La vita e l'opera di un genio ribelle,
di Alberto de Carolis Villars
TR-75
11.02.2023
«Se dovessero dirmi: ti restano vent’anni da vivere, cosa vuoi fare delle ventiquattro ore di ogni singolo giorno di vita?, risponderei: datemi due ore di vita attiva e ventidue di sogno, a patto di potermene ricordare poiché il sogno esiste soltanto attraverso la memoria che lo accarezza. Adoro il sogno, anche se si tratta di un incubo, come quasi tutti i miei sogni. Perennemente disseminati di ostacoli, che conosco e riconosco. Ma la cosa mi è indifferente. Dicono che nel sonno il cervello si protegga dal mondo esterno, che sia molto meno sensibile ai rumori, agli odori, alla luce. In compenso, sembra che sia bombardato di dentro da una vera tempesta di sogni che dilaga a ondate. Miliardi e miliardi d’immagini sorgono così ogni notte, per svanire quasi immediatamente, avvolgendo la terra in un mantello di sogni perduti». Queste parole, scritte da Luis Buñuel in un passo della sua autobiografia, rispecchiano fedelmente il percorso di una poetica perseguita per oltre quarant’anni. Di fatto, per poter assimilare appieno la visione di un cineasta così essenziale, bisogna prima di tutto comprendere che in Buñuel opera e vita si fondono, e confondono, irrimediabilmente. L’intera filmografia di questo autore non è che il frutto di una peculiarissima, ma non per questo illogica, visione del mondo e dei rituali che lo dominano. La lente deformante con cui Buñuel ha sempre «interpretato» la realtà non è che un mezzo per far emergere i perversi meccanismi che ne infestano le fondamenta. È così che il sesso, l’ordine costituito, la borghesia, la religione vengono spogliati delle loro «protettive vesti di sacralità» per essere colpiti e sviscerati nel profondo.
Luis nacque a Calanda, cittadina della Bassa Aragona, il 22 febbraio del 1900. Primo di sette fratelli visse un’infanzia placida, frutto dell’agiata condizione economica della sua famiglia, appesantita soltanto dal, a tratti decisamente oppressivo, clima religioso-borghese della provincia. L’osservazione di una società spiritualmente superstiziosa e spaccata in una netta divisione tra le classi sociali - Buñuel stesso la definì come «isolata in una sorta di Medioevo immobile» - contribuì a comporre, nella mente del futuro regista, le prime coordinate per la creazione del suo universo filmico. Di quel periodo dirà: «Proprio a Calanda devo i miei primi incontri con la morte che, insieme ad una fede profonda e al risveglio dell’istinto sessuale, compongono le forze vive della mia adolescenza». L’irriverente temperamento e la spiccata personalità artistica di Buñuel si palesarono fin dalla giovane età. In un articolo di memorie la sorella Conchita ricorderà: «Era durante il pasto serale che noi di famiglia ci informavamo, emozionati, della vita di mio fratello in collegio. Una volta Luis affermò di aver tirato fuori dalla minestra, durante il pasto di mezzogiorno, un fetido e nero paio di mutandoni gesuitici. Mio padre, che in qualsiasi circostanza difendeva sempre e comunque collegio e professori, si rifiutò di credergli. Dato che insisteva venne espulso dalla sala da pranzo, e uscì tutto dignitoso, dicendo, come Galileo: Eppure le mutande c’erano!». Era il 1917 quando Buñuel si sistemò alla Residencia de estudiantes, esclusiva pensione universitaria su modello dei college inglesi, un luogo di grande fermento culturale. Qui stringerà una solida amicizia con Federico García Lorca, che diventerà uno dei più importanti drammaturghi del teatro novecentesco, e Salvador Dalí Domenech, futuro pittore di fama mondiale. Il loro rapporto divenne un continuo scambio di pensieri sugli argomenti più svariati - politica, musica, psicologia - fino al punto che, ad oggi, si fa fatica a comprendere chi abbia influenzato chi.
Dopo aver terminato gli studi, Luis si trasferì a Parigi. Qui il giovane ebbe modo di avvicinarsi alla settima arte iniziando a scrivere per una serie di riviste dedicate al cinema. In seguito racconterà: «Vedevo film fino a tre volte al giorno. Tra quelli che mi colpirono, impossibile dimenticare la grande emozione per La corazzata Potëmkin. All’uscita eravamo pronti a fare le barricate e dovette intervenire la polizia. Ricordo anche i film di Pabst, L’ultima risata di Murnau, ma sopratutto Destino, di Fritz Lang. Qualcosa in quel film mi toccò profondamente, portando una luce nella mia vita». Il primo contatto diretto con quello che concerne la lavorazione di un film arrivò poi grazie alla frequentazione dell’Académie du cinéma, una scuola tecnico-pratica diretta dal regista Jean Epstein, pilastro delle sperimentazioni avanguardiste del cinema francese degli anni Venti. Buñuel, appassionato studente dei corsi di Epstein, lo assistette per le riprese di Mauprat (1926) e La Chute de la Maison Usher (La caduta della casa Usher, 1928). Proprio durante la seconda metà del decennio Luis, assiduo frequentatore dei circoli artistici parigini, cominciò, contravvenendo agli avvertimenti di Jean Epstein, ad avvicinarsi al movimento surrealista. L’impeto anarchico, il ricorso al sogno, l’invito a guardare verso una dimensione irrazionale, e la spinta alla ribellione nei confronti di una società fasulla e claustrofobica - tutte caratteristiche che poi definiranno il suo cinema - rendevano questa avanguardia artistica incredibilmente affascinante ai suoi occhi.
Il 1929 rappresentò una data estremamente significativa per la sua vita e, indubbiamente, per il corso dell’intera storia del cinema. In comune accordo con Dalí - nel frattempo giunto anche lui a Parigi - Buñuel decise di realizzare un cortometraggio muto di nome Un chien andalou (Un cane andaluso, 1929). Descrisse così l’origine della sua prima opera cinematografica: «Dissi a Dalí che avevo sognato una nuvola lunga e sottile che tagliava la luna e una lama di rasoio che spaccava un occhio. In risposta lui mi raccontò che la notte prima aveva visto in sogno una mano piena di formiche. Aggiunse che avremmo dovuto ricavare un film dai due sogni. La sceneggiatura fu scritta in meno di una settimana secondo una semplicissima regola, ossia non accettare alcuna idea, alcuna immagine in grado di condurre a una spiegazione razionale, psicologica o culturale». Così, con una troupe composta da sole sei persone, e in una quindicina di giorni appena, Buñuel realizzò il suo primo capolavoro. Il risultato fu un prodotto totalmente avveniristico, un’opera che, stravolgendo le convenzioni dello sguardo, andava a minare le basi della classica struttura narrativa di un film. In un «flusso di coscienza» delirante - la pellicola dura in tutto 21 minuti - il regista disorienta costantemente lo spettatore, smarrendolo in un labirinto dove le consuetudini del vedere, e del capire, perdono ogni significato. Ciò che però ad oggi impressiona è constatare come in quest’opera prima si possa chiaramente vedere un’ispirazione già matura e perfettamente cosciente di sé. Il neo-cineasta riuscì a destreggiarsi all’interno del puro caos, donando un ordine inconscio ad una folle, e incontrollata, sequela di immagini. L’opera destò grande interesse negli ambienti intellettuali e fu, in un certo senso, un lascia-passare che permise a Buñuel e Dalí - i cui meriti all’interno del film sono stati, troppo spesso, ingigantiti - di subentrare nella ristretta cerchia del gruppo surrealista.
