intera pavimentazione della terrazza con mattonelle d’epoca, a mutare la facciata dell’edificio in uno stile che si avvicinasse di più al barocco siciliano, ed a riprodurre, in soli 15 giorni, l’affresco di 200 metri quadrati situato nel salone descritto da Lampedusa. L’unico ambiente totalmente artificiale della pellicola fu l’osservatorio, costruito, su insistenza di Visconti, nel giardino della villa e sospeso su dei ponteggi che permettevano l’affaccio verso Palermo. Per la magione di Donnafugata, invece, venne ricreata dallo scenografo Mario Garbuglia un’intera facciata che andava a sovrapporsi alla schiera di edifici presenti nella piazza della chiesa di Ciminna.
Ma fu nella sequenza dello scontro di Palermo, tra i garibaldini e l’esercito borbonico, che il passato sembrò ripetersi. I dieci giorni di riprese si svolsero nel quartiere della Kalsa, luogo in cui Garibaldi era realmente giunto durante la presa della città. Garbuglia aveva progettato, su incarico di Visconti, tre set in cui lavorarono circa settecento comparse più la folla palermitana che, assistendo alle riprese, venne impiegata per rafforzare ulteriormente la resa visiva. L’asfalto delle strade venne ricoperto di terra battuta, le antenne delle televisioni, i pali elettrici e le tubazioni degli edifici furono rimossi, mentre i serramenti e le saracinesche delle finestre sostituiti da persiane in legno e tende svolazzanti. Per la costruzione delle barricate vennero consultati libri sulla battaglia, illustrazioni e materiale del periodo, arrivando così ad una rievocazione perfetta.
L’ossessione riproduttiva di Visconti non si fermò neppure agli oggetti che componevano l’arredamento di ogni singola inquadratura. La cura degli interni fu affidata a Giorgio Pes - conosciuto dal regista sul set di Boccaccio ’70 (1962) grazie al produttore Carlo Ponti - affiancato da Ludomia Hercolani Del Drago. Pes ricordava dell’esperienza sul set di Boccaccio: «Dovevamo sottostare a una disciplina ferrea. Quando si girava c’era un silenzio da chiesa ed i tecnici, per evitare qualsiasi tipo di rumore, lavoravano in pantofole, ma alla fine del film Visconti mi propose di collaborare nel Gattopardo». I due arredatori, che avevano notevoli esperienze antiquariali, scovavano mobilio, decorazioni, tappezzerie, suppellettili, quadri, per la maggior parte rigorosamente autentici. I tendaggi e le moquettes prescelti venivano appuntati su delle tavole in maniera che il regista, toccando con mano tessuti e parati, potesse dare la conferma finale. I dipinti adoperati per la sequenza del “pranzo di debutto” di Angelica provenivano invece dalla collezione privata dei Del Drago, mentre i piatti in mostra sulle pareti erano stati appositamente realizzati per riprodurre le porcellane del tempo. Il grande tavolo, punto focale della scena, fu studiato da Pes in modo da poter essere smontato a settori per effettuare i primi piani. Una delle maggiori difficoltà era che ogni volta bisognava spostare i servizi da tavola per poi ricomporli nella identica posizione precedente.