«Dopo Un chien andalou, era impensabile per me realizzare uno di quei film che chiamavano già commerciali». Fedele a queste parole, Buñuel si rifiutava categoricamente di subentrare in contesti produttivi dove la sua libertà di espressione correva il rischio di essere dominata. L’occasione di poter girare un’opera che riuscisse a eguagliare il suo primo, folle, capolavoro si presentò grazie a Charles e Marie-Laure de Noailles. I de Noailles, ricchi e influenti mecenati d’arte, si erano mostrati ben disposti a finanziare un film dell’autore. Buñuel pensò quindi di coinvolgere nuovamente Dalí nella scrittura del copione, ma il pittore, ormai sempre più succube della nefasta influenza di Gala - sua futura moglie - si dimostrò poco collaborativo. Il regista decise di terminare in solitaria, e fu così che ideò L'âge d’or (1930), il suo primo lungometraggio sonoro. Grazie ad un meticoloso lavoro di sceneggiatura l’opera è provvista, a differenza di Un chien andalou, di una rete di trame. Il film segue le vicende di due innamorati che tentano, senza successo, di consumare la loro relazione platonica venendo continuamente inibiti dai tabù borghesi, dalla famiglia e dalle istituzioni religiose e militari. La visione, profondamente irriverente, satirica e grottesca, con cui Buñuel osserva gli eventi, svela un articolato insieme di «azioni e interazioni che si sviluppano in parallelo al narrato vero e proprio e che ne costituiscono l’autentico motivo portante. In questo film infatti, come nel precedente, l’attenzione dell’autore non è rivolta alla storia dei personaggi quanto al complesso degli elementi che la contrappuntano, la contraddicono o la intralciano». Mentre riscosse grandi consensi all’interno del gruppo surrealista, L'âge d’or scatenò l’indignazione tra i benpensanti. Il violento attacco al clero - come i vescovi che mutano in scheletri o l’alto prelato che, in abiti cerimoniali, viene scaraventato da una finestra - e la totale ridicolizzazione del falso moralismo dei potenti portarono a vietare la proiezione del film nelle sale pubbliche francesi fino al 1981.
La proclamazione della Repubblica - il 14 aprile del 1931 - e il graduale disfacimento del gruppo surrealista, lo spinsero a ristabilirsi in Spagna. Nel 1933, grazie a un modesto finanziamento dell’insegnante anarchico Ramón Acín, girò Las Hurdes (Terra senza pane), un documentario antropologico sulle disperate condizioni di vita degli abitanti dell’Estremadura, poverissima comunità autonoma della Spagna sud-occidentale. Per questa testimonianza scioccante l’autore si avvalse della sua «schiettezza estetica» per permeare ogni fotogramma di morte. Buñuel impresse nei suoi movimenti di camera una fluidità ed un'ampiezza straordinari, immettendo nella pellicola un gioco di contrasti estremante provocatorio e comunicativo. Nel 1934 convolò a nozze con la compagna Jean Rucar, che nello stesso anno mise al mondo Juan, primogenito della coppia. Con lo scoppio della guerra civile - il 17 luglio 1936 - e dopo l’uccisione di García Lorca, il regista prese la decisione di tornare in Francia. Anni dopo, narrando di quel periodo scellerato, avrebbe dedicato queste struggenti parole all’amico: «Federico è il più importante di tutti gli esseri umani che ho conosciuto. Non riesco a immaginare qualcuno simile a lui. Che si mettesse al pianoforte per imitare Chopin, che improvvisasse una pantomima, una breve scena teatrale, era irresistibile. Poteva leggere una cosa qualsiasi, e la bellezza usciva sempre dalle sue labbra. Aveva la passione, la gioia, la gioventù. Quando l’ho conosciuto alla Residenza universitaria, ero solo un atleta di provincia alquanto rozzo. Con la forza della nostra amicizia, lui mi ha fatto conoscere un altro mondo».
La permanenza a Parigi non durò che fino al 1939. Le sorti dell’Europa erano ormai segnate, e il secondo conflitto mondiale risultava imminente. Assunto a Hollywood per la consulenza di Cargo of Innocents - lungometraggio sulla guerra civile spagnola che non superò mai la fase di pre-produzione - partì per Los Angeles dove, nel 1940, la moglie Jeanne diede alla luce un secondo figlio: Rafael. Il rapporto con gli Studios si rivelò però fallimentare, e la famiglia si spostò a New York, dove Luis aveva trovato un impiego presso il Museum of Modern Art. Dopo poco tempo, la pubblicazione del libro La vita segreta (1942) di Dalí, in cui Buñuel veniva definito ateo - forte accusa per l’America puritana degli anni Quaranta - provocò il suo immediato licenziamento. Solo nel 1946 riuscì a entrare in contatto con Oscar Dancingers, un produttore francese che gli propose di realizzare dei film in Messico. Buñuel accettò e, dopo uno stacco di tredici anni dalla sua ultima regia, si trasferì a Città del Messico. Sebbene i primi lungometraggi finanziati da Dancingers fossero dei puri prodotti di confezione, diedero all’autore la possibilità di rientrare in confidenza con il mezzo, e di inserire, qui e là, quelle sfumature irriverenti che torneranno con maggiore prepotenza nel suo cinema successivo. Nonostante le limitazioni a cui fu soggetta la sua intera carriera, Buñuel ribadì, in ogni suo film, che il surrealismo poteva essere «la sola chiave di interpretazione del mondo e l’unica forma adeguata ad esprimerla».
Con Los olvidados (I figli della violenza, 1950), cronache di ragazzini della periferia che devono giornalmente fronteggiare abusi e criminalità, realizzò un autentico pezzo d’arte in cui lo spirito di denuncia sociale, già incontrato in Las Hurdes, si fondeva con l’inconscio surrealista. Non a caso il critico Giorgio Tinazzi affermò: «Los olvidados, opera apparentemente oggettiva, dimostra che Buñuel intende la lezione surrealista come bisogno di incidere sulla realtà, di deformarla ma anche di svelarla con gli stessi strumenti dell’oggettività». Dopo essersi aggiudicato il premio per la miglior regia al Festival di Cannes con Los olvidados - riconoscimento che risollevò l’opera dal clima di ostilità con cui era stata accolta in Messico, regalandogli un grande, quanto inaspettato, successo in Europa - il regista divenne sempre più prolifico. Con i successivi Susana (Adolescenza torbida, 1951), Subida al cielo (Salita al cielo, 1952) e La ilusión viaja en tranvía (L’illusione viaggia in tranvai, 1953) consolidò i suoi peculiari schemi narrativi, immettendo, anche nei lungometraggi maggiormente commerciali, degli elementi inconsueti, che isolavano i suoi lavori dai tipici prodotti della così detta Epoca d'Oro del cinema messicano. In Él (Lui, 1953) - storia di un ricco possidente quarantenne che, giunto illibato al matrimonio, sviluppa la paranoica convinzione di essere perennemente raggirato da tutti coloro che lo circondano, compresa la giovane moglie - Buñuel contrappose quell’apologia dell’amore vista in L'âge d’or - fatta di liberazione da qualsiasi tabù - con la sua degradazione borghese. Attraverso uno studio sull’ossessione, e probabilmente influenzato dalla lettura di Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud, l’autore analizzò il diverbio tra essere e apparire, i nessi tra sesso e denaro, e il soffocamento, che porta all’autodistruzione, dei più oscuri impulsi umani.
Con Abismos de pasión (Cime Tempestose, 1953) Buñuel coronò il sogno di filmare il celebre romanzo di Emily Brontë, testo che per la sua prorompente irruenza rientrava nel corollario delle opere letterarie predilette dai surrealisti. Il regista diede vita al suo secondo adattamento letterario dopo Robinson Crusoe (Le avventure di Robinson Crusoe, 1952) sconvolgendo a tratti la storia ma rimanendo, grazie alla sua visione allucinatoria e straniante, fedele allo spirito decadentista del libro. In Ensayo de un crimen (Estasi di un delitto, 1955) proseguì invece la sua spietata disamina della «perversa» società capitalista. Attraverso il plot di un uomo ossessionato da una sequela di delitti mai commessi, diede vita a un lungometraggio condito da un insolito humor nero. Così Gianni Volpi definì l’opera: «Una serie di surrealistici atti mancati, inestricabilmente legati a freudiani sensi di colpa di un educazione borghese e cattolica. Disseminato di tracce e oggetti inquietanti, tra forni di fiamme genialmente horror, manichini come doppi, rasoi ripresi da Un chien andalou, carillon di magia assassina, tra feticismi e fantasie come inserti rudemente dialettici, Ensayo de un crimen è un gioco sublime, entomologico di criminalità inespressa, un gioco di eros e impotenza sin nella morte».
Il successivo El río y la muerte (Le rive della morte, 1955), in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, fu un’occasione per proseguire l’indagine - cominciata in Las Hurdes e perpetuata in Los olvidados - sulla sopravvivenza dell’essere umano in contesti estremi. Sempre più stimato da critica e pubblico, si riavvicinò alla cinematografia del vecchio continente dirigendo il melodrammatico Cela s'appelle l’aurore (Gli amanti di domani, 1955) e i distopici La Mort en ce jardin (La selva dei dannati, 1956) e La Fièvre monte à El Pao (L’isola che scotta, 1959), film di coproduzione franco-messicana. Del 1958 è invece Nazarín, uno dei picchi imprescindibili del suo intero operato, e primo capitolo di un'ipotetica trilogia - continuata con Viridiana (1961) e terminata con Simón del desierto (Intolleranza: Simon del deserto, 1965) - dedicata ai «santi falliti». Incorniciato da una straordinaria bellezza formale, e popolato da figure di biblica memoria - prostitute, mendicanti, peccatori, assassini - il film è una rivisitazione, al rovescio, delle gesta di Cristo. Il protagonista, Padre Nazario, è un uomo che, a differenza del messia, fallisce continuamente. I suoi atti di fede provocano crisi esistenziali, isterie religiose o violenti rifiuti - da manuale la sequenza in cui una donna malata di peste e di fronte alla morte respinge l’estrema unzione del prete per farsi confortare dal bacio dell'amante - fino a portare l’uomo a odiare la propria vocazione. Inoltre, nel lungometraggio, Buñuel non si risparmiò l’occasione di lanciare, attraverso l’ambientazione - il Messico di fine Ottocento sotto la dittatura di Porfirio Díaz - una chiara stoccata al regime franchista. Il Festival di Cannes, riconoscendo nuovamente il talento visionario del regista, assegnò a Nazarín il Prix international.
Nel 1961 Viridiana segnò la prima, ispirata, collaborazione con il produttore Gustavo Alatriste che, a differenza di Dancingers - fedele amico di Buñuel, ma uomo indissolubilmente legato alle logiche di mercato - concesse all’autore piena libertà creativa. Con il suo rientro nell’Onu e il consolidamento del potere di Francisco Franco, la Spagna si stava avviando verso un processo di pseudo-normalizzazione che comprendeva gesti di clemenza nei confronti degli «esuli traditori». Fu così che, convinto da Alatriste, il regista tornò a girare, dopo ventiquattro anni di assenza, un film co-prodotto e ambientato nella sua terra natia. Viridiana è la storia di una novizia che, in procinto di prendere i voti, viene richiamata nella dimora del vecchio zio. Giunta nella tenuta, la ragazza, si imbatterà in un carosello di personaggi - ognuno con le proprie ossessioni erotico-religiose - e assisterà ad una serie di episodi che arresteranno qualsiasi suo tentativo di avvicinarsi a Dio. Come una sorta di incubo spirituale disseminato di richiami al sacro - dalla piccola croce che si trasforma in un pugnale, alla corona di spine disintegrata dal fuoco, fino all’orgia blasfema dei vagabondi, che riproduce iconograficamente l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci - il film è una feroce, amara riflessione, sulla morte della fede e il crollo delle illusioni umane. L’opera scatenò l’indignazione generale, venendo dichiarata «inesistente» in Spagna e «vilipendiosa» dalla Chiesa cattolica. Anche in questo caso il Festival di Cannes corse in soccorso di Buñuel consegnando al lungometraggio la Palma d’Oro in ex-aequo con Une aussi longue absence (L’inverno ti farà tornare, 1961) di Henri Colpi.
Barocco, criptico, imperscrutabile, con El ángel exterminador (L’angelo sterminatore, 1962) il regista firmò uno dei suoi lavori più celebri, e cerebrali. Da una sceneggiatura scritta anni prima - e inizialmente intitolata Los naufragos de la calle de la Providencia - la pellicola è un esasperante, quanto diabolico, gioco al massacro che non risparmia colpi a nessuno. La trama segue un gruppo di esponenti dell’alta società messicana che, radunatisi in un salotto in occasione di una cena mondana, non ne riescono, per qualche strano sortilegio, più ad uscire. Affamati, terrorizzati e alla deriva mentale e fisica, caleranno le loro maschere di perbenismo, svelando tutta la loro inconsistenza. Sotto la tagliente ironia delle battute, Buñuel sfoga il suo rammarico nei confronti di una classe che, sentendosi al di là del bene e del male, pecca, ineluttabilmente, di egoismo e cupidigia. Italo Calvino definì l’opera «un mito moderno, oscuro eppure carico di senso, e tutto dentro alla crisi occidentale e cristiana», mentre Glauber Rocha sottolineò come il regista si servisse del cinema «per far scontrare i suoi personaggi con il loro inconscio». Con il seguente Le journal d'une femme de chambre (Il diario di una cameriera, 1964), una produzione interamente francese, Buñuel diede inizio a una prolifica collaborazione con Jean-Claude Carrière, talentuoso scrittore dalle forti tendenze surrealiste, con cui firmerà, a quattro mani, altre sei sceneggiature.
La difficile condizione in cui versava la cinematografia messicana durante gli anni Sessanta influenzò drasticamente la sua opera successiva. Simón del desierto (Intolleranza: Simon del deserto, 1965), che si ispira, e reinventa, la bizzarra biografia di Simeone lo stilita - asceta vissuto tra il 390 e il 459 d.C. - fu un film segnato da enormi problemi realizzativi. Gustavo Alatriste - produttore di Viridiana e El ángel exterminador - trovandosi nel mezzo di una grave perdita finanziaria, fu costretto a interrompere l’intero progetto e a chiedere a Buñuel di montare la pellicola con il solo materiale che era riuscito, fino a quel momento, a filmare. Nonostante l’eliminazione di scene chiave, e il drastico cambiamento della durata - che trasformarono l’opera in un mediometraggio di 45 minuti - Simón del desierto risulta una dei lavori che meglio esprimono la visione dell’autore sul mondo e sulla spiritualità. Buñuel una volta si definì «ateo per grazia divina», una frase erroneamente interpretata come una dichiarazione di miscredenza. Ciò che molti paradossalmente ignorano, è il fatto che il cineasta riuscì, invece, a creare un sua forma di misticismo cinematografico che rileggeva, e metteva in discussione, i dogmi del Cristianesimo. Ripercorrendo attentamente la sua filmografia, costantemente ispirata dalla religione e dal racconto picaresco, ci si renderà facilmente conto di come sia erroneo definirlo totalmente privo di una sua, seppur personale, fede. Nonostante tutte le peripezie della sua lavorazione, Simón, presentato in concorso alla ventiseiesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, si aggiudicò il Leone d’Argento.