Per la creazione degli elaborati capi d’epoca venne richiesto Piero Tosi, costumista di straordinario talento e fedele membro dell’entourage viscontiano. Con l’assistenza di Vera Marzot - costume designer di registi come Steno, Nanni Loy, Joseph Losey, Lucio Fulci - e di una squadra di instancabili sarte, Tosi potè dare libero sfogo al suo estro. Ispirandosi alle descrizioni di Balzac e Zola iniziò un meticoloso lavoro di ricerca, tanto che anni dopo avrebbe affermato: «Bisogna mettere tutto in discussione fino alla fine e lavorare per gradi, anche nelle prove. Determinante innanzi tutto è la scelta della stoffa e del colore. Nella fase di documentazione mi portavo la sera a letto la campionatura e rimanevo sveglio anche tutta la notte, pensavo e ripensavo, confrontavo i campioni, li accostavo, cambiando mille volte idea prima di riuscire a decidere». Le prove costume divenivano con Tosi delle vere e proprie esperienze, tanto che Ottavia Piccolo raccontò: «Tutte avevamo il busto, dalle bambine piccole fino alla Cardinale. Le attrici sul set erano seviziate da Piero, la parola d’ordine era il busto perché nell’Ottocento il canone di bellezza femminile esigeva un girovita strettissimo. Eravamo strizzate, a cominciare da Claudia, che risultava meravigliosa ma rischiava continuamente di svenire. Nella scena del picnic ero riuscita, con la complicità di una sarta, a non indossarlo, Tosi se ne accorse da cento metri di distanza, vide come mi muovevo e capì immediatamente. Fui rimproverata ma compresi per la prima volta quanto è importante un costume per definire un’epoca ed un personaggio». Si dice che il corpetto del celebre abito che Claudia Cardinale indossò per il finale era talmente stretto da permettere ad Alain Delon di cingerle la vita usando una sola mano.
Lo sfarzo con cui ogni cosa venne realizzata fece levitare i costi a tre miliardi di lire. La Titanus riuscì a farsi anticipare un miliardo e mezzo dalla 20th Century Fox - che avrebbe distribuito il film all’estero - ma la lavorazione continuò a dilatarsi oltre il previsto. Tra realtà e leggenda una volta Lombardo ricordò in un'intervista: «Lavorare con Visconti significava avere completa fiducia in lui - come del resto non si poteva non avere - e disponibilità a tutto ciò che voleva perché tanto non c’era niente da fare. Visconti, innamorato di questo film, volle l’assurdo dell’assurdo. Girando in Sicilia, e non dico sulle Alpi, pretese che gli arrivassero ogni giorno da San Remo con l’aereo quintali e quintali di fiori freschi per abbellire determinate scene. In quella famosa del ballo volle tutti i numerosi lampadari della sala illuminati con le candele vere. Naturalmente con il calore dei proiettori queste candele si squagliavano e di conseguenza, oltre il trambusto iniziale per accenderle, c’era quello di interrompere la lavorazione ogni ora, per prendere di nuovo le scale di legno, cambiare le candele, a centinaia, e riaccenderle. Sempre nella scena del ballo, tutti gli uomini portavano i guanti bianchi. Per il caldo e l’inevitabile bagno di sudore, i guanti dopo alcune ore si ombravano. Nessuno lo avrebbe notato e tanto meno la macchina da presa, ma Visconti si, e pretese che impiantassimo sul luogo una lavanderia con una cinquantina di donne addette a lavarli, perché non poteva girare se i guanti non erano proprio immacolati!».
Anche il lavoro sui personaggi fu svolto con cieca dedizione. Visconti chiedeva ai suoi attori di immergersi nel contesto storico. Significative furono, in questo senso, le parole di Burt Lancaster: «C’era un momento in cui prendevo qualcosa da un mobile. Vidi che il cassetto era pieno di indumenti, così domandai a Rotunno, l’operatore, se dovesse inquadrarli, lui mi rispose di no. Chiesi per quale ragione fossero li e Visconti mi disse: perché sono tuoi, devi sentirli, toccarli, fanno parte di te. Insistetti domandando se allora dovevo guardare gli oggetti sul tavolo e lui mi rispose: è tutta roba tua, sono sempre stati li, sono la tua vita e perciò tu non ci badi». Anche la Cardinale - che per gran parte della lavorazione fece la spola tra la Sicilia e Cinecittà, dove stava girando 8½ (1963) con Federico Fellini - ricorderà che nella borsetta portata durante la festa della scena finale Visconti aveva fatto inserire un carnet de bal e piccoli oggetti da toletta che le sarebbero serviti per immedesimarsi, ma che nessuno avrebbe mai visto.