La vittoria veneziana del gran premio della giuria fu un episodio premonitore, poiché, nel 1967, Buñuel tornò in concorso con Belle de jour (Bella di giorno) accaparrandosi il Leone d’Oro, ed entrando, definitivamente, nel gotha dei grandi autori del cinema. Questo trionfo rappresentò un’inaspettata sorpresa. Infatti, solo pochi mesi prima, il film era stato scartato dal comitato di selezione del Festival di Cannes per «insufficienza artistica». Belle de jour, ispirata da un romanzo di Joseph Kessel, è un’opera che si aggira tra le influenze novellistiche di de Sade - autore «scandaloso» di estrema rilevanza nell’universo buñueliano - e che analizza i segreti, e le nevrosi, dei suoi personaggi avvalendosi di un punto di vista freudiano. La storia è quella di Séverine, giovane e ricca donna alto-borghese che, sposata ad un promettente chirurgo, si ritrova insoddisfatta della propria condizione. Sulla scia di questo malessere deciderà di recarsi in una casa di appuntamenti dove si prostituirà, in segreto, nelle ore diurne. La pellicola è caratterizzata da una continua oscillazione tra uno sguardo onnisciente sugli eventi narrati e la personale percezione della protagonista, un’oscillazione che porta lo spettatore a non saper più distinguere tra la realtà e l’immaginazione. E così si vaga, fra episodi che potrebbero essere irreali oppure no, fantasie, erotismi inespressi e characters che, alle volte, sembrano solo delle proiezioni partorite dalla mente di Séverine. Questo insieme di elementi rendono Belle de jour un tassello fondamentale nella descrizione che Buñuel compie della labile linea che separa la dimensione fisica dal subconscio.
Ormai riconosciuto come cineasta di fama mondiale, e alla soglia dei settant’anni, Buñuel realizzò La Voie lactée (La via lattea, 1969), un film fino a quel momento profondamente desiderato. Tramite la cronaca del cammino che due clochards compiono da Parigi a Santiago de Compostela, il regista traccia una sorta di contro-storia del cattolicesimo. Tutti i personaggi del film si ritrovano così testimoni, o protagonisti , di una serie di episodi - che passano senza soluzione di continuità dal Novecento all’Età dei Lumi, dal Medioevo all’era di Gesù Cristo - dibattendo e interrogandosi continuamente.
Quando, nel 1970, Tristana venne selezionato per essere presentato fuori competizione a Cannes, le incomprensioni nate con il rifiuto di Belle de jour, tra Buñuel e quel festival che tante volte lo avevo protetto e riconosciuto, sembrarono scomparire. La storia, rispetto alla fonte letteraria, venne spostata dalla Madrid ottocentesca alla Toledo degli anni Venti e Trenta, una scelta di modernizzazione già effettuata per Le journal d'une femme de chambre. Il seguente Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia, 1972), definito dal critico Claudio G. Fava come «un’antologia che ha le movenze di una commedia ironica e il sapore di una favola tragica», permise all’autore di essere acclamato da quell’America che troppe volte lo aveva bistrattato. Alla cerimonia degli Academy Awards del 1973 l’opera venne nominata nella categoria per la migliore sceneggiatura originale e incoronata con l’Oscar al miglior film straniero. Insieme a L'âge d’or e El ángel exterminador, Le charme discret de la bourgeoisie è l’ultimo dei tre «grandi attacchi» che il regista sferra verso la classe borghese nell’arco di quarantadue anni. Nei lungometraggi è interessante notare come certi rituali del borghesismo che Buñuel analizza si evolvano, mentre altri rimangano, monoliticamente, immutati. La storia di Le charme ruota attorno a un gruppo di esponenti del bel mondo parigino - tra cui l’ambasciatore di Miranda, un’immaginaria repubblica delle banane ricca e corrotta - che tentano, più e più volte di organizzare una cena, venendo continuamente inibiti da bizzarri accadimenti. Attraverso digressioni e salti temporali l’autore sottolinea i peccati di un’umanità che, sotto il velo del distacco e della raffinatezza, nasconde un universo dove vizio e malaffare regnano sovrani. Il film è interamente costruito su un insieme di situazioni paradossali incastonate le une nelle altre con ingegnoso controllo, e attraverso le quali si può intravedere il barlume di una realtà ancor più folle del sogno.
In quello stesso periodo Buñuel, di soggiorno a Los Angeles per presentare il suo nuovo film, venne invitato da George Cukor ad una reuninon dove parteciparono alcuni dei più grandi nomi della regia. Nella sua biografia il cineasta descrisse quello storico avvenimento: «Fu una colazione memorabile. Arrivato per primo nella bellissima casa di Cukor vidi entrare, semi portato da un maggiordomo tutto muscoli, un vecchio spettro tentennante, con l'occhio bendato, che riconobbi come John Ford. Con mia grande sorpresa - pensavo che ignorasse tutto di me - mi si avvicinò, sedette sul divano e disse che era felice del mio ritorno a Hollywood. In quel momento, udimmo dei passettini strascicati sul pavimento. Mi voltai, era Hitchcock, bello, roseo e rotondo, che mi veniva incontro a braccia tese. Non avevo mai visto neanche lui ma sapevo che mi aveva spesso lodato pubblicamente, pretese di stare alla mia sinistra durante la colazione. Mi parlava della sua cantina, della sua dieta - mangiava pochissimo - e soprattutto della gamba tagliata in Tristana; Ah quella gamba! Poi, arrivarono William Wyler, Billy Wilder, George Stevens, Ruben Mamoulian, Robert Wise e un regista molto più giovane, Robert Mulligan. Da Ben-Hur a West Side Story, da A qualcuno piace caldo a Notorius, da Ombre rosse al Gigante…quanti film intorno a quella tavola. Il giorno dopo, Fritz Lang mi invito a casa sua. Troppo stanco, non era potuto venire a colazione da Cukor. Quell'anno, di anni, io ne avevo 72, e Fritz Lang più di 80. Ci vedevamo per la prima volta. Chiacchierammo per un’ora ed ebbi il tempo di dirgli quanto fossero stati decisivi, i suoi film, nella scelta della mia vita. Poi, prima di lasciarlo, cosa che non faccio mai, gli chiesi una foto con dedica».
La formula di una realtà totalmente grottesca trovò in Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà, 1974) la sua forma definitiva. L’inconsueta struttura del film, suddiviso in una serie di sketch connessi tra loro attraverso la logica del dominio - ossia l’arrivo di nuovi personaggi che, pian piano, si sostituiscono a quelli già presenti sulla scena - permise a Buñuel di esprimere senza freni «l'amore tipicamente surrealista per il rovesciamento», e quel suo «gusto per l'allegoria clamorosa». E così il film si frantuma in una catena di sequenze che ci mostrano una società totalmente ribaltata: da una concitata riunione di preti che si contendono a poker una serie di santini della Vergine Maria, a uno struzzo che fa irruzione nella camera da letto di due coniugi, da una classe di gendarmi che si comportano come scolaretti fino a una cena in cui gli invitati siedono, attorno al tavolo, su dei water, per poi recarsi in bagno dove consumano, in modo furtivo e animalesco, il loro pasto. Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), ultimo film del regista, ruota attorno alla travagliata storia d’amore di Mathieu, un danaroso uomo di mezza età, e Conchita, giovane ballerina spagnola. La caratterizzazione della protagonista femminile ha una particolarità: Buñuel scelse due attrici - Ángela Molina e Carole Bouquet - per interpretare il medesimo ruolo. Così, per tutto il corso della pellicola, le due interpreti si alternano continuamente, regalando al personaggio multiformi sfaccettature e accrescendo il suo grado di ambiguità. La libertà stilistica, e la totale immersione nell’assurdo delle ultime, grandi, opere di Buñuel, sembra riconnettersi direttamente a L'âge d’or e Un chien andalou. Quasi che il regista, in questa fase finale della sua carriera volesse ritornare spiritualmente ai suoi esordi, per ritrovare quella totale «provocazione estetica» e quel «fermento artistico» che aveva contraddistinto i suoi primi anni da cineasta.
Tormentato da problemi di salute spirò il 29 luglio del 1983 a Città del Messico - rimasto suo domicilio fisso dal 1946 - con Jean Rucar al suo fianco, la moglie che mai lo aveva abbandonato. L’irriverenza poetica, la brutalità delle sue ammonizioni, e la capacità di vedere oltre le cose attraverso l’occhio impietoso della macchina da presa hanno scolpito Buñuel nell’eterna memoria del cinema. Le origini dell’estro buñueliano sono il frutto delle esperienze di una vita vissuta perennemente in bilico tra follia e lucidità, sogno e universo materiale, santità ed eresia.