L’ultimo ciak del film fu battuto nel settembre del 1962 e, dopo un impegnativo lavoro di montaggio e composizione delle musiche da parte di Nino Rota, il 28 marzo 1963 venne mostrato a Roma. Il successo del Gattopardo non arrivò immediatamente; le prime recensioni furono assai tiepide ed all’estero venne considerato troppo lungo. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti la Fox lo rilasciò in una versione - rimaneggiata dal giovane Sidney Pollack su indicazione di Burt Lancaster - di quaranta minuti più breve rispetto all’originale. Quando però, nel maggio dello stesso anno, venne presentato al Festival di Cannes - all’epoca era più comune che i film in concorso fossero già stati distribuiti in sala - fu finalmente riconosciuto e premiato, ottenendo la Palma d’Oro con l’unanimità della giuria. Anche se i numeri al botteghino cominciarono a salire, i rientri troppo scaglionati mandarono la Titanus sull’orlo della bancarotta. Le cause non vanno imputate solamente all’epopea di Visconti ma anche, e sopratutto, alla grandissima perdita finanziaria che Lombardo aveva dovuto subire con Sodoma e Gomorra (1962). Questo kolossal biblico, infatti, indebolì drasticamente le casse Titanus a causa, ancora una volta, delle alte spese e di una disputa legale creatasi tra il regista Robert Aldrich - autore di un cinema grintoso e modernista ma profondamente inadatto alla direzione del film - e la casa di produzione. Quando si arrivò al montaggio, Lombardo congedò Aldrich, che avviò quindi un’azione legale, scatenando la disapprovazione della distribuzione americana che decise di non rilevare il film. Il produttore riuscì però a cavarsela, tutti dimenticarono «l’incidente» di Sodoma e Gomorra, e la Titanus, seppur danneggiata - dal 1964 si dedicherà prevalentemente alla distribuzione - sopravvisse potendo vantare Il Gattopardo tra i suoi lavori più maestosi.Vedere quest’opera significa assaporare, oggi più che mai, la vera essenza della settima arte e godere di una delle opere più incredibili della storia del cinema.
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27.03.2023
Quest’anno Il Gattopardo (1963) festeggia i sessant’anni dalla sua uscita nella sale. Elegante e malinconico, grandioso ed indimenticabile, il capolavoro di Luchino Visconti ha segnato uno dei risultati più significativi della squisita manifattura del cinema nostrano. All’inizio degli anni Sessanta l’industria cinematografica italiana si trovava nel pieno dei suoi anni d’oro; gli accordi economici presi nel decennio precedente con Francia e Stati Uniti contribuirono ad imporla come uno dei poli produttivi più influenti al mondo. Con il cosiddetto fenomeno della Hollywood sul Tevere (1950-1970 ca.) attori e registi americani giungevano a Cinecittà per realizzare pellicole destinate ad un grande successo internazionale. Grazie ai frutti di questo “rinascimento” si poteva disporre di grandi capitali e ottime maestranze, la cui professionalità assicurava prodotti di alto livello qualitativo. Nel 1960 il Festival di Cannes era stato infatti dominato dall’Italia. Con L’avventura Michelangelo Antonioni aveva diviso la critica e si era aggiudicato il Prix du jury, mentre Federico Fellini aveva afferrato, con La dolce vita, l’ambita Palma d’Oro. Le vittorie continuarono a susseguirsi in Germania, alla Berlinale, con l’assegnazione dell’Orso d’Oro a La notte (1961), sempre di Antonioni e, negli Usa, con l’Oscar a Sophia Loren - seconda italiana a vincere il premio dopo Anna Magnani (1956), ma prima interprete in assoluto ad essersi aggiudicata l’ambita statuetta per un’interpretazione in un film straniero - per La Ciociara (1960) di Vittorio De Sica.
Il progetto de Il Gattopardo nacque quindi in un clima di pieno fermento creativo. L’idea di trasporre il celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si concretizzò fin dalla sua uscita nel 1958, quando Goffredo Lombardo, ereditiere della Titanus - la più antica e rispettata casa di produzione cinematografica italiana - si infatuò del libro assicurandosene immediatamente i diritti. La storia del Risorgimento italiano, analizzato attraverso gli occhi di Don Fabrizio Corbera, principe di Salina - figura ispirata a Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno dello scrittore - che con lucida amarezza osserva il decadimento della classe nobiliare italiana dopo lo Sbarco a Marsala delle truppe garibaldine, si poneva come il potente affresco della fine di un’era. In un primo momento si decise di assegnare la regia a Mario Soldati - celebre per il suo stile calligrafico in opere come Piccolo mondo antico (1941), Malombra (1942), Eugenia Grandet (1947) - ma l’idea sfumò in breve tempo. La direzione dell’ambizioso progetto passò quindi ad Ettore Giannini - regista di Gli uomini sono nemici (1948), Carosello Napoletano (1954) e tra gli sceneggiatori del celebre Processo alla città (1952) di Luigi Zampa - con cui però nacquero fin da subito dei forti dissensi sulla prima stesura dello script, di cui Lombardo si diceva «profondamente insoddisfatto».
Fu solo quando collaborò con il grande Luchino Visconti per Rocco e i suoi fratelli (1960) - film scandalo e Gran premio della giuria alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia - che il produttore ebbe un’illuminazione. Il regista, proveniente da una delle più ricche e aristocratiche famiglie di Milano, era il solo a poter riportare l’essenza del testo di Lampedusa sul grande schermo, avvalorandola però della sua inconfondibile firma. Brutale, ricercato, colto, il cinema di Visconti aveva attraversato durante gli anni un’incredibile metamorfosi. Dal proto-neorealismo di Ossessione (1943) alla ripresa meta-documentaria di La terra trema (1948), dal realismo di Bellissima (1951) fino al revisionismo storico di Senso (1954), all’elaborazione poetica di Le notti bianche (1957) e alla critica sociale di Rocco e i suoi fratelli. Sotto l’influenza del regista, Lombardo, abituato a fare grossi incassi con prodotti di stampo popolare - Tormento (1950), I figli di nessuno (1951) - cominciò a circondarsi di esteti ed intellettuali. Fu così che Il Gattopardo venne affidato a Visconti che, avvalendosi del suo team di sceneggiatori di fiducia - composto da Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile - scrisse una nuova versione della sceneggiatura.
Ci sì interrogò quindi sulla scelta del cast. Per il ruolo del giovane ed ambiguo Tancredi Falconeri, nipote del principe, si fece immediatamente il nome di Alain Delon - pupillo di Visconti e interprete di Rocco e i suoi fratelli - la cui partecipazione venne, inizialmente, messa in dubbio da impegni precedenti. Si pensò allora a Warren Beatty, reduce dal grande successo di Splendor in the Grass (Splendore nell’erba, 1961), che, non convincendo pienamente autore e produttore, venne presto scartato. Non vi furono invece dubbi su Claudia Cardinale - all’epoca stella nascente - scelta per la parte della spudorata Angelica Sedara. Il reale problema era chi avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Don Fabrizio, protagonista dell’opera. Visconti voleva il russo Nikolaj Čerkasov, attore leggendario e collaboratore di Sergej Ėjzenštejn - per cui recitò in Aleksandr Nevskij (1938) e la saga di Ivan Groznyj (Ivan il terribile, 1944-1946) - ma i freddi rapporti dell’Unione Sovietica con l’Occidente lo resero totalmente irreperibile e costrinsero il cineasta a fare dietro front. Iniziarono così delle trattative con Laurence Olivier, divo del cinema anglosassone e colonna portante dei palcoscenici del West End, che si interruppero bruscamente poiché le compagnie di assicurazione si rifiutarono, a causa della sua fragile salute, di garantire per lui. Così, nella confusione generale, Lombardo fece il nome di Burt Lancaster, star hollywoodiana di grande fama e talento, provocando l’ira di Visconti che si rifiutò, categoricamente, di «lavorare con un cow-boy». Fu attraverso uno stratagemma del produttore - che aveva organizzato un incontro tra Lancaster e Visconti inventandosi, con entrambi, finti commenti entusiastici dell’uno nei confronti dell’altro - che i due finirono per scegliersi vicendevolmente. Nel frattempo Delon era riuscito a confermare la sua partecipazione, e per il resto dei - molti - personaggi di contorno Visconti mischiò i suoi fidati interpreti teatrali, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli, con giovani promesse del cinema franco-italiano come Pierre Clémenti, Lucilla Morlacchi, Mario Girotti e Ottavia Piccolo.