La vita e l'opera di un genio ribelle,
di Alberto de Carolis Villars
TR-75
11.02.2023
«Se dovessero dirmi: ti restano vent’anni da vivere, cosa vuoi fare delle ventiquattro ore di ogni singolo giorno di vita?, risponderei: datemi due ore di vita attiva e ventidue di sogno, a patto di potermene ricordare poiché il sogno esiste soltanto attraverso la memoria che lo accarezza. Adoro il sogno, anche se si tratta di un incubo, come quasi tutti i miei sogni. Perennemente disseminati di ostacoli, che conosco e riconosco. Ma la cosa mi è indifferente. Dicono che nel sonno il cervello si protegga dal mondo esterno, che sia molto meno sensibile ai rumori, agli odori, alla luce. In compenso, sembra che sia bombardato di dentro da una vera tempesta di sogni che dilaga a ondate. Miliardi e miliardi d’immagini sorgono così ogni notte, per svanire quasi immediatamente, avvolgendo la terra in un mantello di sogni perduti». Queste parole, scritte da Luis Buñuel in un passo della sua autobiografia, rispecchiano fedelmente il percorso di una poetica perseguita per oltre quarant’anni. Di fatto, per poter assimilare appieno la visione di un cineasta così essenziale, bisogna prima di tutto comprendere che in Buñuel opera e vita si fondono, e confondono, irrimediabilmente. L’intera filmografia di questo autore non è che il frutto di una peculiarissima, ma non per questo illogica, visione del mondo e dei rituali che lo dominano. La lente deformante con cui Buñuel ha sempre «interpretato» la realtà non è che un mezzo per far emergere i perversi meccanismi che ne infestano le fondamenta. È così che il sesso, l’ordine costituito, la borghesia, la religione vengono spogliati delle loro «protettive vesti di sacralità» per essere colpiti e sviscerati nel profondo.
Luis nacque a Calanda, cittadina della Bassa Aragona, il 22 febbraio del 1900. Primo di sette fratelli visse un’infanzia placida, frutto dell’agiata condizione economica della sua famiglia, appesantita soltanto dal, a tratti decisamente oppressivo, clima religioso-borghese della provincia. L’osservazione di una società spiritualmente superstiziosa e spaccata in una netta divisione tra le classi sociali - Buñuel stesso la definì come «isolata in una sorta di Medioevo immobile» - contribuì a comporre, nella mente del futuro regista, le prime coordinate per la creazione del suo universo filmico. Di quel periodo dirà: «Proprio a Calanda devo i miei primi incontri con la morte che, insieme ad una fede profonda e al risveglio dell’istinto sessuale, compongono le forze vive della mia adolescenza». L’irriverente temperamento e la spiccata personalità artistica di Buñuel si palesarono fin dalla giovane età. In un articolo di memorie la sorella Conchita ricorderà: «Era durante il pasto serale che noi di famiglia ci informavamo, emozionati, della vita di mio fratello in collegio. Una volta Luis affermò di aver tirato fuori dalla minestra, durante il pasto di mezzogiorno, un fetido e nero paio di mutandoni gesuitici. Mio padre, che in qualsiasi circostanza difendeva sempre e comunque collegio e professori, si rifiutò di credergli. Dato che insisteva venne espulso dalla sala da pranzo, e uscì tutto dignitoso, dicendo, come Galileo: Eppure le mutande c’erano!». Era il 1917 quando Buñuel si sistemò alla Residencia de estudiantes, esclusiva pensione universitaria su modello dei college inglesi, un luogo di grande fermento culturale. Qui stringerà una solida amicizia con Federico García Lorca, che diventerà uno dei più importanti drammaturghi del teatro novecentesco, e Salvador Dalí Domenech, futuro pittore di fama mondiale. Il loro rapporto divenne un continuo scambio di pensieri sugli argomenti più svariati - politica, musica, psicologia - fino al punto che, ad oggi, si fa fatica a comprendere chi abbia influenzato chi.
Dopo aver terminato gli studi, Luis si trasferì a Parigi. Qui il giovane ebbe modo di avvicinarsi alla settima arte iniziando a scrivere per una serie di riviste dedicate al cinema. In seguito racconterà: «Vedevo film fino a tre volte al giorno. Tra quelli che mi colpirono, impossibile dimenticare la grande emozione per La corazzata Potëmkin. All’uscita eravamo pronti a fare le barricate e dovette intervenire la polizia. Ricordo anche i film di Pabst, L’ultima risata di Murnau, ma sopratutto Destino, di Fritz Lang. Qualcosa in quel film mi toccò profondamente, portando una luce nella mia vita». Il primo contatto diretto con quello che concerne la lavorazione di un film arrivò poi grazie alla frequentazione dell’Académie du cinéma, una scuola tecnico-pratica diretta dal regista Jean Epstein, pilastro delle sperimentazioni avanguardiste del cinema francese degli anni Venti. Buñuel, appassionato studente dei corsi di Epstein, lo assistette per le riprese di Mauprat (1926) e La Chute de la Maison Usher (La caduta della casa Usher, 1928). Proprio durante la seconda metà del decennio Luis, assiduo frequentatore dei circoli artistici parigini, cominciò, contravvenendo agli avvertimenti di Jean Epstein, ad avvicinarsi al movimento surrealista. L’impeto anarchico, il ricorso al sogno, l’invito a guardare verso una dimensione irrazionale, e la spinta alla ribellione nei confronti di una società fasulla e claustrofobica - tutte caratteristiche che poi definiranno il suo cinema - rendevano questa avanguardia artistica incredibilmente affascinante ai suoi occhi.
Il 1929 rappresentò una data estremamente significativa per la sua vita e, indubbiamente, per il corso dell’intera storia del cinema. In comune accordo con Dalí - nel frattempo giunto anche lui a Parigi - Buñuel decise di realizzare un cortometraggio muto di nome Un chien andalou (Un cane andaluso, 1929). Descrisse così l’origine della sua prima opera cinematografica: «Dissi a Dalí che avevo sognato una nuvola lunga e sottile che tagliava la luna e una lama di rasoio che spaccava un occhio. In risposta lui mi raccontò che la notte prima aveva visto in sogno una mano piena di formiche. Aggiunse che avremmo dovuto ricavare un film dai due sogni. La sceneggiatura fu scritta in meno di una settimana secondo una semplicissima regola, ossia non accettare alcuna idea, alcuna immagine in grado di condurre a una spiegazione razionale, psicologica o culturale». Così, con una troupe composta da sole sei persone, e in una quindicina di giorni appena, Buñuel realizzò il suo primo capolavoro. Il risultato fu un prodotto totalmente avveniristico, un’opera che, stravolgendo le convenzioni dello sguardo, andava a minare le basi della classica struttura narrativa di un film. In un «flusso di coscienza» delirante - la pellicola dura in tutto 21 minuti - il regista disorienta costantemente lo spettatore, smarrendolo in un labirinto dove le consuetudini del vedere, e del capire, perdono ogni significato. Ciò che però ad oggi impressiona è constatare come in quest’opera prima si possa chiaramente vedere un’ispirazione già matura e perfettamente cosciente di sé. Il neo-cineasta riuscì a destreggiarsi all’interno del puro caos, donando un ordine inconscio ad una folle, e incontrollata, sequela di immagini. L’opera destò grande interesse negli ambienti intellettuali e fu, in un certo senso, un lascia-passare che permise a Buñuel e Dalí - i cui meriti all’interno del film sono stati, troppo spesso, ingigantiti - di subentrare nella ristretta cerchia del gruppo surrealista.