Imbarcandosi in questo progetto Goffredo Lombardo era consapevole che Visconti, celebre perfezionista, avrebbe preteso la compiutezza più assoluta. Le riprese de Il Gattopardo cominciarono il 14 maggio del 1962, dopo un anno di minuziosa ricerca delle location siciliane. Il film venne girato dal vero, in quelle dimore nobiliari dove un secolo prima erano avvenute le vicende storiche del romanzo. Evitando la più economica ma meno autentica soluzione di riprodurre le scenografie in studio, cominciarono le ristrutturazioni di tutti quei palazzi selezionati per l’ambientazione. Nella villa di Boscogrande, con cui la storia si apre, gli studi compiuti da una squadra di restauratori - composta da due mastri stuccatori romani, cinque caposquadra ed operai scelti sul posto - portarono a cambiare l’intera pavimentazione della terrazza con mattonelle d’epoca, a mutare la facciata dell’edificio in uno stile che si avvicinasse di più al barocco siciliano, ed a riprodurre, in soli 15 giorni, l’affresco di 200 metri quadrati situato nel salone descritto da Lampedusa. L’unico ambiente totalmente artificiale della pellicola fu l’osservatorio, costruito, su insistenza di Visconti, nel giardino della villa e sospeso su dei ponteggi che permettevano l’affaccio verso Palermo. Per la magione di Donnafugata, invece, venne ricreata dallo scenografo Mario Garbuglia un’intera facciata che andava a sovrapporsi alla schiera di edifici presenti nella piazza della chiesa di Ciminna.
Ma fu nella sequenza dello scontro di Palermo, tra i garibaldini e l’esercito borbonico, che il passato sembrò ripetersi. I dieci giorni di riprese si svolsero nel quartiere della Kalsa, luogo in cui Garibaldi era realmente giunto durante la presa della città. Garbuglia aveva progettato, su incarico di Visconti, tre set in cui lavorarono circa settecento comparse più la folla palermitana che, assistendo alle riprese, venne impiegata per rafforzare ulteriormente la resa visiva. L’asfalto delle strade venne ricoperto di terra battuta, le antenne delle televisioni, i pali elettrici e le tubazioni degli edifici furono rimossi, mentre i serramenti e le saracinesche delle finestre sostituiti da persiane in legno e tende svolazzanti. Per la costruzione delle barricate vennero consultati libri sulla battaglia, illustrazioni e materiale del periodo, arrivando così ad una rievocazione perfetta.
L’ossessione riproduttiva di Visconti non si fermò neppure agli oggetti che componevano l’arredamento di ogni singola inquadratura. La cura degli interni fu affidata a Giorgio Pes - conosciuto dal regista sul set di Boccaccio ’70 (1962) grazie al produttore Carlo Ponti - affiancato da Ludomia Hercolani Del Drago. Pes ricordava dell’esperienza sul set di Boccaccio: «Dovevamo sottostare a una disciplina ferrea. Quando si girava c’era un silenzio da chiesa ed i tecnici, per evitare qualsiasi tipo di rumore, lavoravano in pantofole, ma alla fine del film Visconti mi propose di collaborare nel Gattopardo». I due arredatori, che avevano notevoli esperienze antiquariali, scovavano mobilio, decorazioni, tappezzerie, suppellettili, quadri, per la maggior parte rigorosamente autentici. I tendaggi e le moquettes prescelti venivano appuntati su delle tavole in maniera che il regista, toccando con mano tessuti e parati, potesse dare la conferma finale. I dipinti adoperati per la sequenza del “pranzo di debutto” di Angelica provenivano invece dalla collezione privata dei Del Drago, mentre i piatti in mostra sulle pareti erano stati appositamente realizzati per riprodurre le porcellane del tempo. Il grande tavolo, punto focale della scena, fu studiato da Pes in modo da poter essere smontato a settori per effettuare i primi piani. Una delle maggiori difficoltà era che ogni volta bisognava spostare i servizi da tavola per poi ricomporli nella identica posizione precedente.
Per la creazione degli elaborati capi d’epoca venne richiesto Piero Tosi, costumista di straordinario talento e fedele membro dell’entourage viscontiano. Con l’assistenza di Vera Marzot - costume designer di registi come Steno, Nanni Loy, Joseph Losey, Lucio Fulci - e di una squadra di instancabili sarte, Tosi potè dare libero sfogo al suo estro. Ispirandosi alle descrizioni di Balzac e Zola iniziò un meticoloso lavoro di ricerca, tanto che anni dopo avrebbe affermato: «Bisogna mettere tutto in discussione fino alla fine e lavorare per gradi, anche nelle prove. Determinante innanzi tutto è la scelta della stoffa e del colore. Nella fase di documentazione mi portavo la sera a letto la campionatura e rimanevo sveglio anche tutta la notte, pensavo e ripensavo, confrontavo i campioni, li accostavo, cambiando mille volte idea prima di riuscire a decidere». Le prove costume divenivano con Tosi delle vere e proprie esperienze, tanto che Ottavia Piccolo raccontò: «Tutte avevamo il busto, dalle bambine piccole fino alla Cardinale. Le attrici sul set erano seviziate da Piero, la parola d’ordine era il busto perché nell’Ottocento il canone di bellezza femminile esigeva un girovita strettissimo. Eravamo strizzate, a cominciare da Claudia, che risultava meravigliosa ma rischiava continuamente di svenire. Nella scena del picnic ero riuscita, con la complicità di una sarta, a non indossarlo, Tosi se ne accorse da cento metri di distanza, vide come mi muovevo e capì immediatamente. Fui rimproverata ma compresi per la prima volta quanto è importante un costume per definire un’epoca ed un personaggio». Si dice che il corpetto del celebre abito che Claudia Cardinale indossò per il finale era talmente stretto da permettere ad Alain Delon di cingerle la vita usando una sola mano.
Lo sfarzo con cui ogni cosa venne realizzata fece levitare i costi a tre miliardi di lire. La Titanus riuscì a farsi anticipare un miliardo e mezzo dalla 20th Century Fox - che avrebbe distribuito il film all’estero - ma la lavorazione continuò a dilatarsi oltre il previsto. Tra realtà e leggenda una volta Lombardo ricordò in un'intervista: «Lavorare con Visconti significava avere completa fiducia in lui - come del resto non si poteva non avere - e disponibilità a tutto ciò che voleva perché tanto non c’era niente da fare. Visconti, innamorato di questo film, volle l’assurdo dell’assurdo. Girando in Sicilia, e non dico sulle Alpi, pretese che gli arrivassero ogni giorno da San Remo con l’aereo quintali e quintali di fiori freschi per abbellire determinate scene. In quella famosa del ballo volle tutti i numerosi lampadari della sala illuminati con le candele vere. Naturalmente con il calore dei proiettori queste candele si squagliavano e di conseguenza, oltre il trambusto iniziale per accenderle, c’era quello di interrompere la lavorazione ogni ora, per prendere di nuovo le scale di legno, cambiare le candele, a centinaia, e riaccenderle. Sempre nella scena del ballo, tutti gli uomini portavano i guanti bianchi. Per il caldo e l’inevitabile bagno di sudore, i guanti dopo alcune ore si ombravano. Nessuno lo avrebbe notato e tanto meno la macchina da presa, ma Visconti si, e pretese che impiantassimo sul luogo una lavanderia con una cinquantina di donne addette a lavarli, perché non poteva girare se i guanti non erano proprio immacolati!».