«Dopo Un chien andalou, era impensabile per me realizzare uno di quei film che chiamavano già commerciali». Fedele a queste parole, Buñuel si rifiutava categoricamente di subentrare in contesti produttivi dove la sua libertà di espressione correva il rischio di essere dominata. L’occasione di poter girare un’opera che riuscisse a eguagliare il suo primo, folle, capolavoro si presentò grazie a Charles e Marie-Laure de Noailles. I de Noailles, ricchi e influenti mecenati d’arte, si erano mostrati ben disposti a finanziare un film dell’autore. Buñuel pensò quindi di coinvolgere nuovamente Dalí nella scrittura del copione, ma il pittore, ormai sempre più succube della nefasta influenza di Gala - sua futura moglie - si dimostrò poco collaborativo. Il regista decise di terminare in solitaria, e fu così che ideò L'âge d’or (1930), il suo primo lungometraggio sonoro. Grazie ad un meticoloso lavoro di sceneggiatura l’opera è provvista, a differenza di Un chien andalou, di una rete di trame. Il film segue le vicende di due innamorati che tentano, senza successo, di consumare la loro relazione platonica venendo continuamente inibiti dai tabù borghesi, dalla famiglia e dalle istituzioni religiose e militari. La visione, profondamente irriverente, satirica e grottesca, con cui Buñuel osserva gli eventi, svela un articolato insieme di «azioni e interazioni che si sviluppano in parallelo al narrato vero e proprio e che ne costituiscono l’autentico motivo portante. In questo film infatti, come nel precedente, l’attenzione dell’autore non è rivolta alla storia dei personaggi quanto al complesso degli elementi che la contrappuntano, la contraddicono o la intralciano». Mentre riscosse grandi consensi all’interno del gruppo surrealista, L'âge d’or scatenò l’indignazione tra i benpensanti. Il violento attacco al clero - come i vescovi che mutano in scheletri o l’alto prelato che, in abiti cerimoniali, viene scaraventato da una finestra - e la totale ridicolizzazione del falso moralismo dei potenti portarono a vietare la proiezione del film nelle sale pubbliche francesi fino al 1981.
La proclamazione della Repubblica - il 14 aprile del 1931 - e il graduale disfacimento del gruppo surrealista, lo spinsero a ristabilirsi in Spagna. Nel 1933, grazie a un modesto finanziamento dell’insegnante anarchico Ramón Acín, girò Las Hurdes (Terra senza pane), un documentario antropologico sulle disperate condizioni di vita degli abitanti dell’Estremadura, poverissima comunità autonoma della Spagna sud-occidentale. Per questa testimonianza scioccante l’autore si avvalse della sua «schiettezza estetica» per permeare ogni fotogramma di morte. Buñuel impresse nei suoi movimenti di camera una fluidità ed un'ampiezza straordinari, immettendo nella pellicola un gioco di contrasti estremante provocatorio e comunicativo. Nel 1934 convolò a nozze con la compagna Jean Rucar, che nello stesso anno mise al mondo Juan, primogenito della coppia. Con lo scoppio della guerra civile - il 17 luglio 1936 - e dopo l’uccisione di García Lorca, il regista prese la decisione di tornare in Francia. Anni dopo, narrando di quel periodo scellerato, avrebbe dedicato queste struggenti parole all’amico: «Federico è il più importante di tutti gli esseri umani che ho conosciuto. Non riesco a immaginare qualcuno simile a lui. Che si mettesse al pianoforte per imitare Chopin, che improvvisasse una pantomima, una breve scena teatrale, era irresistibile. Poteva leggere una cosa qualsiasi, e la bellezza usciva sempre dalle sue labbra. Aveva la passione, la gioia, la gioventù. Quando l’ho conosciuto alla Residenza universitaria, ero solo un atleta di provincia alquanto rozzo. Con la forza della nostra amicizia, lui mi ha fatto conoscere un altro mondo».
La permanenza a Parigi non durò che fino al 1939. Le sorti dell’Europa erano ormai segnate, e il secondo conflitto mondiale risultava imminente. Assunto a Hollywood per la consulenza di Cargo of Innocents - lungometraggio sulla guerra civile spagnola che non superò mai la fase di pre-produzione - partì per Los Angeles dove, nel 1940, la moglie Jeanne diede alla luce un secondo figlio: Rafael. Il rapporto con gli Studios si rivelò però fallimentare, e la famiglia si spostò a New York, dove Luis aveva trovato un impiego presso il Museum of Modern Art. Dopo poco tempo, la pubblicazione del libro La vita segreta (1942) di Dalí, in cui Buñuel veniva definito ateo - forte accusa per l’America puritana degli anni Quaranta - provocò il suo immediato licenziamento. Solo nel 1946 riuscì a entrare in contatto con Oscar Dancingers, un produttore francese che gli propose di realizzare dei film in Messico. Buñuel accettò e, dopo uno stacco di tredici anni dalla sua ultima regia, si trasferì a Città del Messico. Sebbene i primi lungometraggi finanziati da Dancingers fossero dei puri prodotti di confezione, diedero all’autore la possibilità di rientrare in confidenza con il mezzo, e di inserire, qui e là, quelle sfumature irriverenti che torneranno con maggiore prepotenza nel suo cinema successivo. Nonostante le limitazioni a cui fu soggetta la sua intera carriera, Buñuel ribadì, in ogni suo film, che il surrealismo poteva essere «la sola chiave di interpretazione del mondo e l’unica forma adeguata ad esprimerla».
Con Los olvidados (I figli della violenza, 1950), cronache di ragazzini della periferia che devono giornalmente fronteggiare abusi e criminalità, realizzò un autentico pezzo d’arte in cui lo spirito di denuncia sociale, già incontrato in Las Hurdes, si fondeva con l’inconscio surrealista. Non a caso il critico Giorgio Tinazzi affermò: «Los olvidados, opera apparentemente oggettiva, dimostra che Buñuel intende la lezione surrealista come bisogno di incidere sulla realtà, di deformarla ma anche di svelarla con gli stessi strumenti dell’oggettività». Dopo essersi aggiudicato il premio per la miglior regia al Festival di Cannes con Los olvidados - riconoscimento che risollevò l’opera dal clima di ostilità con cui era stata accolta in Messico, regalandogli un grande, quanto inaspettato, successo in Europa - il regista divenne sempre più prolifico. Con i successivi Susana (Adolescenza torbida, 1951), Subida al cielo (Salita al cielo, 1952) e La ilusión viaja en tranvía (L’illusione viaggia in tranvai, 1953) consolidò i suoi peculiari schemi narrativi, immettendo, anche nei lungometraggi maggiormente commerciali, degli elementi inconsueti, che isolavano i suoi lavori dai tipici prodotti della così detta Epoca d'Oro del cinema messicano. In Él (Lui, 1953) - storia di un ricco possidente quarantenne che, giunto illibato al matrimonio, sviluppa la paranoica convinzione di essere perennemente raggirato da tutti coloro che lo circondano, compresa la giovane moglie - Buñuel contrappose quell’apologia dell’amore vista in L'âge d’or - fatta di liberazione da qualsiasi tabù - con la sua degradazione borghese. Attraverso uno studio sull’ossessione, e probabilmente influenzato dalla lettura di Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud, l’autore analizzò il diverbio tra essere e apparire, i nessi tra sesso e denaro, e il soffocamento, che porta all’autodistruzione, dei più oscuri impulsi umani.
Con Abismos de pasión (Cime Tempestose, 1953) Buñuel coronò il sogno di filmare il celebre romanzo di Emily Brontë, testo che per la sua prorompente irruenza rientrava nel corollario delle opere letterarie predilette dai surrealisti. Il regista diede vita al suo secondo adattamento letterario dopo Robinson Crusoe (Le avventure di Robinson Crusoe, 1952) sconvolgendo a tratti la storia ma rimanendo, grazie alla sua visione allucinatoria e straniante, fedele allo spirito decadentista del libro. In Ensayo de un crimen (Estasi di un delitto, 1955) proseguì invece la sua spietata disamina della «perversa» società capitalista. Attraverso il plot di un uomo ossessionato da una sequela di delitti mai commessi, diede vita a un lungometraggio condito da un insolito humor nero. Così Gianni Volpi definì l’opera: «Una serie di surrealistici atti mancati, inestricabilmente legati a freudiani sensi di colpa di un educazione borghese e cattolica. Disseminato di tracce e oggetti inquietanti, tra forni di fiamme genialmente horror, manichini come doppi, rasoi ripresi da Un chien andalou, carillon di magia assassina, tra feticismi e fantasie come inserti rudemente dialettici, Ensayo de un crimen è un gioco sublime, entomologico di criminalità inespressa, un gioco di eros e impotenza sin nella morte».