Anche il lavoro sui personaggi fu svolto con cieca dedizione. Visconti chiedeva ai suoi attori di immergersi nel contesto storico. Significative furono, in questo senso, le parole di Burt Lancaster: «C’era un momento in cui prendevo qualcosa da un mobile. Vidi che il cassetto era pieno di indumenti, così domandai a Rotunno, l’operatore, se dovesse inquadrarli, lui mi rispose di no. Chiesi per quale ragione fossero li e Visconti mi disse: perché sono tuoi, devi sentirli, toccarli, fanno parte di te. Insistetti domandando se allora dovevo guardare gli oggetti sul tavolo e lui mi rispose: è tutta roba tua, sono sempre stati li, sono la tua vita e perciò tu non ci badi». Anche la Cardinale - che per gran parte della lavorazione fece la spola tra la Sicilia e Cinecittà, dove stava girando 8½ (1963) con Federico Fellini - ricorderà che nella borsetta portata durante la festa della scena finale Visconti aveva fatto inserire un carnet de bal e piccoli oggetti da toletta che le sarebbero serviti per immedesimarsi, ma che nessuno avrebbe mai visto.
L’ultimo ciak del film fu battuto nel settembre del 1962 e, dopo un impegnativo lavoro di montaggio e composizione delle musiche da parte di Nino Rota, il 28 marzo 1963 venne mostrato a Roma. Il successo del Gattopardo non arrivò immediatamente; le prime recensioni furono assai tiepide ed all’estero venne considerato troppo lungo. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti la Fox lo rilasciò in una versione - rimaneggiata dal giovane Sidney Pollack su indicazione di Burt Lancaster - di quaranta minuti più breve rispetto all’originale. Quando però, nel maggio dello stesso anno, venne presentato al Festival di Cannes - all’epoca era più comune che i film in concorso fossero già stati distribuiti in sala - fu finalmente riconosciuto e premiato, ottenendo la Palma d’Oro con l’unanimità della giuria. Anche se i numeri al botteghino cominciarono a salire, i rientri troppo scaglionati mandarono la Titanus sull’orlo della bancarotta. Le cause non vanno imputate solamente all’epopea di Visconti ma anche, e sopratutto, alla grandissima perdita finanziaria che Lombardo aveva dovuto subire con Sodoma e Gomorra (1962). Questo kolossal biblico, infatti, indebolì drasticamente le casse Titanus a causa, ancora una volta, delle alte spese e di una disputa legale creatasi tra il regista Robert Aldrich - autore di un cinema grintoso e modernista ma profondamente inadatto alla direzione del film - e la casa di produzione. Quando si arrivò al montaggio, Lombardo congedò Aldrich, che avviò quindi un’azione legale, scatenando la disapprovazione della distribuzione americana che decise di non rilevare il film. Il produttore riuscì però a cavarsela, tutti dimenticarono «l’incidente» di Sodoma e Gomorra, e la Titanus, seppur danneggiata - dal 1964 si dedicherà prevalentemente alla distribuzione - sopravvisse potendo vantare Il Gattopardo tra i suoi lavori più maestosi.Vedere quest’opera significa assaporare, oggi più che mai, la vera essenza della settima arte e godere di una delle opere più incredibili della storia del cinema.