Il successivo El río y la muerte (Le rive della morte, 1955), in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, fu un’occasione per proseguire l’indagine - cominciata in Las Hurdes e perpetuata in Los olvidados - sulla sopravvivenza dell’essere umano in contesti estremi. Sempre più stimato da critica e pubblico, si riavvicinò alla cinematografia del vecchio continente dirigendo il melodrammatico Cela s'appelle l’aurore (Gli amanti di domani, 1955) e i distopici La Mort en ce jardin (La selva dei dannati, 1956) e La Fièvre monte à El Pao (L’isola che scotta, 1959), film di coproduzione franco-messicana. Del 1958 è invece Nazarín, uno dei picchi imprescindibili del suo intero operato, e primo capitolo di un'ipotetica trilogia - continuata con Viridiana (1961) e terminata con Simón del desierto (Intolleranza: Simon del deserto, 1965) - dedicata ai «santi falliti». Incorniciato da una straordinaria bellezza formale, e popolato da figure di biblica memoria - prostitute, mendicanti, peccatori, assassini - il film è una rivisitazione, al rovescio, delle gesta di Cristo. Il protagonista, Padre Nazario, è un uomo che, a differenza del messia, fallisce continuamente. I suoi atti di fede provocano crisi esistenziali, isterie religiose o violenti rifiuti - da manuale la sequenza in cui una donna malata di peste e di fronte alla morte respinge l’estrema unzione del prete per farsi confortare dal bacio dell'amante - fino a portare l’uomo a odiare la propria vocazione. Inoltre, nel lungometraggio, Buñuel non si risparmiò l’occasione di lanciare, attraverso l’ambientazione - il Messico di fine Ottocento sotto la dittatura di Porfirio Díaz - una chiara stoccata al regime franchista. Il Festival di Cannes, riconoscendo nuovamente il talento visionario del regista, assegnò a Nazarín il Prix international.
Nel 1961 Viridiana segnò la prima, ispirata, collaborazione con il produttore Gustavo Alatriste che, a differenza di Dancingers - fedele amico di Buñuel, ma uomo indissolubilmente legato alle logiche di mercato - concesse all’autore piena libertà creativa. Con il suo rientro nell’Onu e il consolidamento del potere di Francisco Franco, la Spagna si stava avviando verso un processo di pseudo-normalizzazione che comprendeva gesti di clemenza nei confronti degli «esuli traditori». Fu così che, convinto da Alatriste, il regista tornò a girare, dopo ventiquattro anni di assenza, un film co-prodotto e ambientato nella sua terra natia. Viridiana è la storia di una novizia che, in procinto di prendere i voti, viene richiamata nella dimora del vecchio zio. Giunta nella tenuta, la ragazza, si imbatterà in un carosello di personaggi - ognuno con le proprie ossessioni erotico-religiose - e assisterà ad una serie di episodi che arresteranno qualsiasi suo tentativo di avvicinarsi a Dio. Come una sorta di incubo spirituale disseminato di richiami al sacro - dalla piccola croce che si trasforma in un pugnale, alla corona di spine disintegrata dal fuoco, fino all’orgia blasfema dei vagabondi, che riproduce iconograficamente l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci - il film è una feroce, amara riflessione, sulla morte della fede e il crollo delle illusioni umane. L’opera scatenò l’indignazione generale, venendo dichiarata «inesistente» in Spagna e «vilipendiosa» dalla Chiesa cattolica. Anche in questo caso il Festival di Cannes corse in soccorso di Buñuel consegnando al lungometraggio la Palma d’Oro in ex-aequo con Une aussi longue absence (L’inverno ti farà tornare, 1961) di Henri Colpi.
Barocco, criptico, imperscrutabile, con El ángel exterminador (L’angelo sterminatore, 1962) il regista firmò uno dei suoi lavori più celebri, e cerebrali. Da una sceneggiatura scritta anni prima - e inizialmente intitolata Los naufragos de la calle de la Providencia - la pellicola è un esasperante, quanto diabolico, gioco al massacro che non risparmia colpi a nessuno. La trama segue un gruppo di esponenti dell’alta società messicana che, radunatisi in un salotto in occasione di una cena mondana, non ne riescono, per qualche strano sortilegio, più ad uscire. Affamati, terrorizzati e alla deriva mentale e fisica, caleranno le loro maschere di perbenismo, svelando tutta la loro inconsistenza. Sotto la tagliente ironia delle battute, Buñuel sfoga il suo rammarico nei confronti di una classe che, sentendosi al di là del bene e del male, pecca, ineluttabilmente, di egoismo e cupidigia. Italo Calvino definì l’opera «un mito moderno, oscuro eppure carico di senso, e tutto dentro alla crisi occidentale e cristiana», mentre Glauber Rocha sottolineò come il regista si servisse del cinema «per far scontrare i suoi personaggi con il loro inconscio». Con il seguente Le journal d'une femme de chambre (Il diario di una cameriera, 1964), una produzione interamente francese, Buñuel diede inizio a una prolifica collaborazione con Jean-Claude Carrière, talentuoso scrittore dalle forti tendenze surrealiste, con cui firmerà, a quattro mani, altre sei sceneggiature.
La difficile condizione in cui versava la cinematografia messicana durante gli anni Sessanta influenzò drasticamente la sua opera successiva. Simón del desierto (Intolleranza: Simon del deserto, 1965), che si ispira, e reinventa, la bizzarra biografia di Simeone lo stilita - asceta vissuto tra il 390 e il 459 d.C. - fu un film segnato da enormi problemi realizzativi. Gustavo Alatriste - produttore di Viridiana e El ángel exterminador - trovandosi nel mezzo di una grave perdita finanziaria, fu costretto a interrompere l’intero progetto e a chiedere a Buñuel di montare la pellicola con il solo materiale che era riuscito, fino a quel momento, a filmare. Nonostante l’eliminazione di scene chiave, e il drastico cambiamento della durata - che trasformarono l’opera in un mediometraggio di 45 minuti - Simón del desierto risulta una dei lavori che meglio esprimono la visione dell’autore sul mondo e sulla spiritualità. Buñuel una volta si definì «ateo per grazia divina», una frase erroneamente interpretata come una dichiarazione di miscredenza. Ciò che molti paradossalmente ignorano, è il fatto che il cineasta riuscì, invece, a creare un sua forma di misticismo cinematografico che rileggeva, e metteva in discussione, i dogmi del Cristianesimo. Ripercorrendo attentamente la sua filmografia, costantemente ispirata dalla religione e dal racconto picaresco, ci si renderà facilmente conto di come sia erroneo definirlo totalmente privo di una sua, seppur personale, fede. Nonostante tutte le peripezie della sua lavorazione, Simón, presentato in concorso alla ventiseiesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, si aggiudicò il Leone d’Argento.
La vittoria veneziana del gran premio della giuria fu un episodio premonitore, poiché, nel 1967, Buñuel tornò in concorso con Belle de jour (Bella di giorno) accaparrandosi il Leone d’Oro, ed entrando, definitivamente, nel gotha dei grandi autori del cinema. Questo trionfo rappresentò un’inaspettata sorpresa. Infatti, solo pochi mesi prima, il film era stato scartato dal comitato di selezione del Festival di Cannes per «insufficienza artistica». Belle de jour, ispirata da un romanzo di Joseph Kessel, è un’opera che si aggira tra le influenze novellistiche di de Sade - autore «scandaloso» di estrema rilevanza nell’universo buñueliano - e che analizza i segreti, e le nevrosi, dei suoi personaggi avvalendosi di un punto di vista freudiano. La storia è quella di Séverine, giovane e ricca donna alto-borghese che, sposata ad un promettente chirurgo, si ritrova insoddisfatta della propria condizione. Sulla scia di questo malessere deciderà di recarsi in una casa di appuntamenti dove si prostituirà, in segreto, nelle ore diurne. La pellicola è caratterizzata da una continua oscillazione tra uno sguardo onnisciente sugli eventi narrati e la personale percezione della protagonista, un’oscillazione che porta lo spettatore a non saper più distinguere tra la realtà e l’immaginazione. E così si vaga, fra episodi che potrebbero essere irreali oppure no, fantasie, erotismi inespressi e characters che, alle volte, sembrano solo delle proiezioni partorite dalla mente di Séverine. Questo insieme di elementi rendono Belle de jour un tassello fondamentale nella descrizione che Buñuel compie della labile linea che separa la dimensione fisica dal subconscio.
Ormai riconosciuto come cineasta di fama mondiale, e alla soglia dei settant’anni, Buñuel realizzò La Voie lactée (La via lattea, 1969), un film fino a quel momento profondamente desiderato. Tramite la cronaca del cammino che due clochards compiono da Parigi a Santiago de Compostela, il regista traccia una sorta di contro-storia del cattolicesimo. Tutti i personaggi del film si ritrovano così testimoni, o protagonisti , di una serie di episodi - che passano senza soluzione di continuità dal Novecento all’Età dei Lumi, dal Medioevo all’era di Gesù Cristo - dibattendo e interrogandosi continuamente.
Quando, nel 1970, Tristana venne selezionato per essere presentato fuori competizione a Cannes, le incomprensioni nate con il rifiuto di Belle de jour, tra Buñuel e quel festival che tante volte lo avevo protetto e riconosciuto, sembrarono scomparire. La storia, rispetto alla fonte letteraria, venne spostata dalla Madrid ottocentesca alla Toledo degli anni Venti e Trenta, una scelta di modernizzazione già effettuata per Le journal d'une femme de chambre. Il seguente Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia, 1972), definito dal critico Claudio G. Fava come «un’antologia che ha le movenze di una commedia ironica e il sapore di una favola tragica», permise all’autore di essere acclamato da quell’America che troppe volte lo aveva bistrattato. Alla cerimonia degli Academy Awards del 1973 l’opera venne nominata nella categoria per la migliore sceneggiatura originale e incoronata con l’Oscar al miglior film straniero. Insieme a L'âge d’or e El ángel exterminador, Le charme discret de la bourgeoisie è l’ultimo dei tre «grandi attacchi» che il regista sferra verso la classe borghese nell’arco di quarantadue anni. Nei lungometraggi è interessante notare come certi rituali del borghesismo che Buñuel analizza si evolvano, mentre altri rimangano, monoliticamente, immutati. La storia di Le charme ruota attorno a un gruppo di esponenti del bel mondo parigino - tra cui l’ambasciatore di Miranda, un’immaginaria repubblica delle banane ricca e corrotta - che tentano, più e più volte di organizzare una cena, venendo continuamente inibiti da bizzarri accadimenti. Attraverso digressioni e salti temporali l’autore sottolinea i peccati di un’umanità che, sotto il velo del distacco e della raffinatezza, nasconde un universo dove vizio e malaffare regnano sovrani. Il film è interamente costruito su un insieme di situazioni paradossali incastonate le une nelle altre con ingegnoso controllo, e attraverso le quali si può intravedere il barlume di una realtà ancor più folle del sogno.
In quello stesso periodo Buñuel, di soggiorno a Los Angeles per presentare il suo nuovo film, venne invitato da George Cukor ad una reuninon dove parteciparono alcuni dei più grandi nomi della regia. Nella sua biografia il cineasta descrisse quello storico avvenimento: «Fu una colazione memorabile. Arrivato per primo nella bellissima casa di Cukor vidi entrare, semi portato da un maggiordomo tutto muscoli, un vecchio spettro tentennante, con l'occhio bendato, che riconobbi come John Ford. Con mia grande sorpresa - pensavo che ignorasse tutto di me - mi si avvicinò, sedette sul divano e disse che era felice del mio ritorno a Hollywood. In quel momento, udimmo dei passettini strascicati sul pavimento. Mi voltai, era Hitchcock, bello, roseo e rotondo, che mi veniva incontro a braccia tese. Non avevo mai visto neanche lui ma sapevo che mi aveva spesso lodato pubblicamente, pretese di stare alla mia sinistra durante la colazione. Mi parlava della sua cantina, della sua dieta - mangiava pochissimo - e soprattutto della gamba tagliata in Tristana; Ah quella gamba! Poi, arrivarono William Wyler, Billy Wilder, George Stevens, Ruben Mamoulian, Robert Wise e un regista molto più giovane, Robert Mulligan. Da Ben-Hur a West Side Story, da A qualcuno piace caldo a Notorius, da Ombre rosse al Gigante…quanti film intorno a quella tavola. Il giorno dopo, Fritz Lang mi invito a casa sua. Troppo stanco, non era potuto venire a colazione da Cukor. Quell'anno, di anni, io ne avevo 72, e Fritz Lang più di 80. Ci vedevamo per la prima volta. Chiacchierammo per un’ora ed ebbi il tempo di dirgli quanto fossero stati decisivi, i suoi film, nella scelta della mia vita. Poi, prima di lasciarlo, cosa che non faccio mai, gli chiesi una foto con dedica».
La formula di una realtà totalmente grottesca trovò in Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà, 1974) la sua forma definitiva. L’inconsueta struttura del film, suddiviso in una serie di sketch connessi tra loro attraverso la logica del dominio - ossia l’arrivo di nuovi personaggi che, pian piano, si sostituiscono a quelli già presenti sulla scena - permise a Buñuel di esprimere senza freni «l'amore tipicamente surrealista per il rovesciamento», e quel suo «gusto per l'allegoria clamorosa». E così il film si frantuma in una catena di sequenze che ci mostrano una società totalmente ribaltata: da una concitata riunione di preti che si contendono a poker una serie di santini della Vergine Maria, a uno struzzo che fa irruzione nella camera da letto di due coniugi, da una classe di gendarmi che si comportano come scolaretti fino a una cena in cui gli invitati siedono, attorno al tavolo, su dei water, per poi recarsi in bagno dove consumano, in modo furtivo e animalesco, il loro pasto. Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), ultimo film del regista, ruota attorno alla travagliata storia d’amore di Mathieu, un danaroso uomo di mezza età, e Conchita, giovane ballerina spagnola. La caratterizzazione della protagonista femminile ha una particolarità: Buñuel scelse due attrici - Ángela Molina e Carole Bouquet - per interpretare il medesimo ruolo. Così, per tutto il corso della pellicola, le due interpreti si alternano continuamente, regalando al personaggio multiformi sfaccettature e accrescendo il suo grado di ambiguità. La libertà stilistica, e la totale immersione nell’assurdo delle ultime, grandi, opere di Buñuel, sembra riconnettersi direttamente a L'âge d’or e Un chien andalou. Quasi che il regista, in questa fase finale della sua carriera volesse ritornare spiritualmente ai suoi esordi, per ritrovare quella totale «provocazione estetica» e quel «fermento artistico» che aveva contraddistinto i suoi primi anni da cineasta.
Tormentato da problemi di salute spirò il 29 luglio del 1983 a Città del Messico - rimasto suo domicilio fisso dal 1946 - con Jean Rucar al suo fianco, la moglie che mai lo aveva abbandonato. L’irriverenza poetica, la brutalità delle sue ammonizioni, e la capacità di vedere oltre le cose attraverso l’occhio impietoso della macchina da presa hanno scolpito Buñuel nell’eterna memoria del cinema. Le origini dell’estro buñueliano sono il frutto delle esperienze di una vita vissuta perennemente in bilico tra follia e lucidità, sogno e universo materiale, santità ed eresia